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Il progetto

Nel 1972 Michelangelo Antonioni realizza uno dei suoi progetti più ambiziosi e controversi: un documentario sulla Cina comunista nel pieno della sua «Grande rivoluzione culturale proletaria»» (1966-1976). Non si tratta, come avviene per altri casi, di un film che nasce da un’urgenza di viaggio o da una determinazione personale/autoriale, ma più banalmente da un’occasione di lavoro fortuita e inaspettata. Il regista sta vivendo un momento piuttosto delicato della sua carriera. L’esperienza americana di Zabriskie Point (1970), conclusasi da qualche mese, si è rivelata un mezzo fallimento, sia per le difficoltà produttive affrontate durante i mesi di tournage negli States, sia per la ricezione fredda della critica, sia per il disinteresse da parte del pubblico12. Anche il progetto su cui

sta lavorando insieme a Ponti, intitolato «Tecnicamente dolce», nonostante la fase di elaborazione avanzata, non raccoglie l’entusiasmo, la convinzione e i finanziamenti sperati da parte dei produttori e viene malvolentieri abbandonato13. Così, quando la Rai gli propone di guidare una produzione

televisiva di minore impegno artistico, che peraltro gli consente – occasione più unica che rara – di visitare un paese pressoché isolato dal mondo, la reazione non può che essere favorevole e positiva.

In verità le difficoltà – come avremo modo di parlare più approfonditamente nel capitolo 13 – emergono fin dall’arrivo del regista a Pechino. Il documentario rientra, infatti, all’interno di quei lavori agevolati e sostenuti dal Governo Cinese affinché venga offerta all’estero un’immagine positiva del paese (e della Rivoluzione Culturale in corso). Antonioni si trova pertanto costretto a lavorare nei limiti di movimento negoziati e accordati dalle istituzioni governative: l’itinerario di viaggio viene deciso dalle autorità locali, le riprese e gli spostamenti da un luogo all’altro avvengono sotto il controllo e la supervisione di funzionari messi a disposizione della produzione, quasi ogni contatto con la popolazione avviene tramite l’intermediazione di guide e traduttori ufficiali. Come avrà modo di dichiarare in diverse interviste, il cineasta ferrarese rinuncia di fatto (o meglio cerca di

12 Il film non riesce a recuperare il budget messo a disposizione dalla Metro Goldwin Mayer e dal suo produttore

storico, Carlo Ponti, creando una certa difficoltà al regista, in modo particolare nell’allestire nuovi progetti cinematografici. Sulle difficoltà occorse a Antonioni durante e dopo la produzione di Zabriskie Point si rimanda tra gli altri testi a: S. Chatman, Antonioni, or the Surface of the World, Berkeley, University of California Press, 1985, p. 159- 176.

13 Sulla genesi del film e le ragioni dell’abbandono del progetto si veda il capitolo introduttivo del

rinunciare) alla propria forza mediatrice e al desiderio di controllare ogni fase della produzione, mettendosi nella predisposizione d’animo di far emergere un’immagine positiva della nazione visitata e rispettosa delle esigenze espresse dai committenti. Molti passaggi del suo documentario sono d’altronde allestiti «a favore di camera» (i cori delle scolaresche, le parate dei giovani che partono per le campagne, i lavori nelle comuni agricole), alcuni dei luoghi scelti per le riprese sono rappresentativi di una certa idea di grandiosità cinese del passato imperiale (la Grande Muraglia, la Città Proibita, la Via Sacra, le tombe degli imperatori Ming, i giardini classici di Suzhou), ma soprattutto del presente comunista (i sistemi di dighe e canali della provincia dell’Henan, il ponte di Nanchino, le comuni agricole, l’organizzazione fluviale e mercantile, il riuso da parte del popolo di alcuni vecchi edifici imperiali a Shanghai come a Pechino), il commento della voce narrante è benevolo e accondiscendente con la realtà visitata.

Contrariamente a quello che si sarebbe potuto prevedere, viste le attese innescate, l’esito di Chung

Kuo - Cina è tra i più sfavorevoli di tutta la carriera dell’autore. Presentato in anteprima nel gennaio

del 1973 in tre trasmissioni televisive Rai e poi riproposto, integralmente, nella successiva Mostra del Cinema di Venezia, il documentario viene accolto tiepidamente dalla critica14, ma soprattutto

viene attaccato pervicacemente dal Governo cinese che cerca in tutti i modi di vietarne la distribuzione internazionale. Il 30 gennaio 1974, il «Renmin Ribao» (Il Quotidiano del Popolo) di Pechino pubblica un articolo intitolato «A Vicious Motive, Despicable Tricks - A Criticism of Antonioni’s Anti-China Film Chung Kuo» nel quale si sostiene che Antonioni ha deciso in maniera premeditata e scorretta di realizzare una serie di riprese che intendevano burlarsi dei leader cinesi e mettere in dubbio i grandi risultati ottenuti dalla Rivoluzione Culturale. Tra il 1974 e il 1975, il Partito Comunista Cinese lancia una campagna di biasimo nei confronti del film e del suo autore, con manifestazioni di piazza, tazebao, canzoni di protesta che insultano la protervia del regista, paragonato ai peggiori nemici del popolo, accusato di servire gli interessi controrivoluzionari delle potenze imperialiste e della propaganda russa. Nel 1975 comparve un libro di 200 pagine, intitolato «The Chinese People Will Not Stand for Being Denigrated: A Collection of Criticisms of

14 «Quelle déception: comment le grand documentariste que fut Antonioni au début de sa carrière a-t-il pu rapporter

quelque chose d’aussi nul, d’aussi plat? S’il n’a rien pu filmer de plus significatif, que n’a-t-il essayé d’«enrichir» son film selon les anciennes méthodes madériennes avec un commentaire un peu plus travaillé ou des inserts réalisés en studio ou au banc-titre?» P.-L. Thirard, La Chine (Chung Kuo), «Positif», Gennaio 1974, p. 155.

Antonioni’s Anti-China film»15, dove si raccolgono, appunto, le critiche maggiori rivolte al film. Si

noti che in realtà Chung Kuo - Cina non è mai stato proiettato al pubblico cinese (se non dopo il 2004) e che solo alcuni funzionari hanno potuto visionarlo (i primi ad averlo fatto, i rappresentanti dell’Ambasciata cinese a Roma, non avevano sollevato obiezioni, secondo quanto ricordato dallo stesso Antonioni16). La campagna mediatica e di propaganda contro Antonioni va pertanto ascritta

alle lotte di potere in seno al Partito Comunista, e in modo particolare al tentativo della cosiddetta Banda dei Quattro, costituita dalla moglie di Mao Jiang Qing e da tre importanti membri di partito che ancora manteneva le redini del potere, di delegittimare indirettamente la figura di Zhou Enlai e quella, più sullo sfondo, di Deng Xiaoping17.

Luoghi visitati, durata del soggiorno, location.

Non è chiaro quanto duri esattamente il soggiorno di Antonioni in Cina. In alcune interviste Antonioni parla di cinque settimane, altre fonti invece assicurano che le riprese sono durate solo ventidue giorni. Dalle testimonianze rilasciate dallo stesso regista, sappiamo che alcuni giorni sono stati impiegati per negoziare itinerari di viaggio e luoghi di ripresa con le autorità governative a Pechino ed è probabile che altri giorni siano stati spesi nei trasferimenti e nell’organizzazione delle riprese o della spedizione dei materiali in Italia. A ogni buon conto, Antonioni è in Cina nei mesi di maggio e giugno 1972. Le eprincipali mete toccate dal suo viaggio sono quattro grandi metropoli: Pechino, Nanchino, Suzhou, Shanghai. Come già ricordato, l’itinerario è prestabilito dalle autorità governative e prevede, dopo i primi giorni trascorsi nella capitale cinese, la progressiva discesa verso sud e poi verso est del subcontinente, attraversando le provincie del Henan, del Hebei, dello Hunan e del Jiangsu. Di Pechino Antonioni ci mostra molte delle attrazioni turistico-culturali già presenti nel film di Marker o comunque appartenenti a un certo immaginario della capitale: la Città Proibita, la Piazza Tien’anmen, la Zhengyangmen, la torre muraria meridionale di origine tartara, la Via Sacra e le tombe degli imperatori Ming, il Tiāntán, un tempio buddhista, il distretto

15 Cfr. A. Xiang, When Ordinary Seeing Fails’. Reclaiming the Art of Documentary in Michelangelo Antonioni’s 1972 China Film Chung Kuo, «Senses of Cinema», n. 67, Luglio 2013. http://sensesofcinema.com/2013/feature-articles/when- ordinary-seeing-fails-reclaiming-the-art-of-documentary-in-michelangelo-antonionis-1972-china-film-Chung Kuo - Cina/ (ultima visita: 14 novembre 2013).

16 G. Bachmann, Talking with Michelangelo, «The Guardian», 17 febbraio 1975 (tr. it. Da «Cina» a «Professione reporter»

in M. ANTONIONI, M. Antonioni, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, Venezia, Marsilio, 1994.

17 Un interessante sguardo sul film alla luce delle relazioni diplomatiche tra Cina e Italia sotto il maoismo si trova in M.

commerciale di Dongcheng, senza contare la vicina Grande Muraglia. Vediamo anche gli hutong, caratteristici piccoli quartieri pechinesi che verranno quasi del tutto cancellati (e trasformati – i pochi rimasti – in attrazioni turistiche) nei successivi decenni di boom edilizio. Nell’Henan Antonioni riprende il Canale Bandiera Rossa, a Suzhou, la troupe visita i celebri giardini classici costruiti dai mandarini e il Tempio dei Giardini dell’Ovest; a Nanchino il monumento più rappresentativo è ponte di ferro che unisce i due lati della città; a Shanghai, oltre ai quartieri commerciali e al ghetto dove i cinesi vennero rinchiusi durante l’occupazione giapponese, la troupe si sofferma sulla casa-museo dove si è tenuta, in clandestinità, la prima riunione del Partito Comunista Cinese, il Giardino del Mandarino Yu, all’interno del quale sorge una delle case da tè più antiche della città. Naturalmente a queste riprese di luoghi caratteristici e riconoscibili della Cina vanno aggiunte quelle molto più numerose catturate per le strade delle città o delle campagne visitate dalla troupe, le immagini delle scuole, delle fabbriche, delle comuni agricole, degli ambulatori ospedalieri, dei ristoranti, delle sale da tè e così via.

Sinossi

Prima parte

Pechino. Il lungo viaggio di Antonioni in Cina inizia, in un giorno lavorativo del maggio del 1972, da Piazza Tien’anmen. Un gruppo di ragazze e ragazzi si mette in coda, diligentemente, per farsi fotografare. La voce narrante spiega che tipo di documentario intende essere Chung Kuo - Cina, non certo un’opera che pretende di «spiegare la Cina, ma più semplicemente osservare questo grande repertorio di volti, di gesti, di abitudini»18. E

aggiunge: «Sono loro, i cinesi, i protagonisti di questi nostri appunti filmati». La piazza è piena di gente. Sui lati della spianata si stagliano i ritratti dei padri del marxismo (Marx, Engels, Lenin e Stalin, oltre Mao), mentre tutto attorno brulica il traffico di biciclette, motorini, autobus, qualche carro e qualche automobile. Il narratore ricorda subito allo spettatore il principale dei limiti del viaggio (e di conseguenza del film): aver dovuto seguire itinerari predeterminati dalle autorità politiche senza una vera e propria libertà di movimento.

Il regista e la sua troupe abbandonano Piazza Tien’anmen per proseguire seguendo le principali arterie stradali di Pechino. Si vede – grazie ad una delle tante carrellate laterali realizzate su automobili o su altri mezzi di locomozione – l’ingresso di un parco che circonda l’abitazione di Mao. La macchina da presa immediatamente si concentra sugli elementi quotidiani della vita cittadina: le persone che girano in bicicletta, un uomo che guida un carro trainato da cavalli, altri che si stipano su un autobus per andare a scuola o al lavoro, degli operai che salgono su un camion. La voce narrante illustra gli stili di vita della comunità, accenna indirettamente a una critica nei confronti della Rivoluzione culturale che ha dato priorità alla fede politica e non alle competenze, e si abbandona a una serie di osservazioni di natura impressionista: «Gli abitanti di Pechino sembrano poveri, ma non

miserabili. Senza lusso e senza fame. […] Apparentemente non c’è ansia né fretta». Intanto, per alcuni istanti, viene

18 I brani del commento qui presentati sono tratti dalla sceneggiatura originale pubblicata per Einaudi. Cfr. M.

inquadrata Zhengyangmen, la torre muraria meridionale di origini tartare che separa la città nuova da quella vecchia, già vista in Dimanche à Pékin. In uno dei parchi della città, intanto, alcuni anziani praticano esercizi di Tai Chi. La macchina da presa si sofferma alcuni istanti sui loro eleganti e precisi movimenti, poi passa a riprendere gli esercizi ginnici che svolgono in strada alcuni studenti di una scuola superiore, decisamente più disordinati e rumorosi. Infine – come già in Dimanche à Pékin qualche anno prima – ci vengono mostrate scene di vita scolastica all’aperto: le gare di corsa, la marcia, il ritorno da scuola.

Ora siamo all’interno della Clinica ostetrica di Pechino. La macchina da presa di Antonioni entra in una sala operatoria. Qui una lavoratrice di trentacinque anni sta subendo un taglio cesareo. L’anestesia viene praticata attraverso l’agopuntura. «Una pratica semplice, povera che non richiede strumenti complicati». Antonioni pare

affascinato da una pratica che recupera e aggiorna «antichi insegnamenti» e che garantisce con il paziente un

«rapporto umano più diretto». Le immagini si soffermano sugli aghi infilati nella pancia della paziente da infermiere calme e rassicuranti e sul volto relativamente rilassato e sorridente della lavoratrice. Poi il documentario non ci nega la visione dell’intera operazione cesarea e dunque della nascita del primogenito della donna.

La sequenza successiva è ambientata nell’asilo per i figli degli operai del cotonificio. Vediamo bambini in fila che giocano ordinatamente, salgono e scendono dallo scivolo, cantano a memoria e ballano con gesti codificati alcune delle canzoni rivoluzionarie che esaltano la nazione e il suo leader, Mao. Antonioni indugia sui volti dei bambini, poi si allontana, quasi a volersi dissociare dalle pratiche rivoluzionarie e dalla loro messa in scena artefatta.

Ora la cinepresa entra in una delle case costruite per gli operai della fabbrica. Nell’appartamento di due operai del cotonificio ascoltiamo la voce narrante asserire: «La casa è semplice, modesta, uguale a tutte le altre che la

circondano. Per legge l’affitto non può essere più caro del 5% del salario». Gli spazi sono angusti. La coppia lava le

verdure, cucina insieme, la donna cuce un centrino per la tavola mentre parla con l’interprete. Si vedono in bella mostra una statua di Mao e il libretto rosso. La donna si lamenta per non avere ancora dei nipoti. Poco dopo entriamo nel cotonificio. Si tratta di una fabbrica dagli spazi enormi, alle cui macchine lavorano prevalentemente delle operaie. Nelle pause i lavoratori discutono insieme su come migliorare gli standard produttivi «per meglio

servire la rivoluzione» dice la voice over.

Grande Muraglia. Più che alle architetture del celebre complesso difensivo, Antonioni sembra interessarsi alla vita quotidiana dei cinesi che visitano il monumento. Vediamo soldati che chiacchierano, studenti che ridono, un pittore che ritrae il paesaggio attorno a sé, un ragazzo che gioca con una trottola. Intervallate a queste scene quotidiane, le riprese – più classiche – dei grandi torrioni e delle mura che tagliano in due le montagne. Il commento segnala alcune informazioni storiche legate alla costruzione dell’opera: ovvero che sono stati gli schiavi a costruire l’argine militare; che molti di questi cercarono di ribellarsi ma vennero uccisi e i loro corpi servirono come collante delle pietre e dei mattoni; che lo scopo militare difensivo non fu mai raggiunto (i mongoli riuscirono egualmente a invadere la Cina e conquistare Pechino), mentre, viceversa, la costruzione dei 5000 km di mura favorì lo sviluppo della produzione agricola (arrestando i freddi venti della steppa) e, paradossalmente, la diffusione della civiltà han in lande lontane.

In questo peregrinare per i luoghi simbolici di Pechino ecco che Antonioni e la sua troupe vengono condotti sulla Via Sacra, alle porte della città, che conduce alle tombe degli imperatori della dinastia Ming. La macchina da presa non può che soffermarsi, per qualche tempo, sulle statue allegoriche degli animali che la vegliano e la proteggono: elefanti, cammelli, leoni. È curioso notare come Antonioni collochi la macchina da presa in molte delle posizioni già scelte da Marker pochi anni prima in Dimanche à Pékin, per restituire un quadro complessivo e ampio del sito visitato. A differenza del film francese, Antonioni tuttavia percorre la Via Sacra fino a raggiungere la piana dove sono collocate le tombe degli imperatori. Qui ciò che interessa al regista non sono,

ancora una volta, i monumenti funebri, ma le folle di visitatori che si mettono in coda per entrare nella struttura nonostante il disinteresse ufficiale del regime per i segni del passato prerivoluzionario. Nel parco sono ancora scenette apparentemente banali a catturare l’attenzione della macchina da presa: alcuni che giocano a carte, altri che passeggiano tra gli alberi. «La gita alle tombe è un’occasione di festa – dice Antonioni – non c’è niente di

solenne». Nel museo adiacente ai mausolei, trova spazio raffigurativo un «presepe politico». Una volta entrati

nella sala assistiamo alla messa in scena – sottolineata dal regista attraverso un montaggio a pezzi brevi – della ribellione dei contadini contro il regime imperiale e contro l’indigenza a cui erano stati costretti dal sistema dei latifondi.

Un gruppo di studenti, pala in mano, si avvia in marcia per raggiungere la comune alla quale è stato assegnato per il mese di vita contadina che la formazione sociale e politica richiede. La Comune Agricola visitata dalla troupe è chiamata «Cina/Albania». La voce narrante sciorina tutti i numeri positivi della comune, gli ettari coltivati, le scuole attive, la popolazione che vi lavora. La macchina da presa va alla ricerca dell’immagine comune e nello stesso tempo idilliaca: cavalli che corrono, contadini che arano i campi, anatre che mangiano, maiali che dormono all’ombra di un muretto, il tutto mentre la musica rivoluzionaria emessa dagli altoparlanti scandisce le giornate. Le riprese del mercato rionale seguono gli stessi criteri rappresentativi. Vediamo animali venduti ancora vivi, altri macellati sul momento, i pesci ordinatamente esposti sui banchi. La voce di commento ricorda che le macchine da presa sono state nascoste per riprendere il normale esito delle contrattazioni. E aggiunge: «I prezzi sono bassi e c’è abbondanza di merce per tutti». In Cina, ci viene detto, non c’è denutrizione, anche se non tutti i mercati sono così colmi di alimenti, il retroterra agricolo del paese consente a tutti di alimentarsi dignitosamente.

Il solito vigile urbano (c’era anche in Marker) dirige il traffico urbano in piedi da un piedistallo. È collocato all’esterno del grande ingresso della Città Proibita che Antonioni afferma di aver voluto visitare per verificare le analogie con la descrizione degli stessi luoghi fatta da Marco Polo ne Il milione. «Chiusa durante la Rivoluzione

Culturale, la città dell’imperatore è riaperta da poco e noi siamo venuti più per vedere i cinesi che la visitano che a cercare i ricordi delle dinastie estinte». Vediamo, in campo lungo, alcuni dei padiglioni della Città Proibita, ma

soprattutto cinesi che si fanno fotografare, soldati che chiacchierano con le ragazze, altri che passeggiano nei grandi spiazzi antistanti gli edifici. I nomi dei padiglioni rammentano virtù confuciane, ma la realtà storica di quei luoghi racconta di grandi crudeltà, trame di palazzo, ingiustizie perpetrate sui più deboli. Ritornano le immagini della testuggine e della gru già apprezzati nel documentario di Marker, così come quelle dei tetti a pagoda e della porta laccata di rosso. La macchina da presa, collocata in cima alle scale o sui tetti, s’incuriosisce anche per i modi di comportarsi dei visitatori, gli scambi di battute, il riposo sulle panchine pubbliche, il soffermarsi innanzi a qualche scultura.

Torniamo nella «città nuova». È la volta di visitare alcuni quartieri residenziali. Vediamo una vecchia attraversare la strada zoppicando: ha i piedi rovinati dalla vecchia usanza imperiale di fasciare i piedi alle adolescenti, in modo che non crescessero. Facciamo un salto nella via degli antiquari, dove sono messi in mostra antichi vasi e altra oggettistica artigianale, poi in alcuni vecchi quartieri – i cosiddetti hutong – con le case protette da alti muri di cinta, le corti interne, le abitazioni basse. La troupe entra in uno di questi cortili che serve diverse abitazioni e si attarda a riprendere la vita domestica: una bambina che lava i panni, una madre che culla un neonato, alcune anziane donne che riempiono delle giare a una fontana. Proprio al di là delle mura si vedono i nuovi quartieri residenziali con grandi palazzi dalle architetture spartane.

In questa visita completa ai luoghi caratteristici della capitale cinese non poteva mancare una visita della celebre Wangfujing, la strada adibita al commercio, una delle principali arterie del distretto di Dongcheng. Ancora una