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Volatile, dispersivo, pluriscopico. Il testo non è solo fruibile in più direzioni, alle periferie dei costrutti e delle discipline, ma segue un tracciato acc(id)entato. Scegliamo questo gioco di parole come passaggio conclusivo del capitolo perché vogliamo richiamare un lavoro di Hamid Naficy, piuttosto celebre almeno in ambito statunitense, dedicato al cinema della diaspora, al cinema migrante, al cinema dell’esilio. In An Accented Cinema: Exilic and Diasporic Filmmaking, Naficy raccoglie e racconta il lavoro di un numero piuttosto cospicuo di registi cinematografici che lavorano nel cosiddetto cinema indipendente americano e che hanno origini straniere, nati e cresciuti in modo particolare in ex colonie del vicino e del lontano Oriente. Uniti dall’esperienza dell’esilio, della migrazione o della diaspora, i film-maker studiati da Naficy – tra cui si annoverano personalità come Trinh T. Minh-ha, Mitra Tabrizian, Amir Naderi, Atom Egoyan, Sohrab Shahid- Saless, Andrei Tarkovskij, Jonas Mekas, ma anche i «nostri» Chris Marker e Joris Ivens – adottano strategie narrative e formali simili, enfatizzando gli aspetti politici insiti nei racconti portati in scena, oppure il nodo dell’identità culturale/etnica dei loro personaggi, o ancora il valore della memoria (richiamata spesso in senso nostalgico). Usufruiscono – sempre secondo lo studioso iraniano – di modi di produzione tra loro paragonabili nel segno dell’artigianalità, del low budget, e dell’autosufficienza economica, giocano con la polisemantica che offre loro la conoscenza di più lingue, comunicano per frammenti, per epistole, per giochi ironici e autoriflessivi. Nei loro film affrontano tematiche a loro vicine come quelle dell’esilio, del viaggio, del confine, dei conflitti tra identità individuali e collettive. Evidenziano, nelle forme filmiche adottate, i caratteri dell’ibrido, si fondano sulle proprie esperienze autobiografiche di natura dislocata e diasporica. Naficy chiama i prodotti realizzati da quest’insieme di cineasti, dei film «accentati» e così motiva la definizione:

If the dominant cinema is considered universal and without accent, the films that diasporic and exilic subjects make are accented. […] [T]he accent emanates not so much from the accented speech of the diegetic characters as from the displacement of the filmmakers and their artisanal production modes. […] Accented films are interstitial because they are created astride and in the interstices of social formations and cinematic practices.

Consequently, they are simultaneously local and global, and they resonate against the prevailing cinematic production practices, at the same time that they benefit from them. As such, the best of the accented films signify and signify upon the conditions both of exile and diaspora and of cinema. They signify and signify upon exile and diaspora by expressing, allegorizing, commenting upon, and critiquing the home and host societies and cultures and the deterritorialized conditions of the filmmakers. They signify and signify upon cinematic traditions by means of their artisanal and collective production modes, their aesthetics and politics. of smallness and imperfection, and their narrative strategies that cross generic boundaries and undermine cinematic realism17.

Per lunghi tratti, Accented Cinema ha rappresentato un punto di riferimento importante per immaginare le potenzialità e prevenire i limiti del nostro lavoro. In fondo gli argomenti individuati da Naficy sono simili a quelli qui recuperati e le esperienze di viaggio dei registi modernisti assomigliano, almeno in parte, a quelle dei cineasti migranti, esiliati, della diaspora. Per di più, l’impostazione del lavoro (con singole analisi di film mescolate a discorsi teorici e a ricostruzioni di contesti storici e culturali), le parole d’ordine scelte, le sensibilità verso certi modi di produzione o verso la problematicità del costrutto autoriale, possono essere considerate condivisibili anche da chi scrive. Nondimeno, con il passare del tempo e l’accumularsi di esperienze di lettura e di visione, si pensato più utile collocare questo studio su posizioni parzialmente diverse da quelle assunte da Naficy, per varie e fondate ragioni. Intanto perché lo studioso iraniano, nonostante affermi in più punti l’estrema eterogeneità del suo soggetto (per certi versi ancora più spiccata del nostro), dimostra egualmente di voler costruire una tassonomia dei film «accentati» suddividendoli in sottogruppi e individuando modi di rappresentazione univoci18. Egli propone quello che Claudia

Barrucca considera giustamente «un lavoro di definizione e classificazione che ci ricorda quel

labelling che è teoricamente e metodologicamente vicino all’essenzialismo»19. Qui si cerca di andare

in altre direzioni. Non vi è nessuna tassonomia, nessun sottogruppo, nessuna catalogazione e quando alcune pellicole vengono sospinte al dialogo reciproco, nei capitoli successivi o in quelli precedenti si cerca di proporre un diverso modo di riunire e confrontare i saperi (e quegli stessi film). In seconda battuta, affermando – pur con qualche doverosa sfumatura – la preminenza

17 H. Naficy, An Accented Cinema. Exilic and Diasporic Filmmaking, Princeton-Oxford, Princeton University Press,

2001, pp. 4-5.

18 Ad esempio scrive: «My contention is that although there is nothing common about exile and diaspora,

deterritorialized peoples and their films share certain features, which in today’s climate of lethal ethnic difference need to be considered, even emphasized». Cfr. Naficy, op. cit., p. 3.

19 C. Barrucca, Le rappresentazioni cinematografiche dell’Altro nell’Europa mediterranea, Università degli studi di Roma

dell’intenzionalità dell’autore rispetto agli altri elementi che compongono l’orizzonte significante di una pellicola e proponendo una pressoché assoluta adesione tra le vicende autobiografiche di un regista, le tecniche di produzione adottate, i tratti tematici salienti dei rispettivi lavori, Naficy si colloca all’interno di quel versante di saperi che vede nell’«autore» un ente consapevole, cosciente, perfettamente autocentrato nella gestione delle dinamiche di produzione di senso.

Although many of their films are authorial and autobiographical, I problematize both authorship and autobiography by positing that the filmmakers, relationship to their films and to the authoring agency within them is not solely one of parentage but also one of performance. However, by putting the author back into authorship, I counter a prevalent postmodernist tendency, which either celebrates the death of the author or multiplies the authoring effect to the point of de-authoring the text. Accented filmmakers are not just textual structures or fictions within their films; they also are empirical subjects, situated in the interstices of cultures and film practices, who exist outside and prior to their films20.

Ricordando, per inciso, che sono parecchi i cineasti esiliati o gli immigrati di seconda generazione che hanno lavorato o che lavorano tutt’ora nell’industria hollywoodiana (dai «classici» Lang, Sternberg, Hitchcock, Wilder, ai «moderni» Bogdanovich, Coppola, Scorsese, De Palma, Cassavetes, fino ai più recenti Boyle, Forster, Woo, Lee), non possiamo non notare un altro fatto: assegnare sine die un «accento» ai registi di origini non americane che decidono di lavorare nel circuito cosiddetto «indipendente» significa in qualche modo bollarne l’identità, timbrare un profilo etnico, forse spiccato in alcuni dei registi considerati, ma evidentemente non esclusivo di percorsi estetici complessi e di spazi di comunicazione che vanno oltre la dimensione inter-culturale. Il termine scelto da Naficy ha certamente il merito di sottolineare la strategia di affermazione della propria «voce» da parte dei registi-migranti, con il proposito di dare una risposta affermativa alla celebre questione posta da Gayatri Spivak sul silenzio dei subalterni (la domanda «Can the subaltern speak?»21 ha ricevuto sempre risposte negative da parte della studiosa di origini bengalesi ed è stata

comunque oggetto di un grande dibattito negli studi postcoloniali22), nondimento nasconde un

approccio che rischia di essere «segregazionista», ovvero di confinare in categorie più o meno chiuse e «rassicuranti» (il cinema indipendente, il film d’arte, l’«autore cosciente»), film-makers che magari

20 Naficy, op. cit., p. 4.

21 G. C., Spivak “Can the Subaltern Speak?” in C. Nelson, L. Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, Urbana, University of Illinois Press, 1988, pp. 271-313.

22 Sulla questione della subalternità e sul dibattito innescato dalla domanda di Spivak si veda in particolare R. C. Morris

anelerebbero altri destini professionali rispetto a quelli offerti dal cinema underground o che semplicemente preferirebbero essere giudicati non in base all’origine culturale ed etnica della propria famiglia.

Si aggiunga che nel nostro caso, come vedremo, la parola del subalterno o del nativo sarà di fatto negata dalle strategie narrative adottate dai registi, nonché dalle logiche produttive imposte dal tipo di tecnologie allora adottate (cineprese in 16 mm., sistemi di registrazione del suono rudimentali, ecc.) e da situazioni ambientali complesse. Ecco perché preferiamo chiudere il capitolo con l’idea di affrontare un tipo di cinema non accentato, bensì «accidentato». Usiamo questo termine in molte delle sue accezioni. Avremo a che fare con un cinema, anzi meglio, un insieme eterogeneo di film irregolare, diseguale, sconnesso, impervio, accidentato, nelle forme, nei metodi di produzione, nelle narrazioni scelte, nei temi affrontati. Una serie di film fatta che è composta per la verità da singoli «accidenti», ovvero da avvenimenti imprevisti, talvolta spiacevoli, altre volte fastidiosi o semplicemente irrequieti, propri della contingenza di una pragmatica del segno a cui, solo in seconda battuta, una sorta di fenomenologia responsiva può cercare di ricondurre a costrutti teorici più o meno coesi e condivisi. Un gruppo di pellicole composte di «accidenti» anche nel senso aristotelico-scolastico del termine inteso come «determinazione o qualità che non appartiene all’essenza di un oggetto»23, ma che si affianca alla sostanza di un ente, evidenziandone la natura

processuale, le forme del divenire, tingendo la sua polisemanticità di coloriture non sempre tra loro armoniche. Un «accidente» dunque lontano, per quanto possibile, dalla lusinga dell’essenzialismo e dall’illusione di relazionarsi con un solo oggetto o con una sola categoria analitica, scegliendo una sola e giusta prospettiva di sguardo.