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La frontiera ed altri fattori che hanno influenzato la crescita degli Stati Uniti 65

2.2 Il modello americano 64

2.2.1 La frontiera ed altri fattori che hanno influenzato la crescita degli Stati Uniti 65

Tra il 1870 e il 1913 (ossia nel periodo successivo alla dichiarazione d’indipendenza e alla guerra di secessione) tre fattori hanno influenzato la prodigiosa ascesa economica degli Stati Uniti rispetto a Cina, India ed Europa: l’esistenza della frontiera, la rapida espansione della popolazione e del progresso tecnico (e pertanto della produttività e della produzione) ed infine il modello fordista di produzione (Valli 2010, p.17). Questi tre elementi esercitarono la loro influenza in maniera congiunta andando a stimolare delle leve di incentivo per le imprese americane che ne determinarono uno sviluppo sorprendente durante gli anni precedenti alla prima guerra mondiale.

La disponibilità di terra ad ovest era una risorsa incredibile per le popolazioni americane che venne sfruttata in termini intensivi ed estensivi grazie alla capacità imprenditoriale degli individui e ad un clima sociale e politico particolare, in cui il diritto delle persone di essere cittadini del suolo americano rappresentava la

possibilità di auto-realizzazione e di costruire imprese individuali. In questo spirito, i lavoratori delle giovani aziende americane avevano un potere contrattuale particolare rispetto ai loro colleghi europei o asiatici; essi potevano infatti contrattare sulle loro condizioni di lavoro avendo come seconda opzione quella di lasciare la fabbrica per cercare fortuna ad ovest. Questo tipo di “ricatto”, che metteva gli imprenditori in una posizione di incertezza rispetto alla possibilità di ottenere dei livelli di produzione e di profitto costanti, incentivò l’investimento dei privati nella ricerca, per poter ottenere progresso tecnico e quindi un maggior tasso di sostituzione tra capitale e lavoro. A questo tipo di investimenti intensivi che influirono sulla produttività del sistema industriale americano si affiancarono degli investimenti estensivi che erano volti ad aumentare la capacità produttiva e il livello di occupazione nel paese.

In questa fase di espansione si crearono grandi agglomerati industriali a cui si affiancarono grandi organizzazioni sindacali e dei movimenti di sinistra che si occupavano di salvaguardare la tutela dei lavoratori. Esattamente in questo contesto Henry Ford (1863-1947) diede vita ad un modello di produzione industriale che oltre a focalizzarsi sull’efficienza produttiva e il guadagno dell’impresa, cercava di dare spazio alla possibilità dei lavoratori di emanciparsi dalla loro posizione subordinata, producendo un reddito che gli permettesse di allargare la sfera dei propri consumi a beni non di prima necessità, come ad esempio l’automobile.

Il fordismo si basa su quattro elementi fondamentali: le economie di scala, di rete e di scopo, più l’aumento dei salari. Questo modello contribuì indubbiamente alla formazione del “sogno americano” che si andava sviluppando in quell’epoca, soprattutto all’interno di una certa categoria di cittadini (ossia uomini bianchi e liberi) grazie alla presenza di vari elementi: come la frontiera, la mancanza di un retaggio feudale, la democrazia, e la possibilità di ottenere mobilità sociale24.

Il sistema continuò a crescere in maniera continuativa fino a quasi tutti gli anni venti, quando lo scoppio di una bolla finanziaria che aveva creato una forte euforia finanziaria a Wall Street durante gli anni precedenti, fece diminuire di colpo il livello degli investimenti e causò delle gravi perdite alle imprese che                                                                                                                

furono costrette a licenziare o in alcuni casi a chiudere. La crisi di quegli anni si trasformò da crisi finanziaria a crisi reale soprattutto a causa di una forte contrazione del credito che le banche erano disposte a concedere. Inoltre il clima di forte sfiducia che lo scoppio di Wall Street aveva provocato all’interno del sistema economico fece sì che molte famiglie e consumatori riducessero i propri consumi in previsione di un periodo di ristrettezze e scarsa crescita economica.

Alla crisi di Wall Street seguì un periodo di riforme sul piano finanziario ed economico che cercava di stabilire tra i cittadini e il governo americano un nuovo patto sociale, volto alla ricostruzione dell’economia ed alla diffusione di maggiore equità sociale, che negli anni delle grandi speculazioni di borsa si era andata perdendo. Gli anni del boom precedente alla prima guerra mondiale e durante il periodo degli anni venti erano stati infatti caratterizzati da un intervento marginale dello stato nelle dinamiche di sviluppo attraversate dal paese. Come si è spiegato precedentemente: la disponibilità di risorse, lo spirito dell’epoca e la trainante crescita della popolazione, associate ad un modello di produzione che oltre a preoccuparsi di ottenere dei volumi di produzione efficienti cercava anche di costruire una base per la crescita della domanda, fecero sì che la crescita fosse stata maggiormente trainata dal libero scambio tra domanda e offerta, mentre la politica economica si era occupata principalmente di tenere sotto controllo variabili macroeconomiche come i tassi d’interesse o la disponibilità di moneta. Questo tipo di sviluppo, seppur come detto sorprendente rispetto ai concorrenti europei ed asiatici, aveva favorito la diffusione di profonde spaccature sociali a livello dei redditi e di carattere geografico, in conseguenza delle quali le regioni del nord-est avevano tratto maggiore vantaggio dal meccanismo di libero mercato, lasciando sensibilmente arretrati gli stati del sud-ovest del paese.

Il presidente democratico F.D. Roosvelt (1932-1938)25 che salì al governo del

paese negli anni subito successivi alla crisi del 1929 impose una linea di recupero per il sistema americano che integrava manovre di stabilizzazione macroeconomica con una serie di interventi di carattere neo-keynesiano, ossia                                                                                                                

25  Per un approfondimento completo sulla politica economica di Roosvelt si rimanda a Di

orientati ad aumentare la spesa pubblica per incentivare il recupero e l’investimento dei privati. Le riforme che furono emanate durante i primi 100 giorni della sua presidenza rispecchiano l’intento di ridare slancio al sistema attraverso l’istituzione di maggiore sicurezza sociale, la creazione di stabilità e controlli per le istituzioni finanziarie (Banking Act and Federal Security Act 1933) e l’avviamento di un movimento di integrazione e equità sociale cosiddetto della “grande compressione”. Secondo i principi keynesiani che vennero assorbiti nelle scelte di politica di Roosvelt, c’era bisogno di restaurare un clima di fiducia attraverso l’investimento diretto di risorse pubbliche e l’abbassamento dei tassi d’interesse a lungo termine per creare una maggiore attrazione per il mercato del credito.

Il New Deal (ossia le manovre politiche applicate tra il 1932 e il 1938 da Roosvelt) è stato interpretato da parte della letteratura come una rivoluzione del ruolo dello stato e dei sindacati accanto a quello delle associazioni imprenditoriali e delle grandi imprese26; ossia, si posero le basi per la costituzione di un corporativismo democratico in cui il dialogo e la contrattazione tra le parti sociali era libera e l’intervento dello stato limitato al ruolo di arbitro del conflitto sociale. Tra gli atti emanati all’interno del pacchetto di manovre del New Deal vi fu il National Industrial Recovery Act (NIRA, 1933). Quest’atto, in contraddizione con lo spirito delle leggi antitrust che avevano bloccato lo sviluppo dei colossi industriali formatisi all’inizio del secolo, permetteva l’esistenza di monopoli e cartelli coordinati dalla guida dello stato federale, con lo scopo di istituire “codici di giusta competizione” fatti di accordi sul livello dei prezzi e restrizioni alla produzione (Dobbin 1993, p.13). Lo spirito dell’intervento promosso da Roosvelt reinterpretava i principi del libero mercato nell’ottica della collettività anziché in quella del singolo individuo. Ossia, come riporta Dobbin (1993, p.11), Roosvelt insistette sull’idea che la libertà d’iniziativa economica e la competizione che avevano assunto un ruolo predominante per lo sviluppo economico americano dell’epoca precedente dovevano essere lasciati momentaneamente da parte per dare spazio alla cooperazione e allo sviluppo collettivo. Oltre a promuovere la cooperazione industriale, l’atto dava largo spazio alla formazione di unions da                                                                                                                

parte dei lavoratori in modo da salvaguardare la capacità contrattuale di questi, sia sui livelli salariali che sugli orari di lavoro.

Fu proprio questo elemento secondo alcuni autori che fece sì che gli industriali americani, seppur inizialmente favorevoli alle direttive di cooperazione promosse da Roosvelt, alla richiesta di dare più spazio alle contrattazioni sindacali si tirarono indietro facendo sì che il primo titolo dell’atto venisse giudicato incostituzionale nel 1935 e si tornasse ai principi di libera competizione. Il breve cambio di paradigma applicato alla relazione tra stato e mercato che avvenne durante gli anni del New Deal, non intaccò mai profondamente la cultura e lo spirito imprenditoriale del paese che continuarono ad ispirarsi all’ideale di libero mercato, alla competizione e al laissez-faire.

Il periodo che venne subito dopo la seconda guerra mondiale confermò che il modello di sviluppo neoliberista americano era effettivamente quello vincente, poiché permise la creazione di una super-potenza economica, politica e militare a livello mondiale.