Stanco della sua vita parigina, vedendo nel viaggio un’avventura poetica, un metodo di conoscenza concreta, un cimento, un modo simbolico per fermare l’invecchiamento, per negare il tempo percorrendo lo spazio, l’autore, interessato all’etnografia per il valore che egli riconosce a quella scienza nel chiarimento delle relazioni umane, si unisce a una spedizione scientifica attraverso l’Africa. Che cosa trova? Poche avventure, una ricerca che dapprima lo eccita, ma che presto si rivela troppo inumana per essere soddisfacente, un’accresciuta ossessione erotica, un vuoto emozionale di proporzioni crescenti. A onta del suo disgusto per i popoli civili e per la vita nelle metropoli, verso la fine del viaggio egli anela al ritorno. La tentata evasione è stata un completo fallimento e, comunque, egli non crede più nel valore dell’evasione. Pur tenendo conto della tendenza sempre più marcata del capitalismo a rendere impossibile ogni autentico contatto umano, non è forse all’interno della propria civiltà che un occidentale può trovare occasioni di autorealizzazione a livello emozionale? In ogni caso, imparerà di nuovo che qui come ovunque l’uomo non può sottrarsi all’isolamento: con il risultato che un giorno o l’altro, preda di nuovi fantasmi, andrà via di nuovo; ma stavolta senza illusioni.
Questo è lo schema dell’opera che l’autore forse avrebbe scritto se, avendo soprattutto a cuore di offrire un documento quanto più possibile oggettivo e sincero, non si fosse attenuto scrupolosamente al suo taccuino di viaggio, pubblicandolo così com’è. Questo schema è percepibile, per lo meno in forma latente, in tutto un diario di viaggio nel quale sono annotati alla rinfusa eventi, osservazioni, sentimenti, sogni, idee. Sta al lettore scoprire i germi di una presa di coscienza maturata solo ben dopo il ritorno, mentre segue l’autore tra popoli, luoghi e vicissitudini dall’Atlantico al Mar Rosso1.
La prière d’insérer, ricorda Genette, è una delle prime forme moderne di paratesto introdotta in Francia nell’Ottocento per favorire la commercializzazione dei prodotti editoriali2. Antesignana
dell’odierna «quarta di copertina», consisteva in un foglio volante inserito tra le pagine di un’opera, attraverso il quale lo scrittore e/o l’editore illustravano, in sintesi, il contenuto della nuova pubblicazione. Assolveva in parte anche al compito dell’attuale «comunicato stampa», poiché lo scritto, in origine, era annesso solo alle copie dei libri destinate a critici, direttori di giornali e riviste, distributori e librai, con preghiera di pubblicazione e diffusione. Quella poc’anzi citata è la prière
1 M. Leiris, Brisées, Parigi, Mercure de France, 1966, pp. 54-55. Ripubblicato nella traduzione italiana qui citata in: J.
Clifford, I frutti puri impazziscono etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 196- 197.
della prima edizione de L’Afrique fantôme (1934) di Michel Leiris3. Si tratta di un comunicato che
gioca a disorientare il lettore: non riassume né illustra i contenuti reali del diario di viaggio, ma solo quelli di un’opera in potenza, ammettendo, fin dal principio, il fallimento della spedizione a partire dalla quale si origina il volume («La tentata evasione è stata un completo fallimento»), l’esito letterario piuttosto confuso e disorganico («sono annotati alla rinfusa eventi, osservazioni…»), l’orizzonte significante affidato alla latenza e al non detto («sta al lettore scoprire i germi di una presa di coscienza maturata solo ben dopo il ritorno»).
Le pagine di questo capitolo costituiscono una sorta di prière della ricerca, nella direzione semantica imposta da Leiris, perché di quel testo ci convincono almeno tre aspetti in qualche modo riconducibili alle questioni da noi trattate. In primo luogo della prière intesa come comunicato di responsabilità editoriale ci persuadono la sua consistenza fisica, per essere più precisi la sua letterale volatilità, perché volatile e di facile dispersione, inafferrabile e volto alla sfuggevolezza è il campo di studi che ci stiamo accingendo a perlustrare, contraddistinto da categorie etnocentriche (l’Oriente, l’orientalismo, l’esotico, l’esotismo, l’alterità) che sono tali in quanto non definibili, né confinabili, né localizzabili. L’Est, sarà forse pleonastico ricordarlo, resta prima di ogni altra cosa un punto cardinale e come tale è da considerarsi un riferimento geografico immateriale, teoricamente irraggiungibile e predeterminato dalla posizione del soggetto che guarda/parla/teorizza. Contrariamente a quanto certi studi di area culturalista hanno affermato in passato, non abbiamo a che fare con un oggetto di studio – intendiamo l’orientalismo nel suo complesso ma anche quello
3 Nel 1931 Michel Leiris, poeta surrealista, partecipa come segretario e archivista a una spedizione etnografica guidata da
Marcel Griaule che attraversa l’Africa subsahariana colonizzata dai francesi, da Dakar a Gibuti (1931-1933). Si tratta di una delle missioni etnografiche più celebri e importanti dello scorso secolo, per durata del viaggio, numero di studiosi coinvolti, materiali reperiti (sottratti) alle comunità africane, investimenti economici necessari e influenze culturali esercitate. Promossa dal Musée d’Ethnographie (il futuro Musée de l’Homme) e da etnografi del calibro di Lévy-Bruhl e Mauss, la missione vede coinvolti oltre a Griaule e Leiris, anche personalità di diversi campi disciplinari come la linguistica, geografia, musicologia, pittura, fotografia/cinematografia. In viaggio ci sono Marcel Larget, Éric Lutten, Jean Mouchet, Jean Moufle, André Schaeffner, Abel Faivre, Deborah Lifchitz e Gaston-Louis Roux. Leiris, in quanto documentarista è tra coloro che seguono Griaule fin dall’inizio del viaggio e nei suoi soggiorni tra i Dogon o quelli successivi in Etiopia. Al ritorno Leiris pubblica le pagine del diario scritto durante i mesi della spedizione, L’Afrique
fantôme, dove sono raccolte in gran parte le impressioni del poeta, ma dove sono presenti anche alcune pagine in cui si
critica una serie di discutibili scelte etnografiche, tra le quali i metodi di spoliazione dei reperti africani. Sulla missione si veda: J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; N. Sánchez Durá, H. G. López Sanz, La Misión etnográfica y lingüística Dakar-Djibouti y el fantasma de África, PUV, Valencia, 2009; L. Tythacott, Surrealism and the Exotic, Londra, Routledge, 2012.
cinematografico nello specifico – coerente, compatto, che si compone di repliche reiterate di stereotipi o di repertori figurativi fissi, bensì con un fenomeno in lenta ma continua trasmutazione che si alligna in tutta la storia dell’uomo (come ci ricorda l’origine greca del termine Oriente, l’attrazione/avversione tra Est e Ovest trova le sue prime ramificazioni già nella storia antica per poi spandersi, in un modo o nell’altro, in tutte le età storiche successive). Esso pratica dinamiche di reciprocità (l’attrazione/avversione è anche dell’«Est» (l’Asia lontana, il Medio Oriente) verso l’«Ovest» e non solo viceversa) e abbraccia conformazioni espressive sempre diverse anche in base alle specificità delle discipline artistiche nelle quali si diffonde (si contano fascinazioni orientali in tutte le forme artistiche: dall’architettura all’arti figurative, dalla letteratura alla musica, dal teatro alle arti decorative, dal cinema alla danza)4. Insomma, se proprio si vuole considerare il fascino per
l’Oriente come un unico fatto culturale, sarà necessario non cercarne l’omogeneità, la continuità, la convergenza, bensì la parcellizzazione, la sfaccettatura e la dispersione delle sue manifestazioni. Serve una preghiera distraente per un costrutto volatile.
Accostandoci al contenuto del testo leirisiano, ci imbattiamo in un secondo aspetto utile da delineare e che potremmo definire «la necessità del fallimento del viaggio». Leiris, si sarà notato, descrive l’incontro con l’alterità come un’esperienza fallimentare, rovinosa e, insieme, come innesco per nuovi viaggi e nuovi incontri. In altre parole, per l’etnografo francese – ma egli non è certo il solo – l’alterità anelata, scaturita da un’insoddisfazione acuta per la propria condizione, da un desiderio di avventura, di evasione, di erotismo e, non ultimo, da un bisogno di conoscenza, si rivela ben presto un’alterità negata o deludente o inafferrabile, motivo di scacco, di un mesto ritorno a casa, di un amaro tentativo di autoindulgenza («Non è forse all’interno della propria civiltà che un occidentale può trovare occasioni di autorealizzazione a livello emozionale?»). Un fallimento che, come si accennava poc’anzi, acquista nelle parole della prière i tratti di un’ammissione d’irrequietezza che spinge di nuovo a partire, a scappare dai (o a cercare i) propri fantasmi («imparerà di nuovo che qui come ovunque l’uomo non può sottrarsi all’isolamento, con il risultato che un giorno o l’altro, preda di nuovi fantasmi, andrà via di nuovo; ma stavolta senza illusioni»), in un pendolarismo che è erranza, moto perpetuo, smacco continuo. Alludendo al pensiero di Benjamin potremmo addirittura considerare il viaggio di Leiris – e per estensione le forme di
4 A tal proposito ci si rifaccia a P. Amalfitano, L. Innocenti L. (a cura di), L’Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000), Roma, Bulzoni, 2007, 2 voll.
rappresentazione che qui studiamo – alla stregua delle camminate di un flâneur che non vaga, distratto, tra metropoli in subbuglio, ma peregrina, sconcertato, tra deserti, foreste e villaggi indiani: i sentimenti provati – la partecipazione simpatetica e insieme un senso di irrimediabile esclusione, le forme di complicità che sfociano nella tendenza all’autoritarismo o all’alienazione, la tensione alla stereotipia che si ribalta in distrazione o disinganno – sembrano assomigliarsi profondamente. In maniera più pertinente potremmo ricordare le teorie di James Clifford (che, non a caso, si è occupato di Leiris, di Victor Segalen e di altri viaggiatori/etnografi di questo periodo), per le quali l’antropologia contemporanea si realizza nelle strade5, non accontentandosi della certezza «comoda»
della stanzialità (nell’indagine sul campo, nelle teorie che propone), ma sfidando sentieri che attraversano spazi in via di trasformazione e che sono percorsi da persone in cammino, da identità mutanti. Leiris indirettamente nega quella che Geertz chiama l’«interpretazione delle culture»6, e
nonostante ciò non ferma il passo, anzi lo accelera, lo disperde, come se vivesse anch’egli in uno di quei non-luoghi teorizzati da Marc Augè7, ovvero in una delle aree di transito contemporanee
dentro le quali l’identità delle persone si scioglie, si problematizza, si elude, si nega, o forse ancor di più in una delle «eterotopie di deviazione» teorizzate da Foucault, ovvero quei «luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili […] spazi differenti, luoghi altri, […], [nei quali] vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte»8. Ne consegue che qui si pratica un contatto
che esiste e non può essere negato, ma il cui senso probabilmente è da ricercare nei processi che innesca al di fuori e oltre la relazione con il dato fenomenico tout court, ad esempio nei processi di scomposizione della propria soggettività e della presunta oggettività dello sguardo conoscitivo così bene articolati nella prière. Si recita insomma una preghiera che non anela un fine unico quando non ultimo da raggiungere, che non supplica l’utopia di un incontro riuscito, che non implora un orizzonte di significati omogenei da inseguire. Semmai sollecita una capacità di muoversi all’interno
5 J. Clifford, Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge, Harvard University Press, 1997
(tr. it. Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999).
6 C. Geertz, The Interpretation of Cultures. Selected Essays, New York, Basic Books, 1973 (tr. it. Interpretazione di culture,
Bologna, Il Mulino, 1987).
7 M. Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Parigi, Seuil, 1992 (tr. it. Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993).
8 M. Foucault, “Des espaces autres” in Id., Dits et écrits, Parigi, Gallimard, 1994, pp. 752 - 762 (tr. it. “Eterotopie” in
di territori di passaggio che acquistano la funzione dei «contro-siti» nel senso dato da Foucault a tale termine. Come specchi che riflettono la nostra immagine, i luoghi di transito di Leiris (e in parte quelli dei registi odeporici) sono spazi concreti ma al contempo virtuali (virtualizzati dagli immaginari che spingono al cammino), sono fattualità che sono localizzabili ma non è detto che siano anche presenza, radice, materialità.
Lo specchio, dopo tutto, è un’utopia, poiché è un luogo senza luogo. Nello specchio, mi vedo là dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie, io sono là, là dove non sono, una specie d’ombra che mi rimanda la mia stessa visibilità, che mi permette di guardarmi laddove sono assente: utopia dello specchio. Ma si tratta anche di un’eterotopia, nella misura in cui lo specchio esiste realmente, e dove sviluppa, nel luogo che occupo, una sorta di effetto di ritorno: è a partire dallo specchio che mi scopro assente nel posto in cui sono, poiché è là che mi vedo. A partire da questo sguardo che in qualche modo si posa su di me, dal fondo di questo spazio virtuale che si trova dall’altra parte del vetro, io ritorno verso di me e ricomincio a portare il mio sguardo verso di me, a ricostituirmi là dove sono; lo specchio funziona in questo senso come un’eterotopia poiché rende questo posto che occupo, nel momento in cui mi guardo nel vetro, che è a sua volta assolutamente reale, connesso con tutto lo spazio che l’attornia ed è al contempo assolutamente irreale poiché è obbligato, per essere percepito, a passare attraverso quel punto virtuale che si trova là in fondo9.
In terza battuta, come peraltro indirettamente evidenzia quest’ultima citazione foucaultiana, ci convince della prière la parziale messa in discussione della dicotomia centro/periferia che inevitabilmente informa ogni movimento odeporico e ogni sguardo etrnocentrico. Certo, anche il viaggio leirisiano, come ogni altro, ha un punto di partenza, individuabile come il «centro» identitario del viaggiatore (Parigi, la Francia), segue un tragitto che si spinge verso una serie di luoghi periferici (il Senegal, l’Etiopia, il Sudan, ecc.), e poi ritorna alla base, dunque definendo gerarchie di relazione, stabilendo posti tappa, campi d’insediamento e – pur nell’ottica etnografica che mira alla conoscenza attraverso la raccolta del reperti – logiche di spoliazione del diverso culturale ed etnico. Nondimeno, l’atteggiamento «surrealista» dello scrittore instilla dentro il fattuale una dimensione di disorientamento che, almeno in teoria e prevalentemente nel limitato orizzonte dell’espressione artistica e dell’iper-soggettività del registro diaristico, tende ad alterare o almeno a sfumare l’univocità dei rapporti di potere, il dominio del predominio, la centralità del centro e la perifericità della periferia. Si accentua, nell’esperienza odeporica (il viaggio), ma soprattutto nel suo modo di essere raccontata (il diario) e nel modo con cui si racconta il modo di raccontarla (la
prière), quella caratteristica della modernità che Bernhard Waldenfels chiamava «fenomenologia
responsiva»10, immaginando la costruzione dell’identità del singolo come un gesto reattivo e
reagente, spesso imprevedibile, innanzi al materializzarsi dell’estraneo:
Con l’inizio dell’età moderna il grande ordine globale si frantuma, [...] si spezza la ‘catena dell’essere’, che un tempo collegava tutto con tutto, e il soggetto, nel quale l’ordine globale sembrava trovare il suo centro e cardine, si allontana gradualmente dal centro. Questa frantumazione della ragione e questo decentramento del soggetto appartengono alle avventure della modernità occidentale. Tali avventure [...] durano già da tempo; tuttavia, solo nel XVIII e nel XIX secolo e in maniera definitiva nel XX secolo l’estraneo penetra espressamente e irrevocabilmente nel nucleo della ragione e nel cuore stesso di ciò che è il proprio. La sfida lanciata da un estraneo radicale, rispetto al quale ci vediamo confrontati, significa che non c’è alcun mondo in cui siamo completamente a casa nostra e che non c’è alcun soggetto che sia padrone in casa propria11.
Secondo Waldenfels l’estraneità è una dimensione originaria dell’esperienza umana, è un «non sentirsi mai del tutto padroni a casa propria» che dipende dalla relazione con quegli elementi del fattuale di cui il «proprio» (ovvero il soggetto) non può «appropriarsi». L’estraneo appare, per il filosofo tedesco, a un tempo allettante e minaccioso. «Minaccioso poiché l’estraneo fa concorrenza al proprio e rischia di sopraffarlo; allettante poiché l’estraneo risveglia possibilità che risultano più o meno escluse dagli ordinamenti della vita propria»12. Quella descritta da Waldenfels, a ben vedere, è
l’ambivalenza che vive in prima persona Leiris, con un cambio di paradigma non secondario. Nella vicenda dell’etnografo francese, e nei suoi colleghi viaggiatori, si assiste a un muoversi verso l’estraneo, dunque non un «accoglierlo» a casa propria, ma un «farsi accogliere» a casa sua. Ne consegue una perdita di centralità del soggetto, che diventa estraneo a casa dell’estraneo, dentro una dinamica di alterazione delle logiche di relazione che ha però esiti imprevisti, a causa della biunivocità della condizione di estraneità dei soggetti implicati e, infine, alla doppia irriducibile inaccessibilità che caratterizza la dimensione dell’incontro. La lettura di Waldenfels che fa Fabio Ciaramelli può risultare utile per rafforzare quanto andiamo dicendo:
10 Sulla fenomenologia responsiva si veda: B. Waldenfels, Antwortregister, Francoforte, Suhrkamp Verlag, 1994 e, in
italiano, B. Waldenfels Grundmotive einer Phänomenologie des Fremden, Francoforte, Suhrkamp Verlag, 2006 (tr. it.
Fenomenologia dell’estraneo, Milano, R. Cortina, 2008).
11 B. Waldenfels, Topographie des Fremden. Studien zur Phänomenologie des Fremden 1, Suhrkamp Verlag, Francoforte,
1997, pp. 16-17 (tr. it. Politiche dell’estraneo. L’istituzione del moderno e l’irruzione dell’altro, Ombre Corte, Verona 2012). Il testo citato proviene dalla prefazione del libro curato da Ferdinando Menga, L’istituzione e l’estraneo. Elementi
di una fenomenologia del politico nella riflessione di Bernhard Waldefenls, p. 10. 12 Ibidem.
L’estraneità, considerata come inaccessibilità immediata, va intesa come un’impossibilità fornita d’un contenuto positivo. […] Lungi dal presupporre l’appropriazione preliminare del proprio, l’inaccessibilità immediata dell’estraneo scuote la presunta indipendenza del proprio, la sua immaginaria coincidenza immediata con sé. L’ambiguità della reazione all’estraneo è inevitabile, sempre oscillante tra gli estremi della curiosità e del fastidio, dell’integrazione nel proprio e della dissoluzione del proprio. La radice di questa peculiare ambivalenza affettiva, cioè di questa oscillazione tra fascino e minaccia cui l’esperienza dell’estraneo è in quanto tale connessa è ciò che l’accomuna al “sacro” e al “perturbante”13.
Il «proprio» di fronte all’«estraneo» viene scosso nella convinzione di vivere una presunta autonomia e omogeneità, condizione che si rivela frutto di proiezioni e autoinganni. Da qui il senso del perturbante, del disorientamento, dell’alterità dei confini, ancora più accentuata se tale dinamica si reifica durante il viaggio, durante il movimento. Ci ritorneremo.