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Der Tiger von Eschnapur e Das indische Grabmal

Il progetto

L’esperienza di Langa nasce da una serie piuttosto fortuita di eventi20. Già da alcuni anni,

Alexander Korda, regista e produttore di origini ungheresi, ma di cittadinanza inglese21, sta

accarezzando l’idea di portare sul grande schermo una storia ambientata durante gli anni di costruzione del Taj Mahal, il più noto monumento indiano, fatto erigere intorno alla metà del 1600 dall’imperatore moghul Shah Jahan come mausoleo in onore della terza moglie Mumtaz Mahal morta di parto. L’autore di The Jungle Book, Bozambo o The Thief of Bagdad è convinto che il soggetto scelto possa rappresentare un buon punto di partenza per sperimentare, per la prima volta in Europa, il cinema stereoscopico (il cosiddetto 3D), tecnologia che a Hollywood sta avendo una repentina diffusione, in particolar modo per i film di genere (fantascienza, horror, avventura, ecc.22).

Sullo script ci lavorano inizialmente Powell e Pressburger, mentre Korda invia nel subcontinente il giovane regista David Lean – che trent’anni dopo firmerà il primo adattamento cinematografico del celebre romanzo di Forster Passaggio in India – per alcuni sopralluoghi e per prendere contatti con il produttore associato Bishu Sen, un uomo d’affari di origini anglo-indiane. Nonostante i contatti stabiliti da quest’ultimo con la Films Division (la principale struttura governativa di sostegno all’industria del cinema indiano), Korda finisce per rinunciare all’ipotesi di lavoro sia perché il 3D, dopo appena un biennio di utilizzo, viene giudicata una tecnologia antieconomica dalle major hollywoodiane e dunque improduttiva, sia per le precarie condizioni di salute che lo condurranno alla morte nel 1956. Dal canto suo, con un soggetto e un primo trattamento già scritto, Bishu Sen non accantona il progetto, ma cerca di portarlo egualmente a compimento, coinvolgendo proprio

20 Oltre ai testi citati in questa «mappa» e nella bibliografia, per un approfondimento su Der Tiger von Eschnapur e su Das indische Grabmal si rimanda a: P. Bogdanovich, Fritz Lang in America, Londra, Studio Vista, 1967 (tr. it. Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche, 1988); P. Bertetto, B. Eisenchitz (a cura di), Fritz Lang, la messa in scena, Torino,

Lindau, 1993; T. Gunning, The Films of Fritz Lang. Allegories of Vision and Modernity, Londra, British Film Institute, 2000; N. Saadam, Le Tigre du Bengale. Le Tombeau hindou, «Cahiers du cinéma», Hors Série – 17, Dicembre 1993; B. Eisenschitz, Fritz Lang au travail, Parigi, Ed. Cahiers du cinéma, 2011; G. Sturm, Fritz Lang. Films, textes, références, Nancy, Presses universitaires, 1990; B. K. Grant, Fritz Lang. Interviews, Minneapolis, University Press of Mississippi, 2003.

21 P. Tabori, Alexander Korda, New York, Living Books, 1966.

22 R. Zone, Stereoscopic Cinema and the Origins of 3-D Film, 1838-1952, Lexington, University Press of Kentucky,

Fritz Lang. A luglio del 1956 il regista di Metropolis incontra a New York un collaboratore di Bishu Sen, Peter Moore e inizia a documentarsi sulla realtà e la cultura indiana. Il primo agosto Lang è a Londra, dove discute della sceneggiatura con lo stesso Sen e Gerald Savory, autore di un nuovo trattamento e dove può documentarsi sul paese di Nehru da libri, riviste e giornali conservati presso il British Museum. Il 16 agosto parte per l’India per ritornare in Europa il 21 settembre 1956. Di questa prima avventura indiana esistono pochi documenti23, la maggior parte dei quali sono

fotografie scattate durante il viaggio e conservate presso l’American Heritage Center dell’Università del Wyoming. Dalle dichiarazioni rilasciate in un libro-intervista di Peter Bogdanovich24, pare che le

istituzioni e i produttori indiani premessero sul regista per coinvolgere interpreti del posto, mentre quest’ultimo intendeva probabilmente muoversi in direzione opposta, assumendo attori europei o americani. Da questi «contrattempi» deriverebbe la scelta di abbandonare l’idea del film e rientrare in Europa.

Al ritorno in Germania, l’India ritorna prepotentemente d’attualità perché, dopo poco tempo, Lang riceve da parte di un produttore locale la proposta per realizzare il remake del film esotico Der

Tiger von Eschnapur/Das indische Grabmal, dittico portato una prima volta sul grande schermo da

Joe May nel 1921 e una seconda da Richard Eichberg, in pieno periodo nazista, nel 1938. Si tratta, invero, di un vecchio progetto langhiano: il soggetto originale era stato tratto da una specie di sogno esotico – poi tramutato in racconto – dell’ex compagna Thea Von Harbou, che aveva immaginato una storia ambientata in un’India favolosa, misteriosa e senza tempo, retaggio della letteratura esotica tedesca e non solo. Lang, insieme alla Von Harbou aveva scritto la sceneggiatura del film e l’aveva presentata al suo produttore di allora, Joe May, che aveva apprezzato il progetto ma, giudicandolo troppo giovane per una produzione costosa e impegnativa (e proporzionalmente

23 Si tratta di un fatto sorprendente perché Lang è uno di quei registi che, più di altri, ha raccolto con cura e poi donato

ad archivi e cineteche da lui stesso selezionati molti materiali che documentano il suo lavoro (sceneggiature, fotografie, appunti, trattamenti, storyboard, scarti di lavorazione, ecc). Sul progetto Taj Mahal c’è invece pochissimo nei lasciti che Lang ha donato a a varie istituzioni tra cui la Cinémateque Française. A ogni buon conto, il faldone più significativo, che contiene appunti, ritagli di giornale, bozzetti e molte fotografie, è conservato presso l’American Heritage Center dell’Università del Wyoming.

24 «I got an offer to work in India (1956) on the story of the Taj Mahal, which interested me very much, but the picture

was never made […] It was the greatest love story […] I wanted to do it very much; I didn’t know India so I went over, looked around and learned a lot. The reason it was never made is very peculiar. The Indian financiers and political men naturally wanted the film cast with Indian actors and rightly so. But the ideal of beauty is different in the West from what it is in the East, and it just couldn’t have been cast the right way. So I stopped it». Cfr. P. Bogdanovich, op. cit., p. 112 e 139.

redditizia), aveva deciso di appropriarsene, occupandosi in prima persona non solo della produzione, ma anche della regia. Per Lang, trascorso più di mezzo secolo, poter rimettere mano ad un film che gli era stato ingiustamente (a suo modo di vedere) sottratto aveva il sapore del risarcimento e rappresentava una grande occasione per elaborare un personale trattamento del sogno harbouriano. Lang, insomma, decide di rimettersi al lavoro su un film indiano e prepara un secondo viaggio in India, finalizzato questa volta alla ricerca di location per gli esterni. Un viaggio nei luoghi già calcati nel precedente soggiorno, questa volta funzionale a una produzione tradizionale, velocemente allestita, organizzata sulla falsariga dei metodi hollywoodiani, per la quale erano state previste riprese da effettuarsi per la gran parte in uno studio cinematografico tedesco, con autori e maestranze rigorosamente europee25.

Luoghi visitati, durata del soggiorno, location.

Il primo soggiorno in India dura poco più di un mese. Egli atterra a Mumbai nell’agosto del 1956, poi, dopo pochi giorni, si dirige verso New Delhi. La parte più significativa del viaggio viene spesa però nello stato dell’Uttar Pradesh dove può visitare i monumenti della civiltà moghul: il mausoleo d’Akbar, la città abbandonata di Fatehpur Sikri, il Forte Rosso di Agra e ovviamente il Taj Mahal. Il 7 settembre vola fino a Jaipur, capoluogo del Rajastan e poi in treno e in macchina a Udaipur. Il 21 settembre torna in Europa (ottanta giorni prima dell’arrivo di Rossellini a Bombay, l’8 dicembre) avendo probabilmente già maturato la decisione di rinunciare all’ipotesi produttiva inizialmente ideata da Korda e dal produttore indiano Sen26.

Il secondo viaggio dura anch’esso poco più di un mese, dal 23 ottobre al 29 novembre 195827, ed

è trascorso in gran parte nel Rajasthan dove Lang ritorna su alcuni dei siti precedentemente visitati e ne individua alcuni sufficientemente «esotici» per girare alcune sequenze ambientate nei cortili del palazzo o in plein air e per registrare un po’ di piani di ambientazione del dittico indiano. Le location si trovano principalmente a Udaipur, una cittadina costruita attorno ad un lago artificiale, con alcune tra le opere architettoniche più affascinanti e scenografiche della regione, tra cui il Palazzo della Città, il Tempio Jagdish, il Palazzo del Lago e il Palazzo Jag Mandir, di cui si vedono

25 L. H. Eisner, Fritz Lang, Londra, Secker and Warburg, 1976, p. 384. 26 B. Eisenschitz, Fritz Lang au travail, cit., pp. 54-55.

27 J. Davidson, S. Hake (a cura di), Framing the Fifties. Fifties Cinema in Divided Germany, Oxford, Berghahn Books,

alcuni scorci soprattutto nella prima parte del doppio film. La città era già stata scelta da Seville per il suo Kim americano e verrà ripresa anche da Pasolini in Appunti per un film sull’India, nonché per altri film come Octopussy – Operazione Piovra, tredicesimo film della saga dedicata a 007.

Sinossi

Der Tiger von Eschnapur e Das indische Grabmal, entrambi del 1958 e usciti in sala a pochi mesi di distanza,

hanno come protagonisti due architetti tedeschi. Il più giovane (Harald Berger) viene assunto da Chandra, Maharajah del principato di Eschnapur, per ristrutturare i suoi palazzi. Sia Berger che Chandra si innamorano di Seetha, una sensuale danzatrice di musica sacra, involontariamente coinvolta in una congiura di palazzo. Seetha ricambia il sentimento di Berger, non quello di Chandra, il quale, preso da una grande gelosia, prova a far uccidere il rivale, costringendolo così a fuggire da palazzo insieme alla danzatrice. Il secondo architetto è Walter Rhode, il cognato di Berger, che giunge nel principato qualche settimana dopo, insieme alla moglie Irene, perché preoccupato dall’assenza di notizie su Harald. Il Maharajah – e siamo giunti alla seconda parte del dittico – nasconde inizialmente alla coppia europea le informazioni sulla fuga e poi sulla cattura della coppia di amanti – ora rinchiusi nelle segrete del palazzo – limitandosi a raccontare loro che il giovane architetto è impegnato in una caccia alla tigre. Nondimeno Chandra approfitta di questa visita inaspettata per assumere anche Rhode come progettista assoldandolo per costruire un mausoleo dove intende rinchiudere – viva – la donna che ama e che l’ha tradito, dunque la stessa Seetha. Rhode accetta quell’inconsueta occupazione per ritagliarsi il tempo necessario per indagare, insieme alla moglie, sulla scomparsa del cognato scomparso, finendo per scoprire tutti gli intrighi che agitano il principato di Eschnapur, che coinvolgono il fratello del principe e che prevedono una sorta di colpo di stato. Sarà anche grazie alla confusione creata da queste lotte fratricide che Berger riuscirà a fuggire dalle segrete insieme a Seetha, mentre Chandra, sconfitto il fratello, deciderà di abbandonare le ricchezze e il principato per dedicarsi alla vita monacale.

Le caratteristiche principali. Evidenze dell’alterità

§ Esibizione della finzione. Il dittico langhiano si presenta come un’opera fortemente connaturata con l’esotismo favoloso di molta letteratura e cinema orientalista del passato. Colori sgargianti, danze voluttuose, lotte di potere, storie d’amore, sadhu, Maharajah, cacce alla tigre, impiego di elefanti, scimmie, serpenti, ragni e altri animali considerati «tipici» dell’India, uomini e donne con vestiti sfarzosi e trucco accentuato. Gli interni dei palazzi, così come la giungla, alcune caverne, il tempio della dea, i sotterranei sono ricostruiti in studio (in Europa) e non c’è alcun tentativo di mascherarne l’origine, un po’ come avveniva in The Saga of Anatahan di Sternberg. L’operazione di Lang è insomma scopertamente e smaccatamente volta a restituire un mondo indiano tanto improbabile quanto favoloso, tanto fittizio quanto seducente. L’alterità è così ostentata da non cercare alcun appiglio con il reale, il verosimile, la cronaca del tempo. Si tratta, a ben vedere, di una forma di rappresentazione che porta al parossismo le caratteristiche dell’esotismo, in termini meta-testuali poiché lo essenzializza (non è possibile individuare una coerenza negli stili architettonici, nei costumi e in altri riferimenti storico-culturali) ed essenzializzandolo maschera il grado di arbitrio che è implicito nelle forme di rappresentazione delle alterità.

§ Film su un film già fatto. D’altronde, come abbiamo ricordato poche righe fa, Der Tiger von Eschnapur/Das indische Grabmal rappresentano il rifacimento di un vecchio progetto langhiano,

abbandonato per ragioni di forza maggiore e poi portato sul grande schermo una seconda volta negli anni Trenta. Quello del 1959 anziché un film sull’India favolosa e, per dirla con Pasolini, un film su un film già fatto sull’India favolosa, dunque si pone come un costrutto intertestuale e ipertestuale, visti i rimandi impliciti e i distacchi espliciti tra le due pellicole. Tra queste ultime ricordiamo almeno la scelta di utilizzare una pellicola Eastmancolor che a differenza di quella in bianco e nero, ancora preponderante nel cinema europeo del periodo, satura i colori (anche se un po’ meno del più utilizzato Technicolor), eliminando le sfumature e stendendo sul mondo indiano una laccatura sgargiante, propria del tipo di emulsione necessaria per catturare i cromatismi del set. § L’altro è europeo. Seetha, l’oggetto del desiderio di Chandra e Harald, ha origini europee, per quanto ignorate dalla protagonista e nascoste dai suoi tutori. La scelta narrativa – assente nel testo originale di Thea van Harbou e nelle precedenti versioni del film, nelle quali l’architetto protagonista è già fidanzato con una ragazza europea – è illuminante perché rovescia una delle convenzioni tipiche dell’orientalismo, quella che abitualmente assegna alla donna asiatica quella malizia levantina che assolve al compito di sedurre l’uomo bianco e letteralmente di disorientarlo. Qui Seetha è una sorta di personaggio a metà tra il piccolo Kim di Kipling e una Mata Hari garbiana, ma priva di malizia: anche lei, come Kim, è di origini irlandesi, cresciuta in India senza che nessun indiano si accorgesse delle sue origini caucasiche, anche lei come Mata Hari è danzatrice esotica, vestita con costumi di scena orientaleggianti, luogo di passaggio delle congiure di potere, corpo esposto per il piacere degli occhi maschili, che diventa corpo in pericolo, corpo da salvare. L’incontro, nello stesso personaggio, di un forte appeal sessuale e della fragile ingenuità infantile tende ad annullare due dei principali atteggiamenti che il paternalismo europeo rivolgeva e rivolge al primitivo orientale. L’alterità più profonda, insomma, è l’alterità dell’europeo.

§ Disorientamento spettatoriale. Com’è noto, Lang era uno degli autori di riferimento dei critici dei «Cahiers du cinéma». Godard lo considerava uno dei suoi maestri e lo coinvolgerà, qualche anno dopo, nella realizzazione de Il disprezzo. Insieme a Hitchcock, Hawks e pochi altri, rappresenterà il prototipo di Autore che lavora ad una revisione consapevole e intelligente dei generi hollywoodiani. Eppure il dittico viene accolto male dalla critica francese del tempo e non viene immediatamente compreso. Claude Beylie, critico cinematografico dei «Cahiers du cinéma» e redattore capo della rivista «Avant-scène Cinéma», riporta, proprio sulle colonne della rivista, il ricordo della prima proiezione del film alla Cinémathèque durante il quale il pubblico reagisce alla messa in scena lambiccante di Lang con risate, battute di scherno e altre forme ironiche di disapprovazione28. E utile fare un accenno alla ricezione scomposta del film perché ci racconta da

una parte di una richiesta di maggiore verosimiglianza e rispetto nella rappresentazione delle culture altre e lontane, almeno da parte di una fetta consistente e influente dell’opinione pubblica (d’altronde sono gli anni in cui si fa strada il cosiddetto cinéma vérité di cui parleremo a lungo nella

28 «Je me trouve avec des amis à la Cinémathèque Française… Au programme: Le Tigre du Bengale. La salle, bourrée

d’intellectuels suffisants, pérorants, tels qu’on ne trouve guère qu’en France et en Italie, il me semble sûrs d’un verbiage dont ils enduisent le monde pour se le rendre intelligible comme le boa humecte sa proie pour l’avaler. A tout moment, et de préférence aux scènes les plus belles – les plus déchirantes dans leur accomplissement, leur simplicité, leur évidence – ils rient. Ils rient grassement, ignoblement, convaincus de regarder quelque bande dessinée naïve qu’il est de leur fonction de bien mettre à sa place. A la distance qui convient». AA.VV, Fritz Lang. Le Tigre du Bengale, «Avant-scène cinéma», n. 339, Aprile 1985, p. 5.

parte quarta di questo studio) e perché dall’altra rappresenta il sintomo del disorientamento dovuto alla frustrazione e dal rovesciamento di una serie di attese spettatoriali. Non sarebbe così peregrino ipotizzare, in altre parole, che le risate sguaiate e irriguardose degli intellettuali francesi costituiscano un atto estremo di difesa di fronte a modi della rappresentazione che infrangono i loro canoni di film esotico, oltrepassando il perimetro sorliniano del visibile e sollecitando in forme non convenzionali le loro abitudini scopiche e i loro coinvolgimenti timici. Se così fosse, verrebbe da dire che Der Tiger von Eschnapur e Das indische Grabmal, negano, paradossalmente, l’assunto saidiano secondo il quale la pratica orientalista è utile perché è espressione codificata e rassicurante che gestisce la diversità, domando le paure che da essa possono provenire. Qui sembra accadere l’esatto opposto, ovvero sembra schiudersi uno spettro di emotività improvviso, un fastidio non gestibile se non attraverso risa di scherno, dunque scomodo, fastidioso, faticoso.

§ Il sottosuolo come astrazione e alternativa allo sfarzo. Nella seconda parte del primo episodio e in gran parte del secondo, il film è ambientato prevalentemente nel sottosuolo di Eschnapur, tra cunicoli, grotte, gallerie, sotterranei, segrete, catacombe, ipogei, pozzi profondi percorsi continuamente, per scelta, necessità o coercizione, da quasi tutti i personaggi dei film. Loghi oscuri, mal illuminati nei quali vengono improvvisamente a mancare tutti i segni esteriori del lusso di Eschnapur e dell’India esotica e immaginaria, sostituiti da un paesaggio stilizzato, spoglio, quasi metafisico. Un paesaggio che favorisce il dissolversi di ogni possibilità di orientamento spaziale e temporale. Chiunque – perché arrestato, in fuga, o per indagare su amici e compagni scomparsi nel nulla – si trovi a percorrere questo spazio sotterraneo dal quale sono sottratti i segni esteriori di un’India favolosa, privo di punti di riferimento certi, vive costantemente sotto la minaccia di smarrirsi nel dedalo di cunicoli. Il mondo sotterraneo ospita persino un’intera comunità di lebbrosi, abbandonata a se stessa, il cui tentativo di fuga mette a repentaglio gli stessi personaggi. Non sappiamo quanti rimandi consapevoli alla situazione storica di quegli anni si possano individuare nella scelta di assegnare tanto peso semantico a questo habitat oscuro e labirintico. D’altronde il film viene realizzato negli stessi mesi in cui le Missionarie della Carità, istituto fondato e guidato da Madre Teresa, aprono a Kolkata e dintorni i primi centri di accoglienza specializzati per la cura dei malati di lebbra, inizialmente all’interno di cliniche mobili e poi in strutture residenziali, opere che ottengono una certo eco mediatica e che ricevono l’apprezzamento e il riconoscimento ufficiale dallo stesso Governo Indiano perché restituiscono visibilità sociale a intere porzioni di società considerate, letteralmente, «intoccabili». Non è dato sapere nemmeno se queste caverne, grotte e catacombe alludano, in qualche modo, a una più generale condizione di disagio e povertà di coloro che – e sono ovviamente la stragrande maggioranza – non possono, tanto nella realtà dell’India dell’epoca quanto in quella dell’idealizzazione orientalista, vivere protetti dal lusso dei palazzi dorati del Maharajah. Eppure, resta il fatto che il mondo sotterraneo ricostruito da Lang – ben più importante per peso narrativo e fascinazione visiva di quelli delle precedenti versioni di May e di Eichberg e peraltro simile, nelle dinamiche oppositive e nei giochi speculativi, a quello ideato per Metropolis – appare come un efficace strumento di contaminazione dei generi, degli ambienti, dei sogni escapisti, come un veicolo sostanziale per diffondere, nei modi di rappresentazione e nelle forme di ricezione del sogno esotico, un sottotesto perturbante e destabilizzante simile a quello ricercato da molti documentari girati nel subcontinente nei mesi e negli anni a venire. Forse non è un caso che tutto l’impianto

sfarzoso del film venga, di fatto, negato dal finale del dittico, questa volta totalmente riscritto dal regista viennese. L’esplosione delle fondamenta del palazzo principesco da una parte, e la rinuncia del Maharajah ai beni materiali dall’altra, visti secondo la prospettiva che abbiamo cercato di seguire in questo ragionamento, paiono l’ennesima dimostrazione di come il dittico orientalista di Lang, nella sua straordinaria ricchezza esotica, possa comunque prefigurare l’arrivo di una nuova