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Sant’Antonio da Padova

Olio su tela, 91,5 x 70 cm | Inv. 513

Provenienza: Legato Vettoruzzo, 1890 Restauri: G. Mingardi, 2003

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Moretti (1995, pp. 376-378) che il pittore di Salisburgo, formatosi a Monaco, fu a Venezia nel 1637 «in gioventù si applicò anche alla figura se è lui, come credo, il “signor Giovanni” che incontriamo tante volte nell’inventario». La collocazione cronologica del dipinto asolano riguarda, pertanto, lo scorcio degli anni Trenta, momento del gran- de successo riscosso a Venezia dal «prete Cappuccino» che vi si rifugiò, sotto mentite spoglie, nel 1633, a seguito di una serie di vicende dal sapore romanzesco scaturite dal contenzioso con il suo Ordine. Famoso e riverito, nel 1635 fu nominato addirittura Monsignore, Strozzi visse e lavorò con continuità fra le lagune per oltre un decennio fino al 1644. Secondo Fiocco (1929, p. 20) «La prima redenzione, venutagli in patria dal Rubens, dai caravaggeschi, dai fiam- minghi, dai lombardi, ricchi di pregi, ma gravi anche di scorie, fu coronata dalla piena comunione con l’arte vene- ziana. Solo là la sua vena generosa ma non limpida, poteva raggiungere, raffinandosi, quell’altezza coloristica che è la sua vera gloria. Epuramento in cui ci seduce poter mettere, come maestro vivo, quello che gli trasmise la lampada ac- cesa, il Liss». La versione asolana del Sant’Antonio da Padova pienamente autografa è rappresentativa della migliore qua- lità dei dipinti destinati alla devozione privata del periodo veneziano.

Bibliografia: Coletti 1921, ds., p. 73; Bertarelli 1925, p. 314; Coletti 19271, p. 5; Vardanega 1928, p. 11; Bernardi

19491, p. 134; Idem 1951, ds.; Idem 1952, ds., p. 26; Veneto

1954, p. 438; Mortari 1955, p. 327; Matteucci 1955, p. 144 nota 1; Eadem 1966, p. 296; Mortari 1966, p. 90, fig. 420;

Veneto 1969, p. 523; Comacchio 1979, pp. 96, 97; Semen-

zato, in S. Antonio 1981, p. 236 cat. 165; Mortari 1995, p. 202 cat. 537; Perissa Torrini, in Bernardo Strozzi 1995, pp. 254-255 cat. 78.

sa da Bertarelli (1925, p. 314) e Vardanega (1928, p. 11). Successivamente fu resa nota da Mortari (1955, p. 327), la quale vi riconosceva una replica (da intendersi autografa) del dipinto custodito presso la chiesa veneziana di San Ni- colò dei Tolentini. Dal prototipo veneziano, peraltro, l’ar- tista ricavò almeno altre due composizioni, una conservata presso la Pinacoteca di Cremona, l’altra in collezione pri- vata romana (Mortari 1966, pp. 101, 167, figg. 416, 426). Dello stesso avviso è Matteucci (1955, p. 144), secondo la quale l’originale dei Tolentini risalirebbe all’inizio del sog- giorno veneziano, quando «allentato, placato il ritmo delle figure, il colore si stende su vaste zone in una nuova am- piezza veramente veneta», tuttavia il santo anche se «vene- zianamente dilatato, ha una estasi recitata con la maniera del secondo decennio», che denuncia la sussistenza di ricor- di genovesi. L’esecuzione di quest’opera segue ovviamente quella dei Tolentini, la quale è considerata «posteriore al ’35 per la materia morbida, leggera» (Mortari 1966, p. 181; 1995, p. 203 cat. 539). Tra il dipinto asolano e quello ve- neziano si riscontrano però alcune differenze. Nel primo la torsione del capo è meno accentuata e lo sbilanciamento della figura in avanti più controllato, elementi invece che in quello veneziano conducono a una maggiore dinamicità. Più calzante, in questo senso, appare il confronto con la versione di Cremona, riguardante altresì la resa fisionomi- ca (Matteucci 1966, p. 296).

Fiocco (1921, p. 16) cita una versione in collezione Angelo Cecconi a Firenze, un’altra è nelle raccolte di San Lazzaro degli Armeni in Isola (Perissa Torrini, in Bernardo Strozzi 1995, p. 254 cat. 78). Quanto alle repliche e alle copie si deve ricordare che nell’Inventario di pitture e mobili ritrova-

ti in casa […] alla morte del pittore avvenuta il 2 agosto

1644 figura tra gli altri quadri «Uno di sant’Antonio da Padova del detto Johann Eisenmann, copia». Osserva Lino

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Il dipinto è stato foderato e restaurato una decina d’anni fa. Risulta abraso in più punti, soprattutto nelle tonalità più scure dell’anatomia e nel perizoma bianco. Si scorgono inoltre numerose ridipinture, di cui una, quella eseguita nell’incavo del braccio destro, irrigidisce in maniera ecces- siva l’articolazione. La cornice settecentesca di recupero è stata ebanizzata.

L’opera entra nelle collezioni museali con il Legato Bertol- di (1910), dove reca la significativa attribuzione a Jusepe de Ribera, conosciuto anche con il soprannome di Spagno- letto (Xàtiva 1591 - Napoli 1652), come conferma Bernar- di (19491, p. 134). In origine, forse, si trovava nel convento

di San Girolamo dei Francescani Riformati ad Asolo, de- molito nel XIX secolo (Battaglia 1998, scheda OA). È raffigurato san Girolamo con le braccia conserte al pet- to, adorante il crocifisso all’interno di un antro roccioso. Accanto si scorgono dei fogli srotolati e un teschio, men- tre alle sue spalle, tenuta nascosta nell’ombra, compare la testa del leone. Sullo sfondo una cinerea apertura paesisti- ca amplifica la tensione drammatica che permea la com- posizione, segnata, in primo piano, dal violento taglio di luce. La figura del santo in adorazione è investito dal fiotto luminoso al pari dei rotuli e del teschio, notevoli esempi di virtuosismo pittorico.

L’opera risente ancora di quel robusto impianto natu- ralistico riberiano, evidente nella resa delle epidermidi raggrinzite e nel vigoroso squarcio di luce, che interessa la prima produzione di Luca Giordano. Confronti si pos- sono istituire con la Madonna delle Grazie di San Pietro di Castello a Venezia, realizzata secondo parte della criti- ca, attorno il 1652, dove il vecchio barbuto che compa- re fra le anime del Purgatorio tradisce una costruzione formale non dissimile. In opere come queste, realizzate «alla maniera di Ribera», la firma risulta preziosa, poiché il Giordano «dopo aver sostato a quella scuola fin dai pri- mi anni napoletani, vi si era immedesimato talmente da rendere, per quanto consentito, oltre il soggetto anche la pasta riberiana» (Griseri 1961, p. 426). L’artista però non limitò tale produzione esclusivamente entro la stagione giovanile, ma continuò a riproporla anche nel proseguo del suo cammino. «Il rapporto con lo Spagnoletto non era una partita chiusa, ma una esigenza profonda e a lui con- geniale in ogni tempo: di qui la difficoltà di ogni preci- sazione cronologica per i Giordano alla Ribera» (Griseri 1961, p. 427).

Menzionata inizialmente da D’Elia nel 1964 (p. 163), all’interno di un gruppo di dipinti spettanti al periodo giovanile del pittore, l’opera del Museo di Asolo venne

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