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Accostandoci al campo semantico dell’ovvio, dobbiamo innanzi tutto ricordare che per ridurre, perimetrare e cercare di configurare in modo omogeneo un campo di ricerca quanto mai sfuggente abbiamo dovuto prendere decisioni brusche, arbitrarie, spesso dolorose, che qui è utile esplicitare e difendere prima di avviarsi nel percorso di indagine. Innanzi a una rete discorsiva e raffigurativa

ampia, complessa, reticolata, la necessità impellente di ridurre a dimensioni «umane» il campo di analisi ha trovato risposte in una serie di criteri stringenti che così decliniamo.

Fatta salva qualche eccezione, tutti i film che ci accingiamo a studiare:

§ Nascono da una reale (e perturbante) esperienza di viaggio verso est che ha previsto un minimo radicamento nelle realtà indigene visitate da parte del regista/viaggiatore (un soggiorno di qualche settimana/mese), con la conseguenza di un coinvolgimento in prima persona (accentuando ad esempio i tratti autobiografici) anche nella conformazione del film odeporico.

§ Sono realizzati esclusivamente nel continente asiatico e in particolare nelle tre aree culturali – indiana, cinese, giapponese (anche se non esclusivamente) – in cui la percezione di alterità e di distanza culturale e geografica si fa più marcata almeno rispetto ad altre aree più prossime alla nostra, come può essere ad esempio il Maghreb, altra regione storicamente investita dalle rappresentazioni orientaliste.

§ Come anticipato, sono girati durante un arco temporale che va all’incirca dalla metà degli anni Cinquanta all’inizio degli Ottanta, ovvero in quella stagione in cui la «modernità risoluta e consapevole» del cinema si dipana con maggiore intensità e in cui si afferma – attraverso la diffusione della cosiddetta «politique des auteurs» e del film d’essai – la centralità sociale della figura del regista inteso come «autore».

§ Sono firmati da personalità chiave del modernismo cinematografico e dunque rispondono anch’essi a quel fenomeno di radicale rinnovamento delle morfologie, delle narrazioni e delle abitudini raffigurative che dovrebbe caratterizzare questa generazione di cineasti, rispetto a quella precedente. Cercheremo di capire in che modo il viaggio verso il lontano, il diverso, l’esotico, contribuisce all’esperirsi di tali caratteri di trasformazione sintattica31.

Per altrettante ovvie ragioni di coerenza, si è dunque preferito non considerare, se non marginalmente e in funzione collattiva, pellicole che non rispondono a una o più caratteristiche tra quelle individuate, anche a costo di escludere opere egualmente interessanti e meritevoli di (altri, magari successivi) approfondimenti. Restano così nel fuoricampo cinematografico talora attivo e influente di questo studio le opere realizzate:

§ da autori modernisti europei in continenti diversi da quello scelto, compresi quei soggiorni in terre straniere – ad esempio a Cuba o in Cile per Ivens, Marker e Varda32 o in Africa per Pasolini,

31 Si rimanda comunque alla filmografia presente alla fine della tesi per una panoramica delle produzioni pienamente

considerate dallo studio e di quelle che invece sono state considerate, pur nell’interesse che esse suscitano, estranee dal nostro ambito di studio per le ragioni qui sopra spiegate.

32 Salut les cubains (Varda, 1963), Carnet de viaje (Ivens, 1961), Pueblo en armas (Ivens, 1961), ...A Valparaíso (Ivens su

Herzog, Rouch o Straub e Huillet33 – che possono assumere forme di significazione simili a quelle

individuate nei prossimi capitoli;

§ da autori modernisti che si accontentano di affrontare il fascino dell’alterità o dell’esotico orientale attraverso ricostruzioni immaginarie o fantastiche, dunque senza alcun viaggio (si pensi agli elefanti di Fellini34, ai cinesi di Godard35, alla Salomè di Bene36, ecc.), perché in assenza di un viaggio reale

la convocazione dell’immaginario «orientalista» apre a questioni del tutto simili a quelle che si possono rinvenire a partire dai film esotici mainstream, ad esempio quelli realizzati a Hollywood negli stessi anni;

§ da autori non europei (ad esempio gli avanguardisti americani37) o da registi che vivono sul

«confine» (difficile peraltro tracciarne uno) tra culture e continenti (i russi, i turchi, gli israeliani, come ad esempio Parajanov38, Tarkovskij39, Gitai40), i primi perché inseriti in circuiti culturali e

sociali del tutto peculiari e diversi da quelli europei, i secondi perché innerverebbero il testo di altre questioni complesse – ma dai cineasti odeporici meno sentite – come l’identità nazionale delle comunità in cui sono nati e cresciuti, i riti ancestrali delle proprie terre, la memoria collettiva, ecc.; § dopo la metà degli anni Ottanta (tranne alcune eccezioni che spiegheremo in seguito) perché con il

radicarsi di una stagione «postmoderna» e con l’avvento del digitale e il diverso organizzarsi del paesaggio mediale cambiano i paradigmi, le parole d’ordine, le chiavi di lettura anche nel cinema che rappresenta l’alterità;

§ da altri professionisti del viaggio come gli etnografi41, i turisti con le videocamere (i cosiddetti home

movie), i videoartisti, perché sollecitati ad usare i dispositivi di ripresa con finalità diverse da quelle

33 Citiamo a mo’ di esempio solo alcuni titoli rappresentativi di una filmografia «africanista» molto ampia. Ricordiamo

almeno Appunti per un’Orestiade africana (Pasolini, 1970), Troppo presto, troppo tardi (Trop Tot, Trop Tard, 1980), Les

maîtres fous (Rouch, 1955), Moi, un noir (Rouch 1958), Fata morgana (Herzog, 1968-70). 34 Il riferimento è in particolar modo a Intervista (1988).

35 Il film in questione è ovviamente La chinoise (1967).

36 L’opera «orientalista» per eccellenza di Bene è ovviamente la Salomè (1972) per una analisi della quale (sia nella sua

veste teatrale che cinematografica) si rinvia almeno a E. Baiardo, F. De Lucis, La moralità dei sette veli: la Salomé di

Carmelo Bene, Erga Ed., 1997 e a P. Giacchè, Carmelo Bene: antropologia di una macchina attoriale, Milano, Bompiani,

2007.

37 In particolare sono particolarmente importanti sul fronte della revisione delle forme e delle tematiche «orientaliste» i

film di Bill Viola (Hatsu Yume, 1981, I Don’t Know What It Is I Am Like, 1986), di Leslie Thornton (Adynata, 1983) e di Trinh T. Minh-ha (Surname Viet Given Name Nam, 1989, Shoot for the Contents, 1991) Per un approfondimento sul tema si veda J. Desmond, Ethnography, Orientalism and the avant‐garde film, «Visual Anthropology», Vol. 4, n. 2, 1991, pp. 147-160.

38 Quasi tutti i film di Parajanov, direttamente o indirettamente, fanno propri delle riflessioni sull’identità culturale del

regista e della regione dove è nato. Da qui molti riferimenti alle arti figurative emerse ad est degli Urali. Si vedano ad esempio Il colore del melograno (Sayat Nova, 1969), La leggenda della fortezza di Suram (Legenda o Suramskoj kreposti, 1984, Asik Kerib – storia di un ashug innamorato (Ashug-Karibi), 1988. Su Parajanov e sugli influssi del decorativismo orientalista georgiano, russo e parsi si rinvia a J. Steffen, The Cinema of Sergei Parajanov, Madison, University of Wisconsin Press, 2013.

39 Ci sono diversi riferimenti, diretti o indiretti, alle culture asiatiche nel cinema di Tarkovskij. Ad esempio una parte di Solaris (1972) è girata a Tokyo, altri riferimenti al Giappone si trovano in Sacrificio (Offret, 1986), mentre in opere

come Andrej Rublëv (1966) i richiami sono – come in Parajanov – riferibili alla storia dell’arte figurativa russa.

40 Il riferimento è al recente Kedma – Verso Oriente (2002) del regista israeliano.

41 Ci riferiamo ad esempio ai lavori di Robert Gardner (Dead Birds, 1963, Altar of Fire, co-regia J.F. Staal, 1976, Sons of Shiva, 1985, Forest of Bliss 1986), di Marek Jablonko (Undala, 1967), Karl Heider (Dani Films, 1974), Patsy e Timothy

estetico/narrative: i primi seguendo mandati di studio, i secondi di vacanza, i terzi di sperimentazione artistica inserita in altri circuiti distributivi (musei, performance, installazioni); § Sono stati altresì esclusi i film di genere, quelli di avventura, quelli di guerra o quelli erotici ad

ambientazione esotica, anche se girati in loco42, mentre sono stati presi in considerazione, ma

assegnando loro un minor grado di attenzione, film d’essai, documentari o film sperimentali firmati da cineasti meno noti, almeno in ambito internazionale, come i casi di Carlo Lizzani43,

Liliana Cavani44, Paolo Brunatto45, Massimo Bacigalupo46, Tonino De Bernardi47 (per restare alla

sola Italia).