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Se nel corso degli anni Cinquanta il concetto di «autore»9 tocca il momento di suo massimo

fulgore e consenso, grazie agli scritti dei critici dei «Cahiers du cinéma» e a quella che essi per primi chiamano la «politica degli autori» (con la progressiva auratizzazione di cineasti come Hitchcock, Ford, Renoir, Hawks, Welles, Rossellini e poi Antonioni, Fellini, Bergman, Bunuel, Kurosawa,

8 Si segnala che le righe che seguono sono la rivisitazione della prima parte di un testo già pubblicato. Cfr. M. Dalla

Gassa, “Sguardi di prossimità confinata. Il raggio d’azione dell’autore nello spazio della casa taiwanese” in J. Lingelser, N. Lodato (a cura di), L’immaginario della casa nel cinema. Tra costruzione scenica e composizione scenografica, Como/Pavia, Ibis, p. 57-64.

9 Per un’antologia di scritti teorici sull’autore cinematografico (e non solo) si veda a J. Caughie (a cura di), Theories of Authorship, Londra, Routledge, 2013 (edizione ampliata). Per una disamina articolata sulla trasformazione delle

percezioni che investono il regista e le sue funzioni si rimanda a L. Albano, Il secolo della regia. La figura e il ruolo del

regista nel cinema, Venezia, Marsilio, 1999. Altri riferimenti bibliografici si trovano nelle successive note e negli apparati

ecc.)10, già a partire dalla fine degli anni Sessanta diverse voci si sollevano, recuperando e adattando

al cinema le teorie letterarie emerse da almeno un decennio, per manifestare le impasse logiche che tale concetto rischia di far determinare nel panorama speculativo sui sistemi di espressione artistici e in modo specifico su quello cinematografico. Un ridimensionamento repentino che si determina in virtù dell’applicazione di una serie di approcci metodologici o di inquadramenti disciplinari che assegnano, di volta in volta, la responsabilità del senso del film non a un soggetto antropomorfo, ma ad altre istanze enunciative, spesso di natura virtuale. L’applicazione della linguistica e della narratologia alla Settima arte, per esempio, provoca l’invasione nel campo dei film studies di un «manipolo» di figure astratte (l’enunciatore, il foyer, il destinatore, il narrator, ecc.) che determina la de-materializzazione dell’«autore», erigendo filtri tra emittente, testo e ricettore e rendendo il testo filmico un gioco comunicativo asettico11. In ambito letterario, il post-strutturalismo, più o meno

nello stesso periodo, sancisce la «morte dell’autore» (secondo la celebre definizione di Roland Barthes12), sostituita dall’idea di autosufficienza della scrittura («La scrittura è la distruzione di ogni

voce, di ogni punto di origine» ricordava il semiologo francese13), la quale un decostruzionista come

Jacques Derrida14 ritiene essere addirittura il luogo dell’anonimia e della cancellazione delle tracce

del sé. L’obiettivo del filosofo di origini algerine è di rigettare il modello della forma immobile, del «vero senso di un testo» e di negare quella convinzione secondo cui l’autore sia una sorta di ente «ultimo», un’origine, per sostituirla con il concetto di traccia scrittoria intesa come articolazione di un’altra traccia all’interno della quale l’origine del gesto creativo si sottrae e sparisce. Non vi è

10 Sul ruolo avuto dai critici dei «Cahiers du cinéma» nell’imporsi del concetto di autore e poi nella sua successiva messa

in discussione si rimanda a: A. de Baecque, Les Cahiers du cinéma. Histoire d’une revue, Parigi, Ed. Cahiers du cinéma, 1991 (2 volumi); G. De Vincenti, Il cinema e i film. I “Cahiers du cinéma”1951-1959, Venezia, Marsilio, 1980; A. Costa, François, Eric, Claude, Jea-Luc, Jacques e “les auteurs”, in A. Boschi, G. Manzoli (a cura di), Oltre l’autore I, cit.

11 Una sintesi di alcuni importanti interventi di narratologia cinematografica si trova in: L. Cuccu, A. Sainati, Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Napoli, ESI, 1988. I riferimenti fondamentali a tal proposito restano gli

scritti di Gérard Genette. Tra i suoi lavori, tutti importanti, si vedano almeno: G. Genette., Figures III, Parigi, Seuil, 1972 (tr. it. Figure III, Torino, Einaudi, 1976); Id., Noveau discours du récit, Parigi, Seuil, 1983 (tr. it. Nuovo discorso del

racconto, Torino, Einaudi, 1987). Per il concetto di foyer si rimanda a C. Metz, L’énonciation impersonnelle ou le site du film, Parigi, Klincksieck, 1991 (tr. it. L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, ESI, 1995), per quello di narrator ad A. Gaudreault, Du littéraire au filmique. Système du récit, Parigi, Klincksieck, 1988 (tr. it. Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Torino, Lindau, 2007).

12 R. Barthes, La mort de l’auteur [1968] in Id. Le bruissement de la langue, Parigi, Seuil, 1984 (tr. it. La morte dell’autore, in Il brusio della lingua. Saggi critici, vol. IV, Torino, Einaudi, 1988).

13 Ivi, p. 51.

14 J. Derrida, De la grammatologie, Parigi, Les Editions de Minuit, 1967 (tr. it. Della grammatologia, Milano, Jaca Book,

dunque presenza di un soggetto autoriale «bensì il simulacro di una presenza che si disloca, si sposta, si rinvia, non ha propriamente luogo»15; non vi è ricomposizione di valori e di concetti universali

attorno a una figura catalizzatrice di sguardi e paradigmi, ma spazio aperto alla produttività degli scarti, delle differenze, dei rimossi, dei mascheramenti. Ovviamente tali posizioni – rinforzate direttamente o indirettamente, da altri studiosi che consideravano l’intenzionalità una categoria o irrilevante (William K. Wimsatt, Monroe Beardsley)16 od occlusiva (Michel Foucault, ci torniamo)17

e da quegli studiosi di storia dell’arte che preferivano soffermarsi sulla «vita delle forme», (quasi) indipendentemente da chi si faceva carico materialmente di configurarle (Aby Warburg, Henri Focillon, Étienne Souriau, Erwin Panofsky, ecc.)18 – trovano risonanza anche negli studi

cinematografici (si vedano a proposito i lavori di Marie-Claire Ropars-Wuillemier, Peter Brunette e David Wills, Paolo Bertetto, Philippe-Alain Michaud19). La dimensione del latente, del rimosso e

dello scarto ci consente di ricordare che anche l’approccio psicanalitico al cinema, attivo soprattutto dalla fine degli anni Sessanta in poi, riduce lo spazio di movimento dell’autore (inteso nella sua accezione romantica) poiché individua l’orizzonte di senso di un film o nell’attività cognitiva dell’inconscio oppure nei meccanismi di funzionamento del dispositivo di base. In altre parole, anche coloro che s’interessano al rapporto tra i processi psichici e le pratiche modellizzanti del cinema (oltre a Christian Metz e Raymond Bellour, citiamo almeno Jean-Pierre Oudart, Jean-Louis

15 J. Derrida, Marges de la philosophie, Parigi, Les Editions de Minuit, 1972 (trad. it. Margini della filosofia, Torino,

Einaudi, 1977, p. 53). Sui temi della differenza e dell’alterità nel pensiero derridiano si veda anche J. Derrida, L’écriture

et la différence, Paris, Seuil, 1967 (tr. it. La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971) e in particolare i saggi su

Lévinas e Artaud.

16 W. K. Wimsatt, M. Beardsley, The Intentional Fallacy, in Id., Verbal Icon. Studies in the Meaning of Poetry, Lexington,

University of Kentucky Press, 1954, pp 3-18.

17 M. Foucault, Qu’est-ce un auteur? [1969] in Id., Dits et écrits 1954-1969, Parigi, Gallimard, 1994 (tr. it. Che cos’è un autore? in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1971); M. Foucault, L’archéologie du savoir, Parigi, Gallimard, 1969 (tr. it. L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1994).

18 H. Focillon, Vie des formes, Parigi, E. Leroux, 1934 (tr. it.Vita delle forme, Torino, Einaudi, 1945); Aby Warburg, Gesammelte Schriften: Die Erneuerung der heidnischen Antike, kulturwissenschaftliche Beiträge zur Geschichte der europäischen Renaissance, Lipsia/Berlino, B. G. Teubner 1932 (tr. it. La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, Firenze, La Nuova Italia, 1966); E. Panofsky, Die Perspektive als “symbolische form”, Lipsia/Berlino,

B.G. Teubner, 1927 (tr. it. La prospettiva come “forma simbolica”, Feltrinelli, Milano 1966); É. Souriau, La

correspondance des arts. Èléments d'esthétique comparée, Parigi, Flammarion, 1969 (tr. it. La corrispondenza delle arti. Elementi di estetica comparata, Firenze, Alinea, 1988).

19 M.C. Ropars-Wuilleumier, Le tecte divisé, Parigi, PUF, 1981; P. Brunette, D. Willis (a cura di), Screen/Play. Derrida and Film Theory, Princeton, Princeton University Press, 1989; P. A. Michaud, Aby Warburg et l'image en mouvement,

Baudry, Stephen Heath20) mettono in secondo piano l’interesse per la volontà di un soggetto-

creatore sostituendolo con uno di pari grado rivolto o all’istituzione cinematografica (con la sua ideologia, i suoi meccanismi, le sue funzioni sociali) o alla costruzione della soggettività spettatoriale, fondata su operazioni di interrelazione con le immagini (come ad esempio l’identificazione, il transfert, la condensazione, la simbolizzazione, il voyeurismo, il feticismo) che agiscono più o meno tutte a livello di latenza o di inconscio21.

In stagioni teoriche a noi più vicine, ad approcci che mirano all’autosufficienza del testo se ne sostituiscono altri, come quello intertestuale, che parlano di reti di interconnessioni, rapporti, scambi, prestiti e contaminazioni che i singoli testi attivano con altri testi, altri sistemi espressivi, altre forme comunicative (si vedano tra i tanti i lavori di Julia Kristeva, Roland Barthes, Michael Riffaterre, e ovviamente Gérard Genette)22. Anche in questo caso, nell’ambito di una semiotica che

si fa semiotica culturale e che si costituisce nella circolazione dei discorsi, nella loro relazione osmotica, nella capacità di continua riattivazione del senso dei paesaggi inter/transtestuali, non sembra esserci spazio per un (solo) soggetto creatore. Si noti tra l’altro che l’approccio intertestuale o transtestuale (spesso presente e fondativo di alcuni importanti studi sull’«autore») appare particolarmente fecondo soprattutto a partire dall’inizio degli anni Ottanta quando esso si configura come un’ottima chiave di comprensione per l’esondazione dei testi propria del cosiddetto periodo «postmoderno» (con le sue pratiche citazioniste, le serializzazioni, i pastiche, le ipertrofie, le forme

20 C. Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, Parigi, Union Générale d’Éditions, 1977 (tr. it. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980); R. Bellour, Le cinema americain. Analyses de films,

Parigi, Flammarion, 1980 (tr. it. L’analisi del film. Torino, Kaplan, 2005); J.P. Oudart, La suture, «Cahiers du cinéma», n. 211, Aprile 1969, pp. 36-39; Id. La suture 2, «Cahiers du cinéma», n. 212, Maggio 1969, pp. 50-55; C. Metz, J. L. Baudry, J. Kristeva (e altri), Psychanalyse et cinéma, Parigi, Seuil, 1975; J. L. Baudry, Proust, Freud et l’autre, Parigi, Les Editions de Minuit, 1984; S. Heath, Questions of cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1981.

21 Per una ricognizione sulle teorie e gli approcci psicanalitici applicati al cinema si veda: F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993, pp. 171-192; L. Albano, V. Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie, Macerata, Quodlibet, 2006; L. Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Venezia, Marsilio, 2004.

22 J. Kristeva, Semeiotiké. Recherches pour une semanalyse, Parigi, Seuil, 1969 (tr. it. Semeiotiké. Ricerce per una semanalisi,

Milano, Feltrinelli, 1978); Id., Desire in Language. A Semiotic Approach to Literature and Art. New York, Columbia University Press, 1980; R. Barthes, S/Z, Parigi, Seuil, 1970 (tr. it. id., Torino, Einaudi, 1973); Id., L’Aventure

sémiologique, Parigi, Seuils, 1985 (tr. it. L’avventura semiologica, Torino, Einaudi, 1991); M. Riffaterre, Semiotics of Poetry, Indiana University Press, Bloomington, 1978 (tr. it. Semiotica della poesia, Bologna, Il Mulino, 1983); Id., La production du texte, Parigi, Seuil, 1979 (tr. it. La produzione del testo, Bologna, Il Mulino, 1989). Su Genette, oltre ai

riferimenti presenti alla nota n. 11, si rinvia almeno a G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Parigi, Seuil, 1982 (tr. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997); Id., Seuils, Parigi, Seuils, 1987 (tr. it. Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989).

ludiche ed euforiche di racconto, gli ibridismi, la moltiplicazione dei paratesti, ecc.), ma anche per riattivare una nuova attenzione critica sul «cinema dei primi tempi», fino a quel momento considerato semplicemente come una fase «primitiva» della storia del cinema e dunque, di fatto, poco o per nulla considerato in ambito di film studies23. Non può sorprendere se poi, con l’avvento

del digitale – e arriviamo quasi ai giorni nostri – si passa dall’intertestualità24 all’intermedialità, alla

cross-medialità, alla convergenza o all’ipermedialità, paesaggi teorico/pratici che tentano di collocare (Casetti direbbe «rilocare») il cinema nel più ampio e pervasivo sistema dei media, studiando le modalità di trasformazione dell’esperienza filmica, delle condizioni della visione e delle nuove identità spettatoriali migranti e fluide, chiudendo ulteriormente le porte a una autorialità intesa come spiccata intenzionalità estetica di un singolo individuo25.

Basta in verità osservare i campi discorsivi sul cinema, specialmente quelli dedicati ai e/o frequentati dai non addetti ai lavori, per accorgerci che il costrutto dell’«autore», nonostante tutti gli sforzi per esiliarlo o decostruirlo, continua a influenzare il fronte delle ermeneutiche, i piani della valutazione critica (quella delle riviste per cinéphile o dei giornali di larga diffusione per rammentare i casi più eclatanti), le logiche della costruzione di apparati paratestuali (i lanci promozionali, i trailer, le cartelle stampa, il making of) o epitestuali (gli apparati esteriori al film, quelli di commento, di rilettura, ecc..) e non ultimo la sfera teorico-speculativa più recente. Per quanto riguarda quest’ultimo fronte forse può essere utile ricordare quanto sostenuto da David Bordwell, quando in Meaking Meaning. Inference and Rhetoric in the Interpretation of Cinema costata la

23 Cfr. A. Costa, I leoni di Shneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Roma, Bulzoni, 2002; T. Gunning,

“Intertextuality of Early Cinema. A Prologue to Fantomas” in R. Stam, A. Raengo (a cura di), A Companion to

Literature and Film, Malden-Oxford, Blackwell Publishing, 2004.

24 Altri testi sull’intertestualità cui sentiamo di rinviare sono: F. Casetti, L’immagine al plurale, Venezia, Marsilio, 1984;

G. Carluccio, F. Villa (a cura di), L’intertestualità. Lezioni, lemmi, frammenti di analisi, Torino, Kaplan, 2006; M. P. Comand, L’immagine dialogica. Intertestualità e interdiscorsivismo nel cinema, Bologna, Hybris, 2001; G. Guagnelini, V. Re, Visioni di altre visioni. Intertestualità e cinema. Bologna, Archetipolibri, 2007.

25 Anche in questo caso la letteratura sull’argomento è vasta. Buoni punti di partenza per un approfondimento possono

essere: H. Jenkins, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York, New York University Press, 2006. (tr. it. Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007). G. P. Landow, Hypertest. The Convergence of Contemporary

Critical Theory and Technology, Baltimora, Johns Hopkins University, 1992 (tr. it. Ipertesto. Il futuro della scrittura. La convergenza fra teoria letteraria e tecnologia informatica, Bologna, Baskerville, 1993); J. D. Bolter, R. A. Grusin Remediation: Understanding New Media, Cambridge/Londra, MIT Press, 1999 (tr. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Angelo Guerini e Associati, 2003); F. Casetti (a cura di) Relocation «Cinéma&Cie»,

n. 11, Luglio-Dicembre 2008. In italiano e specificatamente sul cinema si rimanda a F. Zecca, Il cinema della

convergenza. Industria, racconto, pubblico, Udine, Mimesis, 2012; M. Fadda, Corto circuito. Il cinema nell’era della convergenza, Bologna, Archetipo Libri, 2011; M. De Rosa, Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo,

frequenza con cui la teorizzazione dei saperi si affida a schemi personificanti (person-based schemata) per rendersi comprensibile a un ampio uditorio26. A suo giudizio, la narrazione saggistica – e non

solo quella – ha bisogno di costruirsi attorno a schemi cognitivi e paradigmi interpretativi che funzionano come il procedimento della prosopopea, quella figura retorica che prevede l’investimento degli oggetti che osserviamo (o delle esperienze che pratichiamo) di tratti antropomorfi. Non è un caso, a suo dire, se termini come focalizzazione, enunciatore, autore implicito, regime scopico, il Grand Imagier27, ecc., rimandano sempr a una presenza, a uno sguardo,

a una coscienza, a una personificazione. Si aggiunga che sembra sussistere un’unità minima d’intenzionalità autoriale28 anche in quegli studi che cercano di descrivere l’atto creativo come il

risultato di un percorso di socialità del senso, ovvero di una pratica negoziale tra diverse istanze astratte (si pensi al già citato «visibile» di Sorlin o all’«occhio del Novecento» di Casetti)29:

nell’entrare in conflitto, in frizione e poi a patti tra loro, le forze che partecipano alla costruzione dei significati si riconoscono inevitabilmente come soggetti che «vedono» e che interloquiscono, soggetti dotati dunque non solo di bisogni o di desideri, ma anche di ben precise strategie di posizionamento nell’agone relazionale, tali da consentire loro uno spazio seppur minimo di libertà di movimento senza il quale sarebbe impossibile, come sosteneva Deleuze, fare filosofia, produrre pensiero.

Ci aiutano a superare l’impasse in cui troviamo due studiosi che, pur da posizioni diverse e da contesti disciplinari differenti, collocano l’«autore» in una dimensione essenzialmente pragmatica, negandogli un profilo di idealismo romantico o di acuta percezione autoriflessiva e assegnandogliene di contro uno prettamente strumentale, concreto, corporeo. Il primo è Peter Wollen. Nel suo Sign

and Meaning in the Cinema (1967) Wollen imposta il problema della presenza dell’autore,

concentrandosi, in particolar modo, sulla presunta istanza che produce segni e significazione, descrivendola come quel soggetto che cerca di unificare e rendere omogenei l’insieme di stimoli centrifughi o almeno differenziati che provengono dal contesto interno (industria, maestranze,

26 D. Bordwell, Meaking Meaning. Inference and Rhetoric in the Interpretation of Cinema, Cambridge-Londra, Harvard

University Press, 1989.

27 Espressione coniata da Albert Laffay in Id., Logique du cinéma, Création et spectacle, Parigi, Masson, 1964.

28 Lo stesso Antoine Compagnon, che si è a lungo occupato della questione, ha dimostrato come sia difficile, persino per

un anti-autore per eccellenza come Roland Barthes, negare nel momento dell’analisi di un testo un’unità minima di intenzionalità. A. Compagnon, Le démon de la théorie. Littérature et sens commun, Parigi, Seuil, 1998 (tr. it. Il demone

della teoria. Letteratura e senso comune, Torino, Einaudi, 2000).

codici linguistici, pattern di genere…) o esterno (ambiente, situazione sociale, modalità distributive…) nel quale si trova a operare30. Si tratta, in fondo, dell’idea di «autore» come agente

catalitico, già presente in nuce nell’idea di eteroglossia proposta da Michail Bachtin31, secondo cui

esiste un responsabile del testo che incanala e depura le sollecitazioni da cui è investito e che cerca di costruirsi empiricamente come principio che unifica in un solo campo discorsivo i soggetti che incontra o con cui si relaziona. Come parafrasa bene Guglielmo Pescatore, in questo modo

si postula una relazione ermeneutica in cui l’autore è una sorta di “deposito” di tipo cognitivo, ma anche un deposito di competenze, di saper fare. Si dà una totalità che parzialmente si incarna nei vari testi, per cui si rende possibile fare un’operazione a

posteriori, partendo cioè dai vari testi e ricostruendo questo contenitore di manifestazioni

che è l’autore32.

Se Wollen, da una prospettiva strutturalista, si dice convinto della possibilità di ricostruire l’equilibrio dei significati che passa sotto il nome di «autore» grazie allo studio delle architetture significanti di un testo, Michel Foucault, due anni dopo, propone uno sguardo meno essenzialista e finalistico, ma che rimarca, egualmente e in modi ancor più convincenti, la funzionalità pragmatica del costrutto di cui ci occupiamo. Nel corso di una celebre conferenza tenuta davanti alla Société Française de Philosophie il filosofo francese si pone l’obiettivo di rispondere alla domanda «Che cos’è un autore?», senza però ripercorrere la storia del costrutto, concentrandosi viceversa sulla sua funzione discorsiva e sociale:

L’autore considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza […] funziona per caratterizzare un certo modo di essere del discorso: il fatto, per un discorso, di avere un nome di autore, il fatto che si possa dire “questo è stato scritto da un Tale” o “un Tale ne è l’autore”, indica che questo discorso non è una parola quotidiana, indifferente, una parola che se ne va, che vola e passa, una parola immediatamente consumabile, ma che si tratta di una parola che

30 P. Wollen, Signs and Meaning in the Cinema, Londra, Secker & Warburg, 1967. Una rivisitazione di questa posizione

si può trovare in K. Silverman,. The Author as Receiver, «October», n. 96, 2001, pp. 17-34, testo nel quale la teorica americana affronta il caso di Godard – a partire dal suo film autobiografico JLG/JLG – Autoportrait de décembre (1994) – per rivisitare le strategie di autorialità del cineasta francese anche quando egli afferma l’inconsistenza stessa della «politique des auteurs», traducendo la sua presenza come una sorta di «antenna» che capta immagini, sensazioni, brandelli di racconti altrui e li riutilizza per la propria auto-rappresentazione.

31 Si vedano a tal proposito i riferimenti presenti nel precedente capitolo.

deve essere ricevuta in un certo modo e che, in una data cultura, deve ricevere un certo statuto33.

Dal breve passaggio qui citato possiamo desumere (almeno) due «funzioni d’autore», valide per tutti i sistemi espressivi e i regimi estetici e che intendiamo fare nostre: una funzione «allertiva» e una «statutaria». Quanto alla prima, potremmo declinarla in questo modo: per Foucault è attraverso il «nome dell’autore» che il discorso lancia segnali di allerta al proprio destinatario, lo mette in guardia, chiedendogli di abbandonare ogni altra occupazione per concentrare la propria attenzione sull’opera da fruire. Consapevole del fatto che l’interesse verso un artefatto scemerebbe fatalmente se il fruitore scambiasse l’oggetto che osserva per una banale manifestazione della quotidianità, il discorso chiede soccorso al costrutto autoriale per evitare distrazioni, noncuranze e trascuratezze del proprio interlocutore. L’«autore», in virtù della lusinga relazionale che sa mettere in campo, allo charme che sa esercitare sul destinatario dell’opera, tenta di gerarchizzarne e modularne la ricezione scandendo i processi di relazione tra testo, contesto, destinatario. Se è vero quanto asserisce Foucault, logica vorrebbe che l’intensificazione di consapevolezza che si afferma tramite l’idea di «autore» non coinvolgesse chi ha creato un determinato artefatto, ma chi lo consuma, poiché è quest’ultimo che deve mettersi nella disposizione d’animo corretta per innescare un’ermeneutica, per affrontare un’interpretazione. L’allerta, in altre parole, consente una presa di coscienza del sé da