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Gli anni del dopoguerra e le organizzazioni sovranazionali 69

2.2 Il modello americano 64

2.2.2 Gli anni del dopoguerra e le organizzazioni sovranazionali 69

Alla fine della seconda guerra mondiale, e durante tutti gli anni cinquanta, gli Stati Uniti affermarono la propria potenza economica, politica e militare rispetto agli altri paesi sviluppati del mondo. Il loro sistema economico era il più grande, complesso e diversificato, essi avevano ancora in dotazione materie prime ed erano fornitori di beni capitali e beni di consumo per la maggior parte dei paesi. Inoltre, la loro moneta era la più forte a livello internazionale e divennero sede di due organizzazioni internazionali molto importanti, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Tuttavia tra il 1950 e il 1973 gli Stati Uniti ebbero una fase di declino economico relativo, che si evidenzia soprattutto se si confronta la crescita del reddito pro-capite USA con quella del Giappone e dell’Europa Occidentale (Valli, 2010).

Il modello fordista si era esteso anche a questi paesi che avevano integrato la produzione con innovazioni di carattere tecnologico e di tipo gestionale. Infatti

alla fase fordista di produzione si contrapposero progressivamente dei modelli di produzione flessibile e di frammentazione su scala globale.

Alla perdita di competitività e al processo di deindustrializzazione che investì soprattutto gli stati del nord-est, gli Stati Uniti risposero con una forte spinta all’apertura del commercio internazionale e in seguito con una vera e propria globalizzazione economica e finanziaria.

Tra le ragioni che spinsero gli Stati Uniti ad intraprendere questa strada, oltre a quelli elencati sopra, ci furono anche una progressiva scarsità di materie prime che costrinse il paese a diventare importatore netto negli anni subito dopo la fine della guerra; il debito finanziario verso l’estero nel 1987 superò definitivamente il livello dei crediti. I grafici riportati sotto analizzano l’andamento di alcune variabili economiche che furono tra le cause e le conseguenze delle manovre di politica commerciale intraprese dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Il primo grafico evidenzia l’andamento decrescente della produzione interna di petrolio a partire dai primi anni ottanta. A questa corrispose un tasso crescente delle importazioni, fortemente trainato dal trend di consumi.

Grafico 1 Petrolio: importazioni, produzione e consumo in USA 1980 – 2009

0 1000 2000 3000 4000 5000 6000 7000 8000

Fonte: U.S. Energy Information Administration

U.S. Imports of Crude Oil and Petroleum Products (Millions Barrels)

U.S. Field Production of Crude Oil (Millions Barrels)

U.S. Product Supplied of Crude Oil and Petroleum Products (Millions Barrels)

Nel secondo grafico si riporta invece il trend delle importazioni ed esportazioni complessive in cui si vede che a partire dalla fine degli anni settanta la forbice tra esportazioni ed importazioni si allarga in favore di quest’ultime.

 

Grafico 2 Importazioni ed Esportazioni in mld dollari in USA

Infine si riporta il livello di indebitamento domestico esclusi il settore finanziario che come evidente dal grafico traccia una crescita esponenziale dagli anni settanta in poi.

Grafico 3 Debito interno in USA in mld di dollari27

                                                                                                               

27 Composto dal debito delle amministrazioni locali, stati e governo federale e dal settore privato

per tutti i settori che non-finanziari.  

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600 1800 2000 2200 2400 M ld do lla ri

Fonte: Department of Commerce (Bureau of Economic Analysis)

Export Import 0 5000 10000 15000 20000 25000 30000 35000 40000

Fonte: The Economic Report of the President 2011

Debt of domestic nonfinancial sectors

Secondo alcuni, il Washington Consensus fu uno degli strumenti attraverso cui gli Stati Uniti cercarono di arginare la propria situazione di svantaggio sul piano industriale in termini di competitività internazionale. Le manovre promosse sotto questo “consenso” erano infatti volte ad imporre dei tassi di cambio fissi che non permettevano la svalutazione delle monete dei paesi concorrenti, sfavorendone ancora di più le esportazioni di prodotti finiti. Il Washington Consensus fu tuttavia un paradigma di sviluppo che oltre a sopperire alle mancanze di competitività del sistema statunitense, s’ispirava ai modelli di crescita adottati dai paesi asiatici (Taiwan, Singapore, Corea del Sud e Hong Kong) che negli ultimi anni avevano registrato dei tassi di sviluppo elevatissimi. L’espressione Washington Consensus fu coniata infatti nel 1989 dall’economista John Williamson per indicare una serie di politiche economiche di carattere neoliberista che furono imposte dal FMI ai paesi suoi debitori per ricreare delle condizioni di stabilità e di crescita che ne assicurassero il rientro. In particolare furono stabiliti tre pilastri che andavano a ricreare degli aggiustamenti strutturali necessari, secondo l’FMI (e quindi Washington), per creare sviluppo; questi erano:

- il controllo dell’inflazione e la riduzione del deficit fiscale;

- l’apertura delle frontiere nazionali al commercio internazionale e la liberalizzazione dei capitali;

- la liberalizzazione dei prodotti e fattori di produzione domestici attraverso la privatizzazione e la deregolamentazione dei mercati.

Washington promosse queste manovre con l’idea che esse potessero contribuire alla crescita di paesi sottosviluppati come il Sud America, ignorando il fatto che la maggior parte dei paesi avanzati del mondo (compresi gli Stati Uniti) erano passati all’apertura delle frontiere ed alle liberalizzazioni dei mercati solo dopo una fase protezionista dell’industria interna. Un’altra accusa che venne mossa al Washington Consensus fu che questo contraddisse in maniera evidente i principi applicati dai paesi asiatici a cui si ispirava. Questi ultimi infatti, più che seguire una politica di apertura e liberalizzazioni incondizionata, cercarono di proteggere il proprio sviluppo economico ed industriale attraverso un piano strategico di integrazione delle proprie economie nazionali all’interno del contesto internazionale. I paesi asiatici adottarono infatti un progressivo ampliamento delle

importazioni, cercarono di sviluppare l’accumulazione di capitali propri e definirono una serie di politiche mirate: come le politiche per l’innovazione, politiche fiscali, quelle per lo sviluppo di capitale umano e delle infrastrutture ed infine delle politiche per la definizione di organizzazioni industriali e per promuovere la competitività.

Bingham et al. (1998) definirono questo tipo di atteggiamento politico tenuto dal governo americano nei confronti della politica economica estera “aggressive

unilateralism”, ossia unilateralismo aggressivo. Secondo gli autori infatti, gli Stati

Uniti stabilirono unilateralmente che alcune restrizioni al commercio internazionale erano ingiuste e unilateralmente pretesero che i propri partner commerciali accettassero delle condizioni commerciali e l’imposizione di liberalizzazioni, senza ottenere in cambio le stesse concessioni. Bingham (1998) associa l’atteggiamento di politica estera iniziato dagli Stati Uniti attraverso la promozione del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT 1947), e poi protratto con un’altra serie di accordi commerciali come il NAFTA (firmato con Canada e Messico nel 1992) e l’Uruguay Round (1994), con una sorta di politica industriale indiretta che permetteva al paese di difendere ed alimentare in maniera scorretta la competitività del proprio sistema; scriverà infatti:

“[f]ree trade, of course, is not industrial policy. It is aggressive unilateralism that produces industrial policy” (1998, p.70).

Si è visto quindi come un approccio alla politica interna che tendenzialmente cercava di ridurre al minimo l’intervento dello stato si sia accompagnato con un tipo di intervento molto più consistente sul piano della politica estera e di quella commerciale. A quest’ultima gli Stati Uniti associarono sempre la possibilità per lo stato di intervenire sulle variabili macro del sistema, come i tassi d’interesse, per influire sui flussi produttivi e sulla capacità del sistema di essere competitivo. Gli anni del secondo dopoguerra non segnarono solo l’ascesa degli Stati Uniti a livello internazionale sul piano economico e politico, ma videro l’affermarsi del modello americano come modello di vita, consumo e socializzazione.

L’influenza mediatica e la capacità delle aziende americane di investire all’estero fecero sì che alcuni prodotti tipici dell’economia statunitense divenissero

d’interesse ed uso universale. A questi prodotti si associava uno stile di vita che ha invaso in maniera più o meno profonda gran parte del mondo ed ha promosso il consumismo e la dimensione individuale dell’uomo. Gli Stati Uniti dunque sono diventati nel corso del ventesimo secolo una potenza universale che ha globalizzato la propria immagine, il sistema finanziario e quello produttivo. Chiaramente questo tipo di atteggiamento ha creato dei vantaggi e degli svantaggi per il sistema statunitense; tra i primi si trovano la grande capacità di reperire e allocare risorse che le aziende americane hanno avuto e di cui godono tuttora grazie alla globalizzazione; tra gli effetti negativi invece ci sono sempre la perdita di competitività dovuta all’integrazione delle culture manageriali, delle tecniche di produzione e dalla progressiva diversificazione qualitativa dei prodotti. Il tutto, accompagnato da costi delle risorse e della mano d’opera ultra competitivi ha fatto sì che stati come la Cina e l’India negli ultimi anni superassero il modello statunitense, imboccando dei percorsi di crescita sorprendenti e non più “schiavi” dell’ideale neoliberista americano.

La competitività delle merci e la deindustrializzazione di alcune delle zone del paese furono due delle ragioni che riaccesero il dibattito di politica industriale durante gli anni ottanta negli Stati Uniti. Se ne parla brevemente nel prossimo paragrafo per spiegare come l’ideologia di sviluppo neoliberista americana, nonostante radicalmente inglobata dal governo, si sia spesso piegata e abbia velatamente sostenuto degli interventi strategici dello stato nelle dinamiche di crescita.