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Il progetto

Nell’autunno del 1967, Louis Malle viene invitato dal Ministero degli Esteri francese a presentare in India una serie di otto film transalpini (incluso Le feu follet da lui firmato pochi anni prima, nel 1964), all’interno di un’iniziativa di promozione internazionale del cinema francese36.

Alla partenza per Bombay, anche Malle come Rossellini sta attraversando un periodo particolarmente difficile della sua carriera professionale e della sua vita sentimentale, che porta alla fine del matrimonio con Anne-Arie Deschodt e a molte difficoltà produttive in relazione alle riprese de Le Voleur e dell’episodio intitolato William Wilson del film collettivo Tre passi nel delirio37. Malle,

in virtù del programma prefissato dal Ministero, deve trascorrere due settimane nel subcontinente, durante il quale ha il compito di presenziare alle proiezioni di Delhi, Calcutta, Madras e Bombay. Il periodo di «vacanza», in realtà, dura molto più del previsto, quasi due mesi, trascorsi a girare nel sud del paese. Racconta in un’intervista:

«[prima di partire] Sapevo che l’India sarebbe stata uno shock, ma è stato molto più forte di quanto mi attendessi. […] Dopo questi due mesi, ho realizzato che ancorché l’India fosse impossibile da comprendere per uno straniero […] mi affascinava a tal punto da sentire il bisogno di ritornare»38.

Il proposito, in effetti, si realizzerà dopo brevissimo tempo. Raccolti finanziamenti tra amici produttori, Malle riparte per l’India il 5 gennaio del 1968, questa volta con il proposito di filmare. Porta con sé due suoi storici collaboratori, il direttore della fotografia Étienne Becker e l’ingegnere del suono Jean Claude Laureux, due cineprese 16 mm. (una Èclair e una Harper) e l’apparecchiatura necessaria per la registrazione audio. In verità, a differenza di altri casi, Malle non ha un progetto cinematografico definito, né per la preparazione di una fiction, né per la predisposizione di un documentario.

36 Per un approfondimento sull’esperienza indiana di Malle si rimanda, oltre ai titoli citati nelle successive note, anche a:

H. Frey, Louis Malle, Manchester, Manchester University Press, 2004, pp. 54-58; S. C. Nathan, The Films of Louis

Malle. A Critical Analysis, Jefferson, McFarland, 2011, pp. 112-133; I. Vandeveldea, Outsider Films on India 1950– 1990, «Historical Journal of Film, Radio and Television», Vol. XXX, n. 2, 2010, pp. 248-250; A. A. Yang, Images of Asia. A Passage Through Fiction and Film, «The History Teacher», Vol. XIII, n. 3, Maggio 1980, pp. 351-369; F.

Vergerio, G. Zappoli (a cura di), Louis Malle. Tra finzione e realtà, Bergamo, Moretti & Vitali, 1995.

37 L. Malle, L’Inde fantôme. Carnet de voyage, Parigi, Gallimard, 2005. Per altri dettagli si veda anche la biografia scritta

da Pierre Billard: Id., Louis Malle, le rebelle solitaire, Parigi, Plon, 2003.

Il mio proposito era di partire per Calcutta, guardarmi intorno ed eventualmente iniziare a filmare. Nessun piano precostituito, nessuno script, nessun equipaggiamento per l’illuminazione, nessun committente già disposto a distribuire il film. […] In quel momento di crisi della mia vita, quando stavo cercando di rivalutare tutto quello che avevo fatto per andare più avanti, l’India era una perfetta tabula rasa: era un modo per ricominciare da capo39.

Il secondo soggiorno dura circa cinque mesi. A metà maggio Malle è di ritorno a Parigi. Come racconta in diverse interviste40, la tempistica è piuttosto «bizzarra», poiché siamo nel mezzo del

maggio parigino e la capitale è praticamente immobilizzata da manifestazioni, scioperi, cortei per opera di studenti, operai, intellettuali (tra cui molti colleghi dello stesso Malle). Da un certo punto di vista anche il ritorno alla vita «normale» significa immergersi in una «realtà altra» che il cineasta francese condivide ma che non ha avuto modo di vivere in prima persona. A ogni modo, per diverse settimane nessun laboratorio di sviluppo della pellicola, né alcuno studio di montaggio possono accogliere il regista. Solo a ottobre, può finalmente mettere mano al materiale raccolto insieme alla montatrice Suzanne Baron. Trenta ore di girato, registrate senza un piano di lavorazione preciso e un’idea di come allestire il tutto, costringono Malle e Baron innanzi a un immane lavoro di sintesi (problemi analoghi avranno Ivens e Loridan con Comment Yukong déplaça les montagnes e in parte Antonioni con Chung Kuo - Cina). Si decide di separare tutte le riprese fatte nella capitale dello stato del Bengala Occidentale e di preparare un documentario specifico della durata di 105 minuti e intitolato semplicemente Calcutta. Con il restante materiale, per quasi un anno, Malle e Baron lavorano alla predisposizione di un documentario televisivo in sette puntate di circa cinquanta minuti l’una, da proporre alla televisione francese e a quelle internazionali. Calcutta viene presentato in anteprima a Cannes nel maggio del 1969, la prima puntata di L’Inde fantôme (La caméra

impossible) viene trasmessa dal canale francese Antenne 2 venerdì 25 luglio dello stesso anno, con la

programmazione delle restanti puntate, una volta a settimana fino al 5 settembre. In seguito viene preparata un’edizione del documentario televisivo e di quello cinematografico in inglese per il mercato anglosassone e americano41.

39 Ivi, p. 68-69.

40 Si veda ad esempio: J. L. Comolli, J. Narboni, J. Rivette (a cura di), Calcutta. Entretien avec Louis Malle, «Cahiers du

cinéma», n. 211, Aprile 1969, pp. 24-25 e 60-61; J. Decock (a cura di), Entretien avec Louis Malle. Un cinéma du regard, «The French Review», Vol. LXIII, n. 4, Marzo 1990, pp. 671-678.

Proprio la versione anglosassone genera reazioni inaspettate. La proiezione di Inde fantôme alla BBC provocherà – siamo nel 1971 – un’ondata di proteste da parte degli emigranti indiani di stanza nel Regno Unito e – subito dopo – da parte delle istituzioni indiane che non avevano ancora avuto modo di vedere il film terminato. Come già Rossellini in India, e Antonioni in Cina, anche Malle subirà una campagna stampa avversa, con attacchi piuttosto virulenti da parte dell’opposizione al partito del Congresso (allora al potere sotto la guida di Indira Gandhi) per ragioni evidentemente strumentali alla politica locale. Al regista di Ascenseur pour l’échafaud viene di fatto vietato il ritorno nel subcontinente, nonostante in molti punti dei suoi documentari – che non nascondono ovviamente le pagine di povertà e miseria viste a Calcutta e altrove – si manifesti una forte simpatia per il paese, la sua cultura, la sua religione, i suoi riti. Tuttavia la sintesi realizzata dal cineasta francese non restituisce, per alcuni indiani, l’immagine del proprio paese, certamente non una idilliaca e priva di contraddizioni. Ecco un ulteriore episodio che testimonia quanto sia stato difficile, per le produzioni odeporiche dei nostri cineasti, far coincidere le proprie visioni con quelle dei paesi visitati.

Luoghi visitati, durata del soggiorno, location.

Come già ricordato poc’anzi il primo viaggio di Malle in India – effettuato per conto del Ministero degli Esteri e volto a promuovere il cinema francese – dura due mesi ed è una sorta di vacanza o, se si preferisce, di esperienza privata. Il secondo, camera in spalla, è più lungo e va dal gennaio al maggio del 1968. Dalle informazioni raccolte, la prima città in cui Malle s’installa è un villaggio rurale a cento chilometri da New Dehli, nello stato di Haryana, con lo scopo di conoscere la vita agricola del subcontinente, quella che egli giudica, nel commento sonoro, la più «autentica». Trascorse due settimane immerso nella vita agricola, il regista si dirige verso Calcutta/Kolkata nel Bengala occidentale, dove si ferma alcuni giorni (da metà gennaio a buona parte di febbraio). Oltre alle riprese che comporranno Calcutta, ha modo di tornare a frequentare Satyajit Ray, già conosciuto nel precedente viaggio e incontrare l’alta borghesia della città. I suoi appunti scritti e filmati ci dicono che nella seconda metà di febbraio è già in viaggio, con la sua troupe, in direzione sud, prima per visitare la zona di Chennai (Madras), nello stato federato del Tamil Nadu e poi ancora più giù e più a ovest nel Karnataka (Bangalore, Mysore) e nel Kerala. Alcuni dei luoghi o dei siti culturali visitati sono quelli già attraversati anni prima da Renoir e da Rossellini, da Pasolini e

Moravia o dal solo Pasolini, senza contare gli analoghi itinerari seguiti da scrittori come Manganelli e Tabucchi o Gozzano, anche loro in «pellegrinaggio» nell’India tropicale. Ci riferiamo a cittadine o centri turistici come Madurai, Goa, Trivandrum, le lagune del Malabar, Cochin, Mysore, senza contare le metropoli come Nuova Delhi o Bombay. Accanto a nomi già incontrati, ve ne sono però altri meno noti. Malle transita infatti anche da Chamundi, Tiruvvamalai, Rameshvaram, Trivandrum, le foreste di Periyar e le montagne di Nilgiri, senza contare gli insediamenti in comunità tribali che vivono in luoghi remoti come i Bomdo o i Toda.

Sinossi di Calcutta

Il documentario comincia mostrando le immagini di uomini che fanno le abluzioni. È il febbraio del 1968. La macchina da presa si sofferma sugli uomini che si lavano e che sciacquano i propri vestiti nelle acque del mare, accanto a navi mercantili, in un’acqua sporca, fangosa, melmosa. La colonna sonora restituisce la litania di una preghiera e la ripetitività di un motivo realizzato con le percussioni, oltre ai suoni di clacson e altri rumori di città. Usciti dall’acqua, gli uomini si fanno massaggiare e ungere con particolari olii protettivi.

Un enorme ponte di ferro è attraversato da centinaia di passanti, da autobus e automobili. Le strade sono piene di gente. Accanto ai pedoni, ecco carretti che trasportano materiali di vario tipo. Un mendicante, sdraiato al centro della carreggiata, blocca il traffico. Altri questuanti dormono per terra o restano accucciati sul ciglio della strada. Intanto le stazioni dei treni si riempiono di pendolari che saltano da un convoglio all’altro o si dirigono, diligentemente, verso le uscite, spesso vestiti all’«occidentale» (giacca e cravatta). Osserviamo un vigile urbano un po’ spaesato, gli autobus colmi all’inverosimile di passeggeri, una mandria di bovini e un gregge di pecore che attraversano la città, in mezzo al traffico veicolare, una mucca legata a un palo. Le immagini della vita di strada di Calcutta si susseguono, senza sosta. Mucche, uomini che dormono per terra o in tuguri, suonatori, un bambino nudo, due lottatori che combattono in una piazza, un anziano che lava elefanti, osservato da centinaia di persone, sadhu che passeggiano, venditori, giocatori di carte, anziane donne che mangiano la loro razione di riso con le mani.

Un giovane pellegrino di vent’anni, senza più averi, avvolto solo in una coperta di lana, parla innanzi alla macchina da presa. La voce del regista traduce le poche battute di dialogo tra i due: «Perché ha abbandonato tutto

alla sola età di vent’anni?» «Perché la vita è un’illusione». Uomini e donne, vecchi, malati e morenti vengono

raccolti dalla strada e portati in una struttura di assistenza gestita dall’ordine cattolico delle suore di Madre Teresa. La macchina da presa visita la struttura riprendendo uno a uno i suoi ospiti, spesso riprendendoli in primi e primissimi piani, nella loro apparente calma.

Fuori, intanto, le strade di Calcutta sono sempre piene di gente che cammina. Una manifestazione organizzata dal partito comunista e dal fronte popolare occupa le strade antistanti il municipio della città per protestare contro il ribaltamento dell’esito delle elezioni tenute pochi mesi prima e che avevano visto uscire vincitori i partiti di sinistra. I cortei si svolgono – a detta del cineasta che commenta in voice over – senza alcuna violenza. Le donne con le bandiere arancioni che sfilano in fila indiana davanti al palazzo comunale appartengono a organizzazioni femminili di ispirazione religiosa. Altri gruppi, più numerosi, appartengono ai diversi partiti comunisti che esistono nel paese: uno di «destra», uno di «sinistra» più alcune organizzazioni di ispirazione maoista represse dagli stessi comunisti più «moderati». Intanto vediamo alcune donne fermate dalla polizia e caricate su una camionetta. Attendono loro tre giorni di fermo in prigione, spesso insieme ai loro bambini.

Ora entriamo nel quartiere di Kumortuli, nel nord della metropoli, dove si stanno allestendo i preparativi per la festa popolare in onore di Sarasvatī, dea della conoscenza e delle arti e protettrice degli studenti. Vengono costruite e disegnate molte statue che rappresentano la divinità, usate poi per la processione e vendute ai fedeli. Le persone in strada iniziano a radunarsi, ognuna impegnata in attività (balli, canti, esecuzioni musicali) che possano essere beneauguranti per la festività. Ogni abitazione mette in mostra, per un’intera settimana, le statue costruite e decorate. Gli studenti delle università di Calcutta sono i più attivi nel corso della processione festivaliera, ballando e suonando davanti alle statue della dea, allestendo o seguendo i carri allegorici che attraversano il quartiere nel corso di tutta la notte. La processione giunge infine ai bordi del mare, dove la maggior parte delle statue raffiguranti la divinità viene lanciata nell’acqua in attesa che affondi. Anche parti dei carri allegorici vengono affidati alle acque.

Siamo nell’ippodromo della città – uno dei luoghi già visitati da Rossellini per il suo documentario televisivo – dove alle corse dei cavalli assistono gli strati della popolazione più ricchi, generalmente vestiti all’occidentale (all’inglese), tanto gli uomini (giacca e cravatta) quanto le donne (tailleur e trucco da riviste patinate). Sullo sfondo si staglia il Victoria Memorial Hall, un grande mausoleo costruito in memoria della Regina Vittoria, imperatrice dell’India, la principale attrazione turistica della città. La presenza d’indiani occidentalizzati e la visione del memoriale, consentono al regista, sempre in voice over, di ricordare il passato coloniale del paese e in modo particolare della città, elencando i danni economici e sociali provocati dalla presenza inglese, in modo particolare per quanto riguarda la sottrazione di risorse e beni primari e dunque l’impossibilità di sviluppo economico della popolazione autoctona. Le parole del regista creano, così, un attrito sonoro/visivo con immagini che invece mostrano «innocui» uomini e donne indiane benestanti, apparentemente felici, che si rilassano assistendo alle corse dei cavalli o giocando al Royal Calcutta Golf Club.

Nelle periferie della città continuano a fiorire industrie specializzate nella produzione di iuta, produzione intensiva che ha sottratto appezzamenti alla produzione di beni primari come il riso che infatti – ricorda Malle – scarseggiano nella regione. La macchina da presa entra in una di queste fabbriche, con macchinari tanto grandi quanto rumorosi, alla cui catena di montaggio si accalcano diversi operai.

Vediamo gli operai uscire dalle fabbriche e riempire, come il solito, i marciapiedi e le strade del quartiere. Il regista ricorda che la manodopera che lavora in questi stabilimenti è composta per la maggior parte da rifugiati giunti dal Pakistan, non è sindacalizzata, non è sufficientemente formata per competere nel mercato internazionale. Poco lontano sorge una ferrovia privata, utilizzata dagli abitanti delle periferie e delle campagne, per andare nel centro della città e per vendere i prodotti coltivati nelle rispettive terre. Si tratta di una vecchia linea ferroviaria che la municipalità intende sopprimere e che invece consente a molte persone di trasferirsi in modi economici (persino gratuitamente, visti i molti passeggeri che si sistemano sui tetti dei vagoni) nel cuore pulsante dell’economia cittadina. Ci avviciniamo ora ai mercati generali, seguendo contadini che trasportano in grandi giare appoggiate sulla testa le merci da vendere. È la volta di immagini banchi di frutta e verdura, immersi nel classico frenetico contrattare di ogni mercato cittadino.

Ora la macchina da presa segue alcuni sadhu che passeggiano per le strade di Calcutta, sono poverissimi, pregano e viaggiano da una città sacra all’altra. Poi le riprese si concentrano sul commercio di fiori usati soltanto per i riti religiosi, come decorazione delle allegorie e delle rappresentazioni divine, in modo particolare di Kali e Shiva, oppure durante le processioni funebri. Malle si attarda a seguire uno di questi rituali, guidato dal parente più prossimo del defunto e da un religioso. La vestizione, le preghiere in sanscrito, la copertura del corpo con della legna, l’accensione della pira sacra, le invocazioni di coloro che assistono al culto. Nessun dramma, nessuna sofferenza traspare da chi partecipa alla processione funeraria, ma una serenità dovuta alla consapevolezza che l’anima del defunto si reincarnerà in un altro corpo, umano o animale.

Adesso scendiamo in una bidonville costruita nel centro della città. Se possibile, le immagini che ci offre il documentario sono ancor più desolanti, dal momento che gli abitanti di fatto vivono per la strada, tra cumuli di macerie e immondizie. Alcune donne, intanto, trasportano, appoggiandoli sul capo, decine e decine di mattoni per un cantiere dove si sta costruendo un grattacielo che ospiterà degli uffici. Gli operai sono numerosi e costruiscono l’edificio senza l’ausilio di alcun macchinario. Il regista si domanda come verranno occupati milioni e milioni di abitanti quando la tecnologia e la meccanizzazione giungerà anche in India. D’altronde tutto il trasporto di merci è realizzato manualmente, attraverso l’uso di carri, carretti o addirittura a forza di braccia, senza alcun vero mezzo di locomozione. I trasportatori – chiosa Malle – appartengono a un grande sottoproletariato urbano composto da giovani uomini immigrati dalle campagne o dalle nazioni vicine. Per ogni abitante di sesso femminile, a Calcutta ci sono due uomini.

Di notte, i portatori di risciò – quasi tutti provenienti dal Bihar, uno stato a nord del Bengala, al confine con il Nepal – si raccolgono vicino alla stazione per una cerimonia religiosa. Incenso, fiori, candele, campanelle suonate in continuazione e canti di preghiera costituiscono l’essenza di questa cerimonia sociale. Anche di notte la vita di Kolkata continua a essere brulicante di attività. La troupe di Malle ora visita una specie di mercato al coperto dove si vende ogni genere di conforto, dalle sigarette al vestiario, dai libri alle porcellane, ai tessuti. La maggior parte dei mercanti, aggiunge il regista, appartiene alla minoranza Marwari provenienti dal Rajasthan, all’altra estremità dell’India.

Ora è il turno della ripresa del matrimonio di una ricca famiglia della città (il padre della sposa è un industriale, membro del Rotary Club, rappresentante del Congresso) che mescola tradizioni culturali autoctone e forme di influenza occidentale. La sposa, giovanissima, vestita di rosso, arriva in una portantina. La cerimonia, che dura quaranta minuti, prevede una serie di rituali dal forte valore simbolico. Al rito matrimoniale segue un pranzo di nozze secondo modi non troppo dissimili da quelli che si svolgono in altre parti del mondo.

Giovani studenti urbanizzati incitano la folla con motti e parole d’ordine che ricordano quelli che, nello stesso anno, si potevano sentire per le strade delle capitali europee. S’inneggia alla rivoluzione, alla resistenza, a prendere esempio dalle lotte dei cinesi o dei vietnamiti. Attorno a loro centinaia di studenti. Si sentono boati, spari, lacrimogeni. La folla di ragazzi scappa, i poliziotti fanno una carica contro i manifestanti. Malle, riprende gli scontri dall’alto di un edificio e riesce a cogliere un manifestante ferito. Mentre i disordini continuano, con spari, cariche e arresti dei manifestanti, a pochi metri dai tafferugli si svolge una manifestazione religiosa pacifica. Ora siamo in una zona della città che ospita i lebbrosi. Malle sciorina alcune cifre terrificanti circa il numero di malati presenti nella capitale del Bengala: tra i settanta e gli ottanta mila contagiati. I volti segnati dalla malattia si susseguono, tutti ripresi in primo piano, così come i dettagli delle mani corrose dalla malattia, prive delle falangi, talvolta senza dita. I lebbrosi, in coda per il cibo distribuito da associazioni umanitarie internazionali, si accalcano davanti ai luoghi di distribuzione.

Ogni domenica nel parco Maidan, il più grande della città, si radunano migliaia di persone per assistere alle competizioni di lotta, per ascoltare dei predicatori che discettano su ogni argomento o per osservare giocolieri e prestigiatori. Altri intonano canti religiosi o recitano le epopee della tradizione letteraria hindu (il Rāmāyana e il Mahābhārata) fino a notte inoltrata.

Ora la troupe di Malle visita un altro slum. Gli abitanti vivono di fatto sulla strada: qui si lavano, mangiano, fanno piccoli lavoretti, appendono i vestiti o le coperte ad asciugare. Le poche case in muratura hanno affitti molto alti. Le fognature sono a cielo aperto. Mussulmani e hindu, quasi tutti fuoricasta, vivono a contatto gli uni con gli altri, cosa impensabile nei villaggi. Un lavoratore della ferrovia, intervistato dal regista, racconta qual è la sua condizione di vita. Più in generale chi vive in queste bidonville non riesce a fornire ai propri figli il necessario