coprodotto con la BBC), Appunti nepalesi (1994, per «Effetto Video 8»), Disperazione e nostalgia (1995, girato in Tagikistan e Kirghizistan), il documentario Nous irons a Tahiti (1961), Lhasa è vicina (1984), Vicino al cielo, vicino alla
terra (1984), Taxi driver a Pechino (1985), Nostalgia di un Kolossal (1987).
46 Bacigalupo è stato in gioventù un cineasta indipendente e underground, prima di abbandonare il campo
cinematografico e dedicarsi agli studi accademici. Tra i suoi titoli di ricerca quello più vicino alle nostre tematiche è sicuramente Migrazione (Italia, 1970).
47 Nella vasta filmografia di Tonino De Bernardi, regista indipendente torinese, i paesi africani e asiatici ricorrono con
una certa regolarità. Ricordiamo in questa sede almeno alcuni titoli della sua produzione: A Patrizia. L’irrealtà ideale,
l’oggetto d’amore (Italia, 1970) parzialmente girato in Marocco, Percorrendo la spirale (Italia, 1973) girato in Africa e in
È evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso tempo. Ciò si può vedere più chiaramente dal fatto che questi termini si sono cristallizzati non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale ma dal punto di vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare dovunque. Il Giappone è Estremo Oriente non solo per l’Europeo ma forse anche per l’Americano della California e per lo stesso Giapponese, il quale attraverso la cultura politica inglese potrà chiamare Prossimo Oriente l’Egitto48.
Costrutto storico formatosi secondo i parametri e le ambizioni egemoniche delle «classi colte europee», diffusosi in modo particolare in ambito burocratico, laddove serviva alle amministrazioni coloniali per suddividere i propri possedimenti e in ambito accademico poiché era utile a specificare le aree di ricerca e di specializzazione degli studiosi «orientalisti», il lemma «Oriente» non rimanda evidentemente a una regione geografica definita dai confini prestabiliti, né si riferisce a una costruzione culturale cristallizzata nel tempo, ma rinvia a un costrutto in divenire, influenzato dalle singole stagioni storiche nelle quali viene impiegato. Anche quando è stato declinato con aggettivi che avrebbero dovuto circostanziare con più precisione l’area di riferimento – ad esempio Vicino Oriente, Medio Oriente, Lontano o Estremo Oriente49 – il vocabolo ha dato origine a confusioni,
malintesi, imprecisioni. Si faccia caso che le espressioni Vicino e Medio Oriente sono state spesso adoperate come sinonimi, riferendosi entrambe al mondo arabofono, il quale però può andare dal Marocco allo Yemen o all’Iraq, senza una definizione geografica precisa. D’altronde quando indicavano i domini dell’Impero Ottomano, Vicino e Medio Oriente si rifacevano ad aree geografiche variabili, avendo la Sublime Porta, nel corso dei secoli, modificato in modo significativo i propri confini50. Confini che peraltro mantengono, nella loro difficile «tracciabilità», un’inusitata
valenza sociale fantasmatica, un grado di arbitrarietà particolarmente alto, una forza negoziale basata sulla logica del più forte, plastificano separazioni che non esistono né culturalmente, né morfologicamente51.
48 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Vol. II, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1419-1420.
49 Termini analoghi si trovano anche in francese (Proche Orient/Moyen Orient/Extrême-Orient) e in inglese (Near
East, Middle East, Far East).
50 L’Impero Ottomano ha goduto, nel corso della sua storia secolare, di periodi di forte espansione alternate ad altre di
contrazione, arrivando a conquistare e gestire territori che partivano dall’Austria a ovest o dalla Polonia e l’Ungheria a nord, per giungere fino all’Azerbaigian a est o all’Etiopia a sud, comprendendo cioè gran parte dell’Europa orientale – i Balcani, la Grecia – la penisola araba, il Maghreb e l’Africa del Nord, Israele, il Libano ecc.
51 Sulla funzione convenzionale e sociale dei «confini», quelli tra Est e Ovest ma non solo, si rimanda, oltre al testo di
Più in generale, come giustamente ha chiosato Said seguendo le orme degli scritti e dei pensieri gramsciani:
L’Oriente [è] in un certo senso un’invenzione dell’Occidente, sin dall’antichità luogo di avventure, popolato da creature esotiche, ricco di ricordi ricorrenti e paesaggi, di esperienze eccezionali. […] [Esso] non è solo adiacente all’Europa, è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora, l’Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente)52.
Malgrado poi, nel proseguimento del suo testo, si premunirà di sostenere la materialità del costrutto, ovvero la presenza effettiva di un (Medio) Oriente abitato da popolazioni autoctone e culturalmente/etnicamente definibili, Said intuisce e cerca di definire l’ampio spettro di significati che va oltre il semplice riferimento geografico. È, insomma, il carattere allusivo del termine Oriente ad aver sopravanzato e sottomesso quello toponomastico, in quanto convoca fenomeni culturali, esperienze, allure eterocliti. È a quest’ultimo orizzonte di significati che ci si riferirà le poche volte in cui utilizzeremo il lemma: non andrà a indicare una precisa area geografica o un nucleo resistente di culture o nazioni, bensì servirà per richiamare l’insieme deregolato di echi semantici che hanno a che fare con le questioni della politica, dell’identità nazionale/culturale, dell’immaginario, del narrativo (favolistico o meno), del simbolico, del relazionale/conflittuale nei confronti di un costrutto parallelo, quello occidentale, che evidentemente si rispecchia e vi si riconosce per ampiezza dei significanti e inafferrabilità dei significati.
Da questo punto di vista, la scelta del titolo della tesi, apparentemente controverso, dovrebbe dimostrare il modo con cui abbiamo scelto di trattare il costrutto. Viaggio in Oriente non è, infatti, un’espressione che documenta alcuno spazio definito, né ha ambizioni regolative/tassonomiche/amministrative, bensì si accontenta di richiamare – attraverso una semplice citazione – una tradizione di racconti, di approcci, di modalità di relazione con l’alterità che è a dir poco sterminata, se si considera la letteratura di viaggio dell’Ottocento (e con Chateaubriand anche prima). Come forse sospetta il lettore, l’espressione adottata non è soltanto la traduzione italiana del
géopolitique, Parigi, Fayard, 1988; Id., L’obsession des frontières, Parigi, Fayard, 2007; P. Legendre, Ce que l’Occident ne voit pas de l’occident, Parigi, Éditions Mille et Une nuits, 2004; J. P. Vernant, La traversée des frontières, Parigi, Seuil,
2004; M. Crépon, Altérités de l’Europe, Parigi, Galilée, 2006.
titolo di un celebre diario di viaggio, scritto da Gérard De Nerval e pubblicato nel 1851, ma è la formula sotto la quale si possono inserire centinaia di altri prodotti letterari (e non solo) più o meno coevi. Molti forse si sono imbattuti nel Voyage en Orient di Alphonse de Lamartine del 1835 (e poi il suo secondo diario intitolato Nouveau Voyage en Orient del 1850), forse nel Die Morgenlandfahrt (la cui traduzione in italiano è Pellegrinaggio a Oriente) di Hermann Hesse del 1935 o nelle due pubblicazioni postume Le voyage en Orient di Gustave Flaubert (dove sono raccolte e pubblicate le lettere inedite inviate in Francia dallo scrittore di Madame Bovary nel corso del suo soggiorno in Egitto), gli architetti forse conoscono Le voyage d’Orient del celebre architetto Le Corbusier (1966). Sospettiamo invece che pochi conoscano il Voyage en Orient di Jules Janin (1834), o quello di Jean- Vaast De La Roière (1836), di Joseph Reinach (1879) e di Adolphe Laurent Joanne (1850, parte di una pubblicazione in più volumi dedicata a un viaggio intorno al mondo). Oggi sono poco noti anche il Journal d’un voyage en Orient di Pierre Azaïs (1858), quelli omonimi del Visconte de Savigny de Moncorps (1873), di Joseph d’Estourmel (1844) o di Valérie de Gasparin (1850). Analogo destino probabilmente vivono corpus odeporici come L’Orient, ou: Voyage en Egypte, en
Arabie, en Terre-Sainte, en Turquie et en Grèce di Leon Gingras (1847), il Damascus and Palmyra: A Journey to the East di Charles Greenstreet Addison (1838), le Lettres d’un pélerin de Jérusalem: journal d’un voyage en orient di Eugène Boullier (1854), i Récits et souvenirs d’un voyage en Orient di
Baptistin Poujoulat (1859), il diario En Orient; souvenirs de voyage, 1858-1861 di Fernand de Schickler (1863), quello in lingua inglese Diary of a Journey to the East, in the Autumn of 1854 di William Beamont (1856), il Nouveau voyage fait au Levant di Jean Baptiste Tollot (1842), i Cinq
années de voyage en Orient, 1846-1851 di Israel Joseph Benjamin (1856), le Lettres sur l’Orient di
Théodore Renouard de Bussièrre (1829), le Lettres from the East di John Carne (1826), quelle omonime di William Bryant (1869) o di William Griffith (1875), le Letters from the Orient, or
Travels in Turkey, the Holy Land and Egypt di Ida von Hahn-Hahn (1845) e così via53.
Come avremo modo di notare più avanti, la declinazione narrativa del viaggio sotto forma di diario, di appunto disordinato, di souvenir, di lettera o di altre forme impressionistiche di racconto
53 Oltre i repertori online della Library of Congress di Washington, della British Library di Londra e della Bibliotèque
Nationale de France, per recuperare questi titoli abbiamo anche consultato: Jean Claude Berchet Le voyage en Orient, Parigi, Robert Laffont, 1985; S. Searight, The British in the Middle East, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1970; G. Guadalupi (a cura di), Orienti. Viaggiatori scrittori dell’Ottocento, Milano, Feltrinelli, 1989.
– rintracciabile già nei titoli dei volumi appena menzionati – rappresenterà uno dei pochi caratteri di omogeneità e di trasversalità delle pellicole che analizzeremo, facendo sì che anche i nostri film, o almeno la maggior parte di essi, possano considerarsi pienamente inseriti in un repertorio consolidato di narrativa odeporica, in una sorta di macro-genere transmediale che ovviamente trova eco anche nella pittura di paesaggio, nella letteratura per l’infanzia, nella musica e così via54.
Ritornando ancora un istante al solo Voyage en Orient De Nerval, vale la pena proporne il riuso nel titolo di questo lavoro perché quell’opera letteraria – più di altre – istituisce un nesso ben preciso con i film di viaggio qui analizzati. Intanto i repertori convocati condividono la medesima tensione verso una dimensione di fuggevolezza dei registri linguistici, verso la continua sovrapposizione tra descrizioni di eventi (forse) accaduti, riedizioni enfatizzate d’immaginari fantastici o archetipi culturali, proiezioni oniriche di fantasmi personali. In seconda batta li accomuna una scrittura instabile e difficilmente definibile, frutto di percorsi solitari, isolati, insicuri, privi spesso delle necessarie prudenze e circospezioni nei confronti dell’alterità55. Si ricorderà che Nerval redige,
riscrive, modifica più volte le sue prose di viaggio, le pubblica su diverse riviste, senza un ordine preciso, prima di raccoglierle in una sola collezione in due volumi. Gli elementi autobiografici che emergono dalle pagine dei suoi resoconti restituiscono un irriducibile e irrimediabile sentimento di alterità che conduce alla dispersione dei confini reali delle na(rra)zioni, alla ripetizione delle partenze e dei ritorni, al bisogno della fuga come momento terapeutico, alla ricerca del mito e del sacro lontano dal mondo quotidiano, tutti frangenti di densità semantica che ritroveremo nei casi analizzati come in quelli di altri artisti/viaggiatori (si veda ad esempio il caso di Leiris trattato nel capitolo 4).
Da questo punto di vista non è accidentale il fatto che Said dedichi diverse pagine di analisi e commento a de Nerval (paragonandolo a un’altra figura paradigmatica del periodo, quella di Flaubert), molte di più di quelle rivolte ad altri testi «orientalisti» egualmente importanti. Tra le varie asserzioni che lo scritture di origini palestinese licenzia, ve ne sono alcune che risuonano familiari al nostro orecchio:
54 Per una ricostruzione un po’ più esaustiva delle esperienze odeporiche europee in Asia, con una serie di focus e di
approfondimenti che contemplano lo studio di tutti i principali linguaggi espressivi, si rimanda a P. Amalfitano, L. Innocenti (a cura di), L’Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000), Roma, Bulzoni, 2007, 2 voll.
55 Per un approfondimento di questi temi in Voyage en Orient di De Nerval si veda: L. Shreire, Seul dans l’Orient lontain. Les voyages de Nerval et Du Camp, Saint-Etienne, Université de Saint-Etienne, 2006.
Per entrambi [Nerval e Flaubert, ndr] il pellegrinaggio in Oriente costituiva anche la ricerca di qualcosa di relativamente personale. […] Nerval ricercava – o piuttosto seguiva – le tracce dei propri sogni e sentimenti personali, come in precedenza lo Yorick di Sterne. Per entrambi gli scrittori, l’Oriente era quindi un luogo di déja vu e per entrambi, con l’economia artistica tipica di tutte le maggiori immaginazioni estetiche, fu un luogo cui tornare anche dopo che il viaggio vero e proprio era stato completato. Per nessuno dei due l’Oriente si ridusse semplicemente ai suoi usi effettivi o possibili, sebbene sia sovente percepibile una sensazione di disappunto, disincanto o demistificazione nei loro scritti di ambiente orientale.
L’enorme importanza di Nerval e Flaubert per uno studio come questo […] sta nel fatto che essi crearono opere legate al genere di orientalismo discusso fin qui […] eppure mai immediatamente riducibili a esso. In primo piano è la questione della prospettiva dei loro lavori. Nerval produsse il Voyage en Orien sotto forma di una serie di appunti di viaggio,
schizzi, episodi e frammenti. […] Ciò che importava a Nerval e a Flaubert era la struttura
delle loro opere come fatti estetici e personali indipendenti e non i metodi tramite i quali, volendo, fosse possibile dominare o esporre graficamente l’Oriente, né di identificarlo senza residui con la conoscenza testuale o documentaria di esso (vale a dire con l’orientalismo ufficiale).
Da un lato, quindi, la prospettiva delle loro opere orientali si sottrae ai limiti imposti altrove dall’orientalismo ortodosso; dall’altro l’argomento dei loro scritti è più che orientale o orientalistico (sebbene anche Flaubert e Nerval abbiano a loro modo “orientalizzato l’Oriente”); essi giocano, consapevolmente, con i limiti e le sfide che l’Oriente, e ciò che di esso l’Europa conosce, hanno posto loro. […]. Nel Voyage en Orient la coscienza narratrice è una voce sempre energica, che si muove nel labirinto della vita orientale […]. Nerval si immedesima nell’Oriente, producendo, più che un racconto romanzesco, un’inesausta
intenzione – mai realizzata del tutto – di far della mente e dell’azione concreta una cosa
sola. Tale anti-narrazione, tale para-pellegrinaggio, sono un distaccarsi dalle finalità discorsive dei precedenti scritti sull’Oriente56.
Se si sostituiscono i nomi di de Nerval e di Flaubert a quelli dei registi modernisti (sarà una pratica ludica che proporremo altre volte nel prosieguo dello studio), le considerazioni svolte da Said mantengono il medesimo valore, la medesima efficacia. Attraverso di esse è possibile anticipare alcuni dei punti nodali che anche le avventure cinematografiche affrontano: l’essere estranei a un «orientalismo ortodosso» eppure immergersi in tutto e per tutto nella medesima tradizione figurativa; il disinteressarsi ai metodi con i quali «dominare o esporre graficamente l’Oriente» ma trattare le opere «graficamente» ossia come «fatti estetici» come fatti «visivi/visibili»; possedere una «coscienza narratrice» come «voce sempre energica» e prodursi egualmente in «un’esausta intenzione, mai realizzata del tutto», dunque programmaticamente fallimentare. C’è di più: le caratteristiche narrative e stilistiche del Voyage individuate da Said – prosa frammentata, difficoltà a definire il
genere di scrittura adottato, accentuazione delle modalità anti-narrative del racconto, eco autobiografica della scrittura, atteggiamento di disappunto e disincanto nei confronti dell’inatteso, gioco «consapevole» con le sfide e i limiti della rappresentazione, esibizione di un’inesausta e irrealizzabile intenzione di tradurre le aspettative culturali («la mente») in forme concrete di rappresentazione (l’«azione concreta»), i para-pellegrinaggi, ecc. – hanno tratti e lineamenti che accomunano l’universo di De Nerval a quello di molti altri «autori», tra cui appunto includeremmo anche i vari Rossellini, Pasolini, Marker, Duras e compagnia.
La scelta di intitolare questa ricerca citando il diario di De Nerval risponde, insomma, all’esigenza di ricordare che le esperienze che studiamo, seppur avvolte dalla patina del nuovo e dell’informe (nuovi viaggi con macchine da presa più leggere, nuove forme di racconto dell’alterità, «nuove onde» che si esprimono anche nei viaggi all’estero), s’inseriscono in una tradizione odeporica consolidata, nella quale le logiche dell’estetizzazione dell’esperienza del diverso (lo vedremo meglio nell’ultimo capitolo di questa prima parte metodologica ricordando, tra le altre, le teorie di Segalen) sono costantemente praticate e ricercate. E dove il termine «Oriente» assume un valore evocativo e associativo, segno simbolico e semiosico per richiamare, come sineddoche, una rete di discorsività ampia e per certi versi totalizzante. (Viaggio in) Oriente è dunque una chiave di accesso per una serie di percorsi fisici e speculativi dentro i quali la codificazione dei passi, la direzione del movimento, i posti tappa di pernottamento, gli sguardi imbricati sono stabiliti non solo dalla volontà del singolo e dalle sue possibilità espressive, ma anche da un ventaglio di abitudini di movimento e di sguardo radicate dalle frequentazioni precedenti.