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1.2 Le origini della politica industriale 22

1.2.3 I mercati e la loro regolamentazione 42

1.2.3.4 La regole per la concorrenza 50

Le regole per la concorrenza sono una delle parti fondamentali degli interventi dello stato nel sistema economico ed industriale di un paese.

Se c’è stato nel corso dei secoli, un dibattito a proposito della capacità dello stato di intervenire con degli indirizzi o sovvenzionamenti specifici nelle dinamiche di mercato, si può dire che altrettanti dubbi non sono stati sollevati riguardo alla capacità delle istituzioni pubbliche e sovranazionali di poter intervenire nei mercati attraverso una regolamentazione delle posizioni dominanti e la preservazione della concorrenza. Si intuisce che uno dei motivi di questa differenza di trattamento rispetto agli interventi dello stato sta nella concezione razionalistica ed efficientista insita nel pensiero economico a partire da modelli di equilibrio che sono stati brevemente rivisti nei paragrafi precedenti. Infatti, se la libera concorrenza è il meccanismo attraverso cui si realizza in maniera più efficiente un equilibrio per gli scambi, allora l’intervento di un’autorità sovrana per garantire che questo meccanismo possa effettivamente essere realizzato è legittimo.

Le politiche per la regolamentazione della concorrenza sono leggermente dissimili nelle tradizioni europee ed americana: infatti, nel contesto degli US esse sono

generalmente identificate con il nome politiche antitrust, mentre in Europa tuttora esistono politiche specifiche per la tutela della concorrenza (Di Tommaso, 2006 p.25). Le politiche antitrust, che sono quelle su cui ci si soffermerà in questo paragrafo, hanno lo scopo generale di prevenire la formazione di cartelli o altri sforzi di coordinamento tra le imprese per la fissazione dei prezzi, regolano le fusioni che comportano un significativo abbassamento del livello di concorrenza, e impediscono azioni unilaterali di un venditore che potrebbero significare un forte incremento del potere di mercato. (White, 2007 p.3). Negli Stati Uniti, queste politiche sono state definite originariamente all’interno dello Sherman Act del 1890 e del Clayton Act del 1914, rispettivamente approvati sotto le amministrazioni Harrison e Wilson.

Il principio originario seguito per l’imposizione delle leggi antitrust in Nord America fu quello del potere di mercato; ossia gli atti vennero inizialmente applicati per la risoluzione di alcuni colossi dell’industria americana come Standard Oil o la Northern Securities Company. Successivamente tuttavia, la prospettiva di applicazione di queste leggi si allargò a considerare la struttura di mercato e più nello specifico a valutarne le barriere all’ingresso e l’effettiva esistenza di economie di scala che possono giustificare determinate dimensioni di impresa. In sostanza, le policy antitrust acquisirono lo scopo di influenzare i vari elementi di una struttura di mercato per arrivare a limitarne l’esercizio di potere. Tra gli strumenti che vengono generalmente applicati dalla disciplina per individuare posizioni dominanti ed eventualmente intervenire, ci sono tuttora degli indici di concentrazione delle quote di mercato (come ad esempio l’indice Herfindahl) che prima di essere calcolati hanno bisogno che sia definito il mercato rilevante, secondo confini geografici e di prodotto.

Durante gli anni cinquanta del ventesimo secolo, alle quote di mercato si è aggiunto, nelle valutazioni fatte dalla disciplina antitrust, un aspetto fondamentale che è quello della performance di impresa. Alcune applicazioni della disciplina infatti, possono creare un conflitto tra il mantenimento di una struttura di mercato competitiva (fatta di numerosi elementi sia dal lato della domanda che dell’offerta), e la capacità di mantenere un settore competitivo sul piano dell’innovazione e del progresso tecnico. Infatti, solitamente le piccole e medie

imprese hanno delle difficoltà finanziarie nel sostenere progetti di ricerca e sviluppo in maniera autonoma, e richiedono l’intervento dello stato sia sul piano di finanziamenti o sussidi diretti, che su quello della regolamentazione. Per quanto riguarda questo ultimo aspetto, allo stato è richiesta in particolare la possibilità di poter realizzare delle partnership strategiche tra le imprese che permettano la realizzazione di processi di innovazione e miglioramento. A tal proposito, le regole per la concorrenza si ritrovano a dover bilanciare gli aspetti allocativi del mercato con le potenzialità di coordinamento del capitale produttivo. È importante far notare che in alcuni casi, la disciplina ha cercato di favorire la seconda sfera, soprattutto quando a fianco della politica di regolamentazione interna, ci si è trovati a dover strutturare la competitività di un settore o di un sistema produttivo locale, contro le pressioni del mercato esterno (in un certo senso ci si ricollega all’argomento della impresa nascente di origine hamiltoniana). Non a caso, nel periodo in cui il sistema industriale americano si è trovato in serie difficoltà rispetto alla competizione asiatica (fine anni settanata – anni ottanta), che corrispose più o meno con il periodo dell’amministrazione Reagan, la politica di controllo delle fusioni adoperò dei criteri di valutazione che, da una parte tenevano ancora conto della concentrazione delle quote di mercato, ma dall’altra dava largo spazio alle argomentazioni in favore della competitività. Comanor e White (1992), due studiosi esperti delle politiche antitrust, riportano inoltre a tal proposito che una delle ragioni principali per cui avvenne questo cambio di prospettiva nell’applicazione delle leggi per la concorrenza, fu anche che in quegli anni il livello di competizione nei mercati era considerato generalmente più robusto, e quindi le azioni di rimedio erano viste come meno necessarie (p.113). Tornando ai fondamenti teorici che giustificano l’esistenza e l’applicazione delle norme antitrust, ci si accorge di come essi abbiano uno strettissimo legame con la teoria economica neoclassica e come quindi, sia le tecniche di applicazione che di valutazione dei casi, passino da analisi di carattere economico. Questo approccio tuttavia, può essere nuovamente limitante, in quanto, come si è detto inizialmente, il principio di equilibrio paretiano che promuove il libero mercato non necessariamente considera un’allocazione delle risorse che sia equa sul piano economico e sociale. Il costo delle azioni antitrust ancora una volta sarà assorbito

non solo nelle dinamiche di mercato, ma anche dai singoli cittadini e dalle istituzioni. Adams e Brock (1986), dicono che infondo la politica antitrust è un tentativo di usare il mercato come un surrogato del controllo diretto; ossia, gli autori sostengono che la regolamentazione per la concorrenza utilizza il principio della smithiana mano invisibile come un rimedio alla pesante mano del governo, ma che tuttavia in questo modo lo stato riesce a mantenere un controllo sulle imprese private (p.110). Concludendo, sia l’iter applicativo che le motivazioni che giustificano un intervento di politica anti-trust dovrebbero garantire la possibilità che ci sia un bilanciamento tra i poteri economico ed istituzionale e che esista un meccanismo di controllo per cui sarà impossibile utilizzare la disciplina anti-trust in favore di singoli interessi. Tuttavia, la più recente storia ci racconta che alcune aziende e settori, negli anni, anziché diventare sempre più competitivi, hanno progressivamente accumulato un potere (che non sempre è solo quello di mercato, quanto piuttosto quello di produrre occupazione e stabilità all’interno del sistema) tale per cui, durante la crisi finanziaria del 2008, sono stati giudicati dal governo americano too big to fail.

Questi eventi testimoniano l’incapacità del sistema anti-trust di produrre sempre le giuste condizioni per garantire la massima concorrenza e che, attraverso la diversificazione dei prodotti, è possibile per le grandi aziende continuare a produrre e ad imporre le proprie strategie di mercato, rimanendo ai margini della regolamentazione.

Concludendo, in questa prima parte del capitolo si è rivista la letteratura e il pensiero economico neoclassico che hanno permesso la comprensione della struttura di mercato e degli interventi del governo per correggerne i fallimenti. Prima di passare ad una digressione sulle reti e al prossimo capitolo, occorre comunque concludere il paradigma di quelli che sono tradizionalmente individuati come fallimenti di mercato, trattando l’argomento dei beni pubblici e di quelli meritori.

I beni pubblici sono caratterizzati da due caratteristiche essenziali che sono: l’assenza di rivalità nel consumo e l’assenza di escludibilità19. La prima delle due caratteristiche significa che più soggetti possono simultaneamente beneficiare di un bene, senza che vi siano interferenze nel beneficio che viene tratto da ognuno. Un esempio di questa caratteristica è il consumo della luce solare o la visione di un paesaggio: il godimento del bene di un unico consumatore, non impedisce ad altri di trarre uguale o maggiore beneficio. La non escludibilità invece implica che una volta che un bene pubblico viene reso disponibile ad alcuni consumatori, non è possibile o non è conveniente (a livello tecnico o economico) escludere altri consumatori dal consumo dello stesso. Un esempio è quello della luce di un faro, la cui godibilità non è razionabile all’interno di tutta l’area in cui esso si proietta. Cozzi e Zamagni (1999) affermano che i beni pubblici rappresentano un caso limite di esternalità, infatti il loro consumo compare direttamente nella funzione di produzione degli altri consumatori e quindi essi fanno parte della funzione di produzione pubblica.

Il finanziamento è uno dei problemi cruciali di questa tipologia di beni, poiché i benefici marginali di consumo e i costi marginali di produzione difficilmente riescono ad incontrarsi in un prezzo unico di equilibrio, valido per tutti i consumatori. Una delle proprietà delle curve di domanda di un bene pubblico è infatti che queste non si sommano orizzontalmente, influendo sulla quantità di equilibrio, ma si sommano in maniera verticale agendo direttamente sul livello dei prezzi. In equilibrio ogni singolo consumatore dovrebbe pagare il prezzo che è disposto a pagare, ma ovviamente questo non accade a causa di fenomeni di free

riding e moral hazard. Infatti, per la proprietà di non escludibilità che è stata

associata al bene pubblico, è possibile che alcuni consumatori si approfittino dei consumi collettivi, non partecipando adeguatamente al loro finanziamento. E’ evidente dunque come in questo caso sia necessario l’intervento di una istituzione esterna che attraverso un processo top-down può decidere di finanziare direttamente e rendere disponibili i beni pubblici.

                                                                                                               

19 In questa parte si fa principalmente riferimento al testo di economia politica di Cozzi Zamagni (1999).

Di carattere differente sono le peculiarità associate ai beni meritori, anch’essi parte dell’offerta pubblica. L’attributo di meritorietà, come definito da Cozzi e Zamagni (1999) è che i beni a cui esso si riferisce presentano evidenti connotazioni etiche e i singoli cittadini non sono in grado di cogliere direttamente o autonomamente il contributo di pubblica utilità che si ricava dal loro consumo. Per beni meritori si possono intendere quindi tutti quegli elementi che contribuiscono a garantire lo sviluppo delle potenzialità di un sistema economico. Tra questi elementi possono essere considerati: la sicurezza pubblica, il capitale umano, e tutte quelle infrastrutture che nessun privato ha singolarmente convenienza a realizzare, ma di cui la società ha assoluta necessità20.