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Il progetto

Dimanche à Pékin è il secondo progetto cinematografico firmato in piena autonomia da Chris

Marker dopo Olympia 52, comunque girato in condizioni semi-amatoriali. Introducendo il suo lavoro nel Commentaire1, Marker ricorda che il film viene realizzato durante una visita ufficiale in

Cina in occasione della celebrazione del sesto anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, dal 17 settembre al 3 novembre 1955, organizzata dalla neonata associazione «Les Amitiés Franco-Chinoises» (di simpatie maoista e particolarmente attiva in Francia negli anni Sessanta e Settanta durante la Rivoluzione Culturale). La delegazione includeva molti intellettuali, artisti e studiosi francesi tra cui Claude Roy, Michel Leiris, Armand Gatti, Renée Dumont, Jean Lurçat, Paul Ricœur2. Sempre nello stesso periodo, anche se con itinerari differenti, troviamo in Cina anche

Jean Paul Sartre e Simone De Beauvoir 3. Con Marker c’è, invece, Agnès Varda, amica e collega, che

viene coinvolta nel progetto cinematografico in qualità di «esperta sinologa». Il film, coprodotto dalla Argos di Anatole Dauman, che diventerà la casa di produzione di quasi tutti i lavori sperimentali di Marker, e dalla Pavox Films di Paul Paviot che mette a disposizione la pellicola 16 mm. kodachrome (dono che il regista non esita a definire «decisivo» per la riuscita del film)4, è una

sorta di affresco domenicale della capitale cinese, tanto nei suoi aspetti pubblici e istituzionali (monumenti, visite ufficiali, festeggiamenti in piazza) quanto in quelli più quotidiani. La scelta di ambientare il film di domenica è giustificata dal regista dall’impossibilità di offrire una rappresentazione complessa o almeno minimamente organica del mondo del lavoro cinese, delle fabbriche, degli operai, realtà economica che tanta importanza aveva non solo per la sussistenza della popolazione, ma anche per la propaganda di partito e per chi, nel Vecchio Continente, simpatizzava

1 C. Marker, Commentaires, Parigi, Seuil, 1961, p. 29.

2 C. Lupton, Chris Marker. Memories of the Future, Londra, Reaktion Books, 2005, p. 50.

3 Ricordiamo in nota che pochi anni dopo de Beauvoir porterà in scena La Longue marche, un racconto ispirato al

viaggio realizzato in Cina con Jean-Paul Sartre.

per la rivoluzione comunista. L’artificio narrativo consente a Marker di soffermarsi maggiormente sulle impressioni raccolte per strada, su immagini meno caratterizzate politicamente5.

Il film, presentato alle Journées du Cinéma de Tours, vince il Premio per il miglior cortometraggio, ricompensando parzialmente Marker per le difficoltà incontrate dal suo precedente lavoro Les statues meurent aussi (realizzato in collaborazione con Alain Resnais) del quale, all’epoca, era stata vietata la distribuzione per ovvie ragioni di censura.

Marker trae spunto dal viaggio cinese per pubblicare anche un carnet fotografico come allegato al numero monografico della rivista Esprit (con la quale collaborava da diversi anni) dedicato proprio alla Cina (con scritti di Ricoeur e di Gatti). Il supplemento fotografico curato da Marker, presentato come «un film fatto con le cartoline», contiene una serie di scatti organizzati in senso narrativo e grafico/visuale. In alcuni casi le foto rimandano direttamente agli episodi del cortometraggio, in altri invece sono prive di riferimenti al documentario. Si noti che il libro fotografico, impaginato come fosse un film (o, di contro, i film costituiti da sole fotografie), rappresenta la prima esperienza di una pratica narrativa che il regista affinerà con il tempo sia realizzando pellicole utilizzando solo scatti fotografici (si pensi a La Jetée, Si j’avais 4 dromadaires), sia realizzando libri cartacei «in forma di film», tra cui Coréennes un libro fotografico del 1959 che illustra un viaggio di Marker in Corea del Nord svolto l’anno prima e soprattutto Le dépays, un’altra monografia illustrata sul viaggio in Giappone di Marker in occasione della realizzazione di Sans soleil.

Luoghi visitati, durata del soggiorno, location.

Il documentario è ambientato a Pechino e dintorni. Tra i luoghi più riconoscibili attraversati dalla macchina da presa di Marker troviamo la Via Sacra che conduce alle Tombe degli imperatori della Dinastia dei Ming, la Torre del Tamburo, il parco Beihai, la Città Proibita, Zhengyangmen, il Palazzo d’estate.

Sinossi

Il film si apre con le immagini di un banco di cineserie in bella mostra vicino alla Tour Eiffel. Una voce extradiegetica inizia a parlare, mentre la macchina da presa carrella sugli oggetti in mostra e si sofferma su una

5 In una delle poche interviste rilasciate dal regista, Marker racconta a Yves Benot: «Evidemment, j’aurais voulu montrer

bien d’autres aspects de Pékin, aller filmer les usines et les ouvriers ; mais cela aurait exigé des éclairages, et c’était au- dessus de mes possibilités. Alors, j’ai décidé de montrer une journée de Pékin un jour où l’on ne travaille pas – enfin où la plupart des gens ne travaillent pas. Donc, le dimanche». Yves Benot, Un dimanche à Pékin au pas de Chris Marker, «Les Lettres Française», n. 647, 1956, p. 5.

fotografia di un libro per l’infanzia. Uno zoom verso la fotografia e una doppia dissolvenza in e dal nero ci portano, in effetti, nel bel mezzo della Via Sacra che conduce alle tombe degli imperatori della Dinastia Ming, lungo la quale si trovano collocate a coppie, in posizione eretta o a riposo, trentasei statue riproducenti animali allegorici (cammelli, elefanti, leoni, unicorni, cavalli). La funzione delle statue – ci dice la voce di commento – è quella di proteggere il sonno eterno degli imperatori. Osserviamo in dettaglio alcune di queste statue: quelle dei soldati della Dinastia Ming, quelle di un cavallo accovacciato a terra, di un cammello, di due elefanti.

Senza preavviso, il film ci porta nel centro di Pechino e ci mostra, cose sospeso nella nebbia, la Torre del Tamburo, uno dei punti panoramici della città, nonché edificio che scandisce, fin dai tempi dei Ming, lo scorrere delle ore grazie all’uso di tamburi e percussioni. Avvolta in una sottile bruma, la città si risveglia. La gente inizia a popolare le strade, i tram corrono lungo i viali, i vigili urbani cercano di dirigere il traffico, gruppi di bambini si danno la mano e passeggiano con una maestra, uomini indossano mascherine contro lo smog. La voce narrante extradiegetica illustra le immagini soffermandosi sulla gentilezza e sull’educazione degli abitanti. In un parco cittadino intanto un pechinese svolge i suoi esercizi di Tai Chi6 prima con la spada, poi

combattendo con un collega anziano. Siamo all’interno del giardino Beihai, di epoca imperiale, costruito a nord della Città Proibita, con un lago al suo interno e diverse attrazioni per la popolazione. Qui vediamo svariati bambini che giocano in un’area attrezzata e alcuni atleti e atlete impegnati in esercizi di ginnastica artistica (trave, sbarra, parallele simmetriche e asimmetriche). La voice over rammenta di quando, all’inizio del secolo, venivano trovati e raccolti, in quegli stessi giardini, bimbi in fasce abbandonati e talora morti e in Occidente si raccoglievano offerte per i «cinesi poveri».

Ore dieci. Passa un rullo compressore dell’epoca Ming (o forse, dice la voce, è una copia). A seguire ecco alcune vedute della città catturate da un risciò, tra cui alcune insegne e pubblicità il cui contenuto sfugge al regista perché non conosce la lingua del luogo. Egli però confessa di sentirsi in un luogo familiare e di attendersi di vedere da un momento all’altro Humphrey Bogart vestito di bianco uscire da una fumeria d’oppio. Anche se, aggiunge subito dopo quasi a scusarsi dello stereotipo convocato, non esistono più fumerie in città.

La macchina da presa ora passa accanto a Zhengyangmen, la torre muraria che separa la città nuova da quella vecchia, quest’ultima costruita dai tartari attorno al Palazzo Imperiale, secondo concezioni dello spazio più regolari e squadrate. La porta e la zona sono le stesse già raccontate e descritte in molti diari di viaggio di scrittori francesi come Victor Segalen, Guillaume Pauthier, Philippe Varin, Albert Kahn. Le strade esterne alle mura di cinta sono anch’esse trafficate e piene di vita mentre poco più distante sta nascendo quella che il regista definisce la Pechino del 2000, con palazzi moderni (ne vediamo alcuni in costruzione) dall’architettura non europea, bensì cinese (essenzialmente in virtù dei tetti a forma di pagoda).

Poco dopo eccoci all’interno di una scuola «modello». Qui i bambini imparano a contare, scrivere, cucire. La voce narrante afferma di aver interrotto per un momento la «marcia della storia» offrendo un libro d’immagini che viene da Parigi, provocando l’attenzione eccitata di tutti gli allievi. Poi annota: «Mais il est vrai que le livre est

écrit en français, et que la vue de ces caractères bizarres procure aux jeunes Chinois, me dit-on, des plaisirs d’un exotisme incomparable»7.

Alle 11 il regista dice di essere nel quartiere Tianqiao dove in strada si sta svolgendo uno spettacolo di arti marziali e giochi d’equilibrio. A mezzogiorno, mentre il vigile urbano continua a regolare con energia il traffico, il regista si perde dietro quella che chiama «l’esposizione permanente dei tesori di Pechino». Le strade della città –

6 La translitterazione corretta della celebre boxe cinese in pinyin è Taijiquan, anche se ancora oggi è più diffusa, almeno

in italiano, l’abbreviazione Tai Chi. Per questa ragione, ovvero per comodità di lettura, adotteremo anche noi tale trascrizione.

aggiunge – sono una vera festa del colore. Vi sono colori dappertutto e le immagini lo confermano: troviamo decorazioni sui muri, sui marciapiedi, nelle boutique, su banchi della frutta, nelle pasticcerie e nei negozi di giochi, negli strumenti musicali e nelle porcellane esposti in altri esercizi commmerciali, sui tetti delle case. «Et la ville toute entière est l’éventaire de la vieille Chine, avec ses temples gigognes, ses animaux de bronze, ses toits de

porcelaine. Ce n’est plus la Chine du cinéma, c’est celle de Jules Verne, c’est celle de Marco Polo. Et dans cette Cité Interdite […] cette Cité Interdite devenue musée, près de cette cathédrale de Pékin encore blanche […] on se met à rêver sur l’histoire de cette ville… On rêve à une Chine fabuleuse, è un passé plus intouchable que la face obscure de la lune, éclairé seulement par les coqs qui cannent la nuit, et les yeux des lionnes qui dévisagent le soleil»8. Le riprese,

come si intuisce dal contenuto del commento, indugiano ora all’interno della Città Proibita, negli stessi punti dove dopo pochi anni anche Antonioni realizzerà le medesime inquadrature. Vediamo porzioni di tetti a forma di pagoda, le facciate dei palazzi, le sculture presenti nei cortili interni (una tartaruga-drago, una gru, un leone). Poi la cinepresa carrella dall’alto verso il basso lungo alcune pitture a rotoli che rappresentano l’invasione dei mongoli. Una storia, quella di Gengis Khan e poi del Koubilai Khan, di cui Marker in voice over rammenta alcuni episodi mentre scorrono le fotografie di alcuni cantanti dell’Opera di Pechino. In virtù di un coraggioso raccordo realizzato con una panoramica a schiaffo, il film ora è all’interno di un teatro, dove si stanno esibendo alcuni attori in esercizi funambolici. Subito dopo osserviamo alcune marionette, il teatro d’ombre cinesi, infine la parata militare del 1° ottobre, il giorno in cui si celebra la rivoluzione comunista, con il presidente Mao che saluta la folla festante.

«Fine della parentesi storica». Sentenzia Marker. Nei giardini, nel pomeriggio, continua la vita quotidiana della città. I pesci nuotano nelle fontane, la folla si accalca alle entrate dei parchi, gli innamorati passeggiano, le madri portano in braccio i bambini. Dentro una gabbia un orso – chiamato Joris Ivens e regalato alla municipalità dal regista francese Robert Ménegoz – attrae l’attenzione di un nugolo di bambini. Altre bambine invece danzano, mentre un uomo trasporta un carro, una mamma spinge una carrozzina rudimentale, un’altra attende l’autobus e una bimba mangia il gelato. Altre immagini di vita quotidiana si susseguono: una coppia di asini trasporta un carro, un altro carro lava le strade, un uomo si riposa. È tradizione, per molti abitanti di Pechino, trascorrere la fine della domenica presso i giardini del Palazzo d’estate (Yiheyuan). Qui, giovani vogano su una barca, altri sono seduti sui bordi del lago Kunming, altri si riposano. Il regista chiude il racconto con queste parole: «Dans ce décor

plein d’une grandeur morte, dans les allées de ce Versailles mongol, on peut se poser bien des questions sur le passé et sur l’avenir»9.

Caratteristiche del film. Evidenze dell’alterità

§ Tra il turista, l’osservatore e il viandante. Il secondo film di Marker, in un periodo che può considerarsi ancora di formazione e di definizione delle tematiche, delle morfologie del suo cinema, è un ibrido interessante. Per alcuni versi, ci appare come un film turistico, di quelli che riempivano gli scaffali degli amatori del super8 di ritorno da mete esotiche. Molte sono le attrazioni per stranieri che cadono sotto l’obiettivo di Marker come quelle relative alle vestigia delle dinastie imperiali come la Città Proibita, il Palazzo d’Estate, le mura di cinta della città tartara, la torre del Tamburo, la Via Sacra che conduce alle tombe degli imperatori Ming, i giardini dove atleti di Tai Chi compiono i loro esercizi. In seconda battuta ecco comparire una serie d’immagini che rimandano agli intrattenimenti culturali più codificati: il teatro dell’Opera, le ombre cinesi, le pitture su rotolo, gli spettacoli di marionette, gli acrobati del circo. Non mancano passaggi

8 Ivi, p. 36. 9 Ivi, p. 39.

raffigurativi più «istituzionali», quelli che ricordano la rivoluzione maoista: la parata del 1° ottobre, con il Grande Timoniere che saluta le genti festanti, i mezzi militari e l’esercito che marcia, gli studenti che salutano con i loro fazzoletti, gli atleti di ginnastica artistica che si allenano nel parco; gli studenti di una scuola-modello che imparano a leggere e a cucire, a far di conto e i rudimenti della scienza. Infine, un altro «esotismo terzomondista» è dato dal soffermarsi della macchina da presa sulla condizione di povertà, o almeno di ristrettezza economica, che pervade gli abitanti di Pechino: i carretti, i muli, un vigile urbano piuttosto goffo, i risciò, gli uomini in bicicletta, in una collezione di immagini che ritroveremo in altri film europei girati nella capitale cinese. Accanto a raffigurazioni più prevedibili, ecco tuttavia comparire scorci inattesi, capovolgimenti della prospettiva. In certi passaggi, ad esempio, il gioco dell’esotismo è ribaltato secondo strategie che ritorneranno, più sofisticate, nelle opere «giapponesi» di Marker, come quando il regista mostra alla scolaresca un libro illustrato in francese e i ragazzini si appassionano per caratteri mai visti prima, e dunque a loro volta considerati esotici, oppure quando ironizza sulle questue dei primi del Novecento in Francia quando si raccoglievano viveri da spedire ai bambini cinesi solo secondo una visione pietista del problema della povertà tipicamente borghese.

§ Sinfonia di una città. Anche questo cortometraggio, come altri dedicati alle città asiatiche (Calcutta, Tokyo-Ga, Le mystère Koumiko, Bombay – La porta dell’India) è composto da scene brevi, quasi delle pennellate impressionistiche, montate secondo un ordine cronologico labile, quando non assente. L’idea è di catturare il momento, la quotidianità, le occupazioni delle persone comuni. Come ha modo di scrivere Marker nei suoi Commentaires: «Ce film n’est pas, ne peut pas, ne veut pas être un essai-sur-la-Chine, entreprise qui demanderait plus de temps, beaucoup plus d’efforts et infiniment plus d’humilité»10.

§ Voice over. Qui, come e meglio farà Marker in Lettre de Sibérie, s’iniziano ad apprezzare i giochi di stratificazione dei significati che la voce di commento consente di sperimentare (v. cap. 15). L’uso della prima persona riconduce l’esperimento a un orizzonte personale, ricollegandosi con la tradizione odeporica così importante nella letteratura francese. È un autobiografismo che sul piano cinematografico ricorda le teorie di Astruc e anticipa il cinema della Nouvelle Vague e quello, parzialmente più partecipato, del cinéma-vérité. Nondimeno siamo innanzi a una voce che disorienta perché appare seria, rigorosa, finanche stentorea come quella dei commentatori dei documentari tradizionali (la recita Gilles Quéant, attore che lavorerà con Resnais e Godard), ma recitante un testo non privo di sottili irrisioni e insolite autoironie, talvolta inframmezzate con (e nascoste da) locuzioni retoriche o ardite allegorie, tanto da determinare effetti di senso quasi a «scoppio ritardato», vista l’impossibilità di afferrarli immediatamente.

§ Le immagini dell’infanzia. Come in molti altri lavori – si vedano gli Appunti per un film sull’India o Une histoire de vent – anche in Dimanche à Pékin sembra esserci alla base del viaggio una fascinazione fanciullesca per l’Oriente, conosciuto fin da piccoli sui romanzi di avventura. Le prime battute del cortometraggio, d’altra parte, sono chiare a riguardo e costituiscono una sorta di confessione rivolta allo spettatore circa l’importanza dell’immaginario infantile nella percezione del viaggio cinese: «Je rêvais de Pékin depuis trente ans, sans le savoir. J’avais dans l’oeil une gravure de livre d’enfance, sans savoir où c’était exactement - et c’était exactement aux portes de Pékin: l’allée qui

conduit aux tombeaux des Ming. Et un beau jour, j’y étais. C’est plutôt rare de pouvoir se promener dans une image d’enfance»11.

§ Il viaggio come proiezione della memoria. Non ci soffermiamo più di tanto su questo tema, perché rappresenta il leitmotiv principale di tutto il cinema markeriano. Ci limitiamo a sottolineare come anche qui, all’inizio del racconto, Marker segnala l’importanza che ha il ricordo del viaggio, più del viaggio stesso, la proiezione di sé nel passato (e nel futuro di nuovi viaggi), piuttosto che la stabilizzazione nel presente. «Rien n’est plus beau que Paris, sinon le souvenir de Paris. Et rien n’est plus beau que Pékin si non le souvenir de Pékin. Et moi, à Paris, je me souviens de Pékin et je compte mes trésors»