Il secondo dopoguerra si apre con un coacervo di avvenimenti storici, politici, culturali, sociali che, deflagrati in tutta la loro forza e in quasi ogni quadrante del mondo, alterano progressivamente gli equilibri geopolitici precariamente stabiliti dalle fine delle ostilità. Focalizzando la nostra attenzione esclusivamente sulle aree geografiche di cui ci occuperemo in questo studio, si può dire che è almeno dallo scoppio della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki (e forse ancora prima, dall’attacco giapponese di Pearl Harbour) in avanti che inizia a porsi innanzi al cosiddetto mondo
51 Quella che presentiamo nelle prossime pagine è una ricostruzione giocoforza limitata e sintetica del contesto storico-
sociale di quegli anni perché il suo approfondimento esula dagli obiettivi della tesi. Per indagare meglio i fatti che qui menzioniamo si rimanda ai riferimenti bibliografici presenti nelle note del prossimo paragrafo, le quali si offrono di restituire in buona parte il corpus bibliografico consultato.
occidentale, fino a quel momento saldamente autocentrato su se stesso, una «questione orientale» intendendo con questa labile definizione l’insieme di eventi che consentono di individuare un protagonismo inedito e una presenza forte e influente sullo scacchiere internazionale da parte di alcuni stati asiatici, secondo forme di affermazione (o di resistenza alla sopraffazione) che erano state negate nei precedenti secoli a causa dei disequilibri economici e militari in atto o da politiche di sfruttamento e di controllo di stampo prettamente coloniale capaci di sfiancarne la forza reattiva52.
Al contrario, all’indomani della fine del secondo conflitto bellico, altri ne scoppiano – e di piuttosto gravi – nel «continente giallo» (etichetta di comodo) tali da costringere un coinvolgimento non previsto di risorse e forze militari da parte delle nazioni europee o di quella americana. Si comincia con la questione palestinese, con la proclamazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948 e la successiva guerra arabo-israeliana che coinvolge indirettamente Gran Bretagna, Stati Uniti e le Nazioni Unite (a cui si aggiungono i conflitti che seguiranno negli anni a venire – la guerra con l’Egitto del 1956, la guerra dei Sei giorni del 1967, la guerra di Yom Kippur del 1973 – e più in generale una situazione di instabilità che ancora oggi pesa sulle vicende storico-politiche di quella regione)53. Si prosegue con la guerra civile in Cina che porta alla vittoria dell’Armata Rossa guidata
da Mao e alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, con quella in Corea54,
scoppiata il 26 giugno 1950 e terminata nel 1953 con la suddivisione in due della penisola (e il coinvolgimento di Stati Uniti e molti altri paesi delle Nazioni Unite, oltre a Cina e URSS). A poche centinaia di chilometri, a partire almeno dal 1945, anche l’Indocina Francese deve fare fronte a una serie di insurrezioni che presto si trasformano in guerriglia e poi in guerra da parte dell’esercito di liberazione dei Viet Mihn, guidato da Ho Chi Min. Le sconfitte subite dai transalpini spingeranno il governo di Parigi a cercare un armistizio, firmato nel 1954 e che sancirà la suddivisione del Vietnam in due stati, separati all’altezza del diciassettesimo parallelo55. Si deve ricordare anche la
guerra civile laotiana, scoppiata nel 1953, allora meno nota sul piano mediatico rispetto a quella del
52 K. M. Panikkar, Asia and Western Dominance. a survey of the Vasco Da Gama epoch of Asian history, 1498-1945,
Londra, G. Allen & Unwin, 1953 (tr. it. Storia della dominazione europea in Asia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1958).
53 E. Said. The Question of Palestine, New York, Vintage Books Editions, 1992 (tr. it. La questione palestinese, Roma,
Gamberetti Editrice, 1995); I. Pappé (a cura di), The Israel/Palestine Question, Londra, Routledge, 1999.
54 W. Stueck, The Korean War. An International History, Princeton, Princeton University Press, 1997; P. M. Edwards, Historical Dictionary of the Korean War, Lanham, Scarecrow Press, 2010.
55 M. Atwood Lawrence, F. Logevall (a cura di), The first Vietnam War. Colonial Conflict and Cold War Crisis,
Vietnam, ma egualmente importante. Quanto al Vietnam, gli eventi sono più che conosciuti: la cosiddetta seconda guerra d’Indocina, scoppiata nel 1960 e chiusa nel 1975 con la caduta di Saigon, rappresenta, infatti, la prima grande sconfitta dell’esercito americano nel Novecento, cui si lega peraltro anche la guerra civile in Cambogia (ufficialmente svoltasi dal 1967 al 1975)56.
Tali guerre «civili» si configurano, in realtà, in un più ampio complesso quadro di equilibri internazionali riconducibili alla cosiddetta Guerra Fredda57 e, in seconda battuta, ai processi di
decolonizzazione 58 e di lotta di liberazione contro le occupazioni militari straniere che
coinvolgeranno – sempre e solo considerando il continente asiatico – stati come la Siria e il Libano, che si liberano del controllo delle truppe francesi nel 1946, l’India (a maggioranza indù) e il Pakistan (a maggioranza mussulmana) che conquistano pacificamente l’indipendenza dalla Corona Britannica nel 1947 (ma che meno pacificamente si contenderanno il Kashmir negli anni a venire), mentre Ceylon (ora Srī Lanka) e la Birmania (ora Myanmar) lo faranno l’anno seguente, nel 1948. Le Filippine ottengono autonomia politica nel 1946, riscattandosi dal controllo giapponese nel 1949, mentre sempre nello stesso anno è l’Indonesia a conquistare l’indipendenza dopo una guerra lunga quattro anni contro l’esercito della regina Giuliana d’Olanda. Nel 1967 la Gran Bretagna si ritira da Aden e viene proclamata l’indipendenza dello Yemen del Sud (unificatosi solo nel 1990 con lo Yemen del Nord nella Repubblica dello Yemen dopo una lunga guerra civile). Nel 1957 si fonda la federazione malese, che dal 1963 con lo stato di Singapore (poi erettosi in Stato indipendente nel 1965) e altri territori più piccoli, forma la Malesia. Il Bhutan, invece, diventa indipendente nel 1971, dopo essser stato controllato prima dagli inglesi e poi da un protettorato indiano. Nel 1961 il Kuwait si libera del protettorato britannico, mentre dieci anni dopo è la volta del Baḥrain, dell’emirato del Qaṭar e della federazione degli Emirati Arabi Uniti a dichiarare la propria indipendenza.
Naturalmente il «protagonismo» asiatico non si esaurisce nelle guerre di liberazione nazionale. Altri eventi – spesso tragici – hanno la capacità di determinare attenzione e mobilitazione internazionale. Ci riferiamo ad esempio alle rivolte a Lhasa in Tibet (1959), allo scoppio della
56 G. Gribaudi (a cura di), Le guerre del Novecento, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2007. 57 J. Smith, La guerra fredda 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2000.
58 Per uno sguardo complessivo sul fenomeno della decolonizzazione si rimanda a D. Rothermund, The Routledge Companion to Decolonization, Londra, Routledge, 2006; M. E. Chamberlain, Decolonization. The Fall of the European Empires, New York, Wiley, 1999. Si veda anche in italiano W. Reinhard, Storia del colonialismo, Torino, Einaudi, 2002.
Rivoluzione culturale in Cina (1966), alle guerre in Afghanistan (su tutte l’invasione sovietica del 1979 dopo il colpo di stato del 1978 e l’uccisione del Taraki, e la successiva resistenza dei talebani), la caduta dello Shah e la proclamazione della Repubblica Islamica nel 1979 in Iran, i sei colpi di stato in Iraq, da quello di ʿAbd al-Karīm Qāsim nel 1958 fino a quello del 1968 che riporta al potere il partito Baʿth, guidato dal 1979 da Saddam Hussein, alla guerra Iran-Iraq, alla salita al potere (e poi alla sua destituzione) di Indira Gandhi in India, ai conflitti tra Taiwan e la Cina, specialmente all’indomani (1971) dell’entrata della Cina nelle Nazioni Unite al posto dei rappresentanti del partito nazionalista (il Guomintang). Ma fatti anche meno drammatici possono essere qui ricordati come la nascita del movimento dei Paesi non Allineati (né all’Urss, né agli Stati Uniti, guidati dall’India di Nehru, dalla Jugoslavia di Tito e dall’Egitto di Nasser, dall’Indonesia di Sukarno), le Olimpiadi di Tokyo del 1964, che grande importanza hanno avuto nel presentare il Giappone come nazione moderna e all’avanguardia, il Nobel per la Pace del 1973 al rivoluzionario vietnamita Lê Ðức Thọ (ma da questi rifiutato) per la sua positiva partecipazione agli accordi di pace di Parigi per la cessazione della guerra in Vietnam, quello del 1974 al primo ministro giapponese Satō Eisaku per l’adesione nipponica al Trattato di non proliferazione nucleare, senza contare il protagonismo dei paesi asiatici nel campo delle arti (pittura, cinema, teatro, musica), dell’economia «liberista» e dello sviluppo tecnologico (in particolare l’avanguardia costituita dalle cosiddette Tigri Asiatiche: Giappone, Corea del sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong)59, la grande
diffusione delle religioni orientali ben oltre i tradizionali confini nazionali e culturali (in modo particolare del buddhismo e più recentemente dell’islamismo) 60, le mode nei confronti delle arti
marziali (che hanno anche parzialmente a che fare con la fortuna avuta da alcuni film nipponici degli anni Cinquanta o hongkonghesi degli anni Settanta), per l’architettura e il gusto decorativo giapponese, per lo yoga, la meditazione zen, la spiritualità new age e così via.
59 M. T. Berger, The Battle for Asia. From Decolonization to Globalization, Londra/New York, Routledge, 2004.
60 Per un’introduzione a un tema invero molto complesso e difficile da determinare con esattezza potrebbe essere utile
iniziare un percorso speculativo dai lavori dell’antropologo delle religioni Lionel Obadia e del sinologo/filosofo François Jullien: L. Obadia, Le bouddhisme en Occident, Parigi, Editions La Découverte, 2007 (tr. it. Il buddhismo in Occidente, Bologna, Il Mulino, 2009); L. Obadia, La religion, Parigi, Le Cavalier Bleu, 2004; Id., L’anthropologie des religions, Editions La Découverte, 2007; F. Jullien, Le Détour et l’ Accès. Stratégies du sens en Chine, en Grèce, Parigi, Grasset, 1995 (tr. it. Strategie del senso in Cina e in Grecia, Roma, Meltemi, 2005). Id., La valeur allusive. Des catégories originales de
l’interprétation poétique dans la tradition chinoise (Contribution à une refléxion sur l’alterité interculturelle), École française
In questi stessi anni le società europee e americane sono attraversate da una grande effervescenza sociale, politica, culturale, che è certamente influenzata dai fatti sopra riportati, o meglio ancora dalle reazioni che esse producono in una fetta sempre più ampia dell’opinione pubblica (specie giovanile), ma che altresì dipende dal diffondersi di una serie di battaglie volte all’affermazione di nuovi stili di vita, dei diritti civili di coloro che appartengono a minoranze socialmente discriminate, di nuove forme di espressione artistica, di alternative alla società dei consumi e alle politiche estere dei paesi occidentali nei confronti di quello che sempre più spesso viene definito Terzo Mondo (da un’espressione coniata all’inizio degli anni Cinquanta dall’economista Alfred Sauvy) 61. Si possono
annoverare, all’interno di ebollizioni che gorgogliano in continuazione, senza soluzione di continuità, un numero ampio di movimenti di massa, spesso legati all’emersione di nuovi fenomeni e nuove culture giovanili62. Ne ricordiamo giusto alcuni: le Redstockings e l’ondata del femminismo
radicale, i movimenti hippie, quelli a favore dei diritti degli afroamericani e contro la segregazione razziale, guidati da leader non violenti come Malcolm X e Martin Luther King (ma affermati anche da gruppi più radicali come le cosiddette Pantere Nere), i provo olandesi e tedeschi, l’universo movimentista studentesco e operaio il cui attivismo condurrà alle manifestazioni del Sessantotto, che riguarderanno le più celebri di tutte, quelle del maggio francese, ma che in verità coinvolgeranno molti altri paesi in giro per il mondo (dagli Stati Uniti al Giappone, dal Messico all’Italia, dalla Germania alla Polonia, dalla Jugoslavia alla Cecoslovacchia, in verità di qualche mese precedenti con i fatti della Primavera di Praga). Pensiamo anche, ovviamente, a fenomeni che si affermano in campo artistico come i teddy boys, la beat generation, le nouvelle vague cinematografiche, l’internazionale situazionista, le neoavanguardie letterarie e pittoriche, le correnti americane come la pop-art o l’espressionismo astratto, il teatro dell’assurdo, i movimenti musicali (dal rock and roll
61 M. Mellino, La critica postcoloniale . Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma,
Meltemi, 2005, p. 97.
62 Ricordiamo che la «questione giovanile» intesa in senso moderno, come affermazione di una nuovo soggetto sociale,
emerge già alla fine dell’Ottocento e in particolar modo nella prima metà del Novecento, grazie all’istituzione di molti movimenti giovanili sia nelle società democratiche (Stati Uniti, Gran Bretagna), sia in quelle governate da dittature fasciste (Germania, Italia). A tal proposito si veda J. Savage, The Creation of Youth, 1875-1945, Londra, Chatto e Windus, 2007 (tr. it. L’invenzione dei giovani, Milano, Feltrinelli, 2009); G. Levi, J. C. Schmitt (a cura di), A History of
Young People in the West. Stormy Evolution to Modern Times. Vol. 2., Harvard, Harvard University Press, 1997 (tr. it. Storia dei giovani. Vol. 2. L’età contemporanea, Roma/Bari, Laterza, 1994); P. Sorcinelli, A. Varni, Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Roma, Donzelli, 2004; P. Dogliani, Storia dei giovani, Roma, Bruno
negli anni Cinquanta al punk nei Settanta) che diedero vita a subculture giovanili come i greasers
americani, i raggare svedesi, gli halbstarke tedeschi, i rockabilly giapponesi63.
Il quadro politico, sociale, culturale – qui semplicemente abbozzato per ovvie ragioni di spazio – ci ricorda che l’articolarsi delle rappresentazione dell’alterità realizzate in questo periodo si inserisce in un contesto così complesso e composito da non consentire ermeneutiche o speculazioni fondate su categorie cristallizzate, paesaggi dicotomici, forme essenzializzanti di decodifica. Al contrario, il visibile sorliniano, il conflitto tra «gruppi di nomadi» e «comunità stanziali» di Altman, il «fuori- film» di Odin hanno intimamente a che fare con una rete discorsiva (una semiosfera la chiamerebbe Jurij M. Lotman64) fitta, intricata, intrecciata, diffusa. I «gruppi di nomadi» sono numerosi,
rabbiosi, decisi, il visibile è in continua trasformazione, il «fuori-film» immerso in un caotico zibaldone di suoni e rumori di «sottofondo». Sono questi gli anni in cui, non a caso, vengono rigettati o profondamente criticati i paradigmi culturali che hanno informato i paesi coloniali fino alla seconda guerra mondiale mentre diversi gruppi sociali si ritagliano uno spazio comunicativo che influenza tali rappresentazioni, con nuove parole d’ordine, nuove priorità, nuovi schemi cognitivi e culturali da affermare. Un periodo in cui si mette in discussione, alla radice e senza sconti, lo stesso termine «cultura», considerato come un concetto omogeneizzante, livellante e conservativo di sapere, tanto da essere contraddetto dalla teorizzazione e dalla pratica delle subculture, delle controculture, delle culture «alternative»65. Decidendo di affrontarne una piccola porzione di questa
rete discorsiva – che inizieremo a declinare dal prossimo capitolo – tenteremo di compiere un’operazione insieme di sopravvivenza e di rilancio. Muovendosi secondo un modello parzialmente semio-pragmatico, recuperando al nostro soggetto di studio l’approccio metodologico di Odin, cercheremo di costruire un orizzonte di sguardi strabici, disseminati, disequilibrati che tengano in alta considerazione, pur senza poterlo affrontare direttamente, il contesto istituzionale, storico e
63 J. Austin, M. Willard, Generations of Youth. Youth Cultures and History in Twentieth-century America, New York, New
York University Press, 1998; M. J. Kramer, The Republic of Rock. Music and Citizenship in the Sixties Counterculture, Oxford, Oxford University Press, 2013.
64 J. M. Lotman, O semiosfere, «Semeiotiké. Trudy po znakovym sistemam», Vol. 17, 1984, pp. 5- 23 (tr. it., “La
semiosfera”, in Id., La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985).
65 K. Gelder, Subcultures. Cultural Histories and Social Practice, Londra, Routledge, 2007; K. Goffman, Counterculture through the ages, New York, Villard Books, 2004; G. Lemke-Santangelo, Daughters of Aquarius. Women of the Sixties Counterculture, Lawrence, University Press of Kansas, 2009; Paul Hodkinson, Wolfgang Deicke, Youth Cultures Scenes, Subcultures and Tribes, New York/Londra, Routledge, 2007; G. McKay, Senseless Acts of Beauty. Cultures of Resistance since the Sixties, Londra, Verso, 1996.
culturale in cui tali rappresentazioni si esperiscono, con un’attenzione al modo con cui i testi «orientalisti» e i loro autori hanno cercato di relazionarsi con uno spettatore tanto interessato e partecipante, quanto sfuggente e pluri-identitario, secondo un ampio spettro di effetti, processi, stratificazioni di senso che si possono intercettare nelle fascinazioni della sua messa in forma, nelle modalità di posizionamento discorsivo, nelle scelte di campo. Da questo punto di vista le «classiche» cartoline dell’orientalismo (le cupole delle moschee, i minareti, i veli delle danzatrici, le gobbe del cammello, le palme di cocco) unite a tutte le nuove configurazioni degli immaginari «esotici» che in questi anni i registi che appartengono a questa generazione e a questi movimenti culturali cercheranno di affermare, diventeranno segni immediatamente visibili (mostrativi) di una produttività diversa nella riconversione al paesaggio culturale qui descritto. Una produttività che è lungi dall’apparire prevedibile e che anzi può generare e pervenire al malinteso, all’incomprensibile, all’evanescente, in base alle modalità di esposizione e ricezione di tali immaginari o al loro inserimento in un contesto aperto e complesso, disarticolato. Come vedremo tra qualche pagina, non sarà raro imbattersi in idee di alterità forse figurativamente riconoscibili che però conterranno, in potenza o in latenza, alterità che conservano il desiderio dell’irriconoscibile, dello stordente, del disorientante.