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Vecchia (Minerva) con fanciullo

Olio su tela, 66,5 x 49,7 cm | Inv. 476

Restauri: Soprintendenza, 1971

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La vernice ossidata non permette di valutare tutti i proba- bili ritocchi eseguiti durante i vecchi restauri che, peral- tro, nel dipinto inv. 478 appaiono evidenti nella porzione di cielo sopra la falce, sotto il gomito e nella parte bassa della composizione, interessata da cadute di colore.

L’opera raffigura un vecchio barbuto con falce e clessidra evidente allegoria del Tempo, che fa coppia con l’allegoria della Verità nuda che mostra lo specchio riflettente. L’allegoria dei dipinti è svelata con precisione attingendo al più diffuso repertorio antico di Cesare Ripa (1593, pp. 270-271, 284-286; 1603, pp. 482-483, 499-502).

La rappresentazione del Tempo ha tutti i consueti elementi derivanti dal Crono dei Greci e dal Saturno dei Romani. La clessidra allude allo scorrere irreversibile del tempo; la falce attributo di Saturno, divinità che presiedeva alla raccolta delle messi, indica l’inesorabilità del tempo che passa. In questo caso il Tempo ha due ali aperte che indicano il tempo ancora da compiersi; altre volte presenta le ali chiuse che esprimono il tempo passato. Il soggetto dei due dipinti ri- entra fra quelli espressi anche in poesia e in proverbi che ri- guardano il Tempo Rivelatore, «quali la Verità rivelata o sal- vata dal Tempo, la Virtù vendicata dal Tempo, l’Innocenza giustificata dal Tempo, e così via» (Panofsky 1975, p. 114). La figura allegorica della Verità nell’iconografia medioeva-

le appare insieme alle altre virtù. Nel Rinascimento assu- me un ruolo nuovo soprattutto nell’arte profana e spesso è accompagnata dal motto «Veritas filia temporis» che indica come il concetto di verità nascosta sia strettamente colle- gato a quello del tempo che prima o poi la rivela, per questo è nuda Veritas, è destinata con il tempo a vincere (Saxl 1936, pp. 197-222; Panofsky 1975, pp. 114-119). A volte è seduta tra un leone e un’aquila a destra (simboli di forza) e un lio- corno e un angelo a sinistra (simboli di innocenza). Ripa la descrive come «donna, risplendente, e di nobile aspetto, vestita di color bianco, pomposamente, con la chio- ma d’oro, nella destra mano tenendo uno specchio ornato di gioie, nell’altra una Bilancia d’oro»; inoltre spiega «Et lo Specchio insegna, che la Verità all’hora è in sua perfettio- ne, quando, come si è detto, le cose sensibili si conformano con quelle, che si vedono dall’intelletto, come lo Specchio è buono quando rende la vera forma della cosa, che vi risplen- de, e è la Bilancia indicio di questa egualità» (Ripa 1593, pp. 284, 285; Idem 1603, p. 501; de Tervarent 1958, col. 273). Le due tele, di cui non è identificata la provenienza, sono menzionate per la prima volta come opera di Antonio Zan- chi nell’inventario dattiloscritto del 1951 circa (Bernardi 1951, ds., nn. 16-17) e nel 1954 (Veneto 1954, p. 438), ma non si deduce a chi risalga l’attribuzione. Furono successi-

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Il Tempo

Olio su tela, 97,5 x 81,5 cm | Inv. 478

La Verità

Olio su tela, 97,5 x 81,5 cm | Inv. 479

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dipinti perduti con i Miracoli di san Guglielmo della chiesa di San Giacomo a Murano (Boschini 1674, Sestier della Croce, p. 36; Zanetti 1733, p. 456); la pala e i due quadri del soffitto della Scuola degli Stampatori della Basilica dei Santi Gio- vanni e Paolo (Boschini 1674, Sestier di Castello, p. 65; Zanetti 1733, p. 249); il gonfalone della Scuola dei Macellai presso la chiesa di San Matteo apostolo a Rialto (Boschini 1674,

Sestier di S. Polo, p. 33).

A fine carriera si sarebbe, poi, collocato il dipinto inviato nell’anno stesso della morte a Giovan Battista Tassis in Ber- gamo, con il quale il legame ebbe forse a stabilirsi in occasione della partecipazione di Negri al concorso indetto nel 1677 dal Consorzio della Misericordia di Bergamo fra Negri, Cervelli e il torinese Perugino per l’esecuzione del telero raffigurante

Il Sacrificio di Noé uscito dall’arca. Dal quale concorso l’anno

seguente sortì vincitore Federico Cervelli per undici voti fa- vorevoli contro sei di Negri e due di Perugino (Noris 1987, p. 143; Olivari 1987, p. 234 cat. 9). Sul dipinto di Cervelli si veda Coppa (in Il Seicento a Bergamo 1987, p. 168 cat. 41). Rimane da ricordare che Giovanni Cupilli, scrivendo da Venezia al Tassis in data 8 aprile 1679, attesta indiretta- mente la fine imminente dell’artista, ma anche l’attività fino agli estremi e ancora il desiderio di ben figurare an- che lontano dalla Capitale lagunare nonostante l’inciden- te bergamasco, in coerenza con la fama acquisita durante l’intera carriera (Bottari - Ticozzi 1822, IV, pp. 63-64, XLI: Giovanni Cupilli al sig. D. Gio. Battista Tassis. Venezia, 8 aprile 1679). Risulta che Cupilli conclude l’affare per conto del Tassis: «Ho scaramucciato col far che il sig. Negri si contenti di solo quattro ducati, oltre le otto doppie alla pretensione che aveva d’altre cinque doppie». L’agente di Tassis mercanteggia vantandosi: «Le confesso però il vero, che ho fatto un’opera di gran pietà, poichè il pover uomo è a letto travagliato al maggior segno da una flussione ca- vamente elencate tra le opere autografe da Pilo (in Donzelli

- Pilo 1967, p. 432). In contemporanea Riccoboni dedicò una monografia all’artista e le due opere, datate al prin- cipio del Settecento, furono incluse tra quelle di dubbia o errata attribuzione, precisando: «l’esame della fotografia del Tempo (Fiorentini, Venezia, n. 6535) m’induce a esclu- dere che almeno questo dipinto possa riferirsi allo Zanchi» (Riccoboni 1966, p. 118). Tale affermazione, forse, fu te- nuta in conto da Pallucchini nel 1981 (I, p. 256), quando nel suo profilo dedicato all’artista menzionò tra le opere della tarda maturità solo la Verità, datandola verso l’ottavo decennio, in virtù di «quel nudo che sboccia dalle vesti» e la cui esecuzione evidenzia come l’artista si sia «liberato da ogni idealizzazione con un impegno naturalistico più di- retto». Nell’ultima monografia dedicata al pittore atestino Zampetti (1987, pp. 596 cat. 217, 704 figg. 2, 3) inserisce entrambe le opere tra quelle attribuite.

La recente attribuzione a Pietro Negri spetta a chi scrive (Fossaluzza 2011, p. 130, figg. 99-100) nel contesto della verifica complessiva del profilo del pittore veneziano con nuove attribuzioni di opere, a partire dalla fase prossima ai modi del maestro che fu Francesco Ruschi e da quella dei primi anni Sessanta in cui egli si misura proprio con An- tonio Zanchi (Fossaluzza 20101, pp. 71-90). Si riprendono

qui di seguito i risultati della ricerca per sommi capi, con riferimento al contesto in cui si situano le opere asolane pensate in pendant.

In particolare, l’interesse che riveste il loro riconoscimen- to a Negri consiste nell’appartenenza alla fase più avanza- ta della sua attività ricostruita in assenza delle importanti opere documentate in quanto tutte perdute. In particolare comprendono il telero dedicato a santa Maria Maddalena de Pazzi per la chiesa dei Carmini del 1674 (Mondini 1675, p. 69; Zanetti 1733, p. 350) che offre l’ante quem per i quattro

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nio Carneo, ma in altra occasione restituito a Negri da chi scrive(Rizzi 1991, pp. 196-197 fig. 2; Goi, in Antonio Carneo 1995, pp. 116-117 cat. 18; Fossaluzza 20041, p. 51 nota 26). È

in questa fase, o subito prima, che si colloca altresì il Cristo e

la samaritana delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, già in

Palazzo Corner della Ca’ Grande (Moschini Marconi 1970, p. 62 cat. 133). Particolari affinità di esito stilistico con i dipinti asolani mostra, inoltre, l’Ercole e Onfale di ubicazione ignota edito come Francesco Ruschi da Pallucchini (1981, I, p. 164; II, p. 648 fig. 485; Old Master Paintings 2001, p. 74 Lot 52). Come già rilevato a suo tempo (Fossaluzza 2011, pp. 130- 133) accomuna questo gruppo di opere «un generale al- leggerimento e distensione formale, ovvero [la] ricerca di un’eleganza un poco di maniera, che, se si rapporta alla si- tuazione della pittura veneziana allo scorcio degli anni Set- tanta, è perfettamente in linea con l’attenuarsi della ventata tenebrosa anche a opera di coloro che ne erano stati i più strenui osservanti, ma in seguito rivelatisi pronti a rifor- marsi. Si deve ammettere che l’attribuzione di questi dipin- ti non può che essere solo un inizio per individuare l’ultima attività di Negri da compiersi passando al vaglio non solo il catalogo del tardo Zanchi». In ogni caso l’ultima evoluzione stilistica di Negri, documentata con chiarezza per la prima volta facendo riferimento in primis ai due dipinti asolani, giu- stifica il discepolato svolto presso di lui da Simone Brentana (Venezia 1654 - Verona 1742) altrimenti incomprensibile. Accogliendo l’attribuzione a Negri elenca di recente le ope- re asolane Lucchese (2013).

Bibliografia: Bernardi 1951, ds.; Veneto 1954, p. 438; Veneto 1969, p. 523; Pilo, in Donzelli - Pilo 1967, p. 432; Riccobo- ni 1966, p. 118; Pallucchini 1981, I, p. 256; Zampetti 1987, pp. 596 cat. 217, 704 figg. 2, 3; Fossaluzza 2011, p. 130, figg. 99-100; Lucchese 2013.

tarrale, e febbre continua». Non si menziona il soggetto del dipinto in questione, bensì la considerazione riservata ad esso da Negri: «Per inviarle dunque questo benedetto qua- dro (che altra fattura simile di Pietro Negri non s’è veduto per un pezzo, stante il suo fine, ch’è d’esser conosciuto a Bergamo) farò così; mercoledì per l’ordinario ghe l’invierò insieme colli tre paesi, e due bastoni che lasciò».

Entro questi termini cronologici definiti e le modalità di lavoro dell’ormai anziano pittore, si è prospettata la defini- zione dell’ultimo percorso stilistico di Negri sulla scorta di nuove proposte attributive fra le quali ha una posizione im- portante il riconoscimento delle due opere asolane. Infatti, compongono un gruppo di dipinti da stanza che compren- dono quello di Giuseppe spiega i sogni già in collezione privata di Conegliano (Mobili, arredi 2007, lotto 1053) collocato ac- canto alle due versioni del Compianto di Cristo della chiesa di Santa Maria Formosa a Venezia e della Galleria Sabauda di Torino. Si è aggiunta la Carità romana [Cimone e Pero] di ubi- cazione ignota, già attribuita a Zanchi (Fiori, figura 1992, p. 15 lotto 15; Romei - Tosini 1995 pp. 106-107 cat. 240); la Santa Maria Maddalena della chiesa parrocchiale dei Santi Giorgio ed Eufemia di Rovigno che si accompagna, emble- maticamente, a tre dipinti dello stesso formato spettanti ad Antonio Triva (attribuzione questa di Višnja Bralic´, in Bra- lic´ - Kudiš Buric´ 2005, pp. 296-301 catt. 400-402, 403). Si aggiunga quello raffigurante Mosè e la prova del fuoco attual- mente in collezione privata londinese (90 x 130 cm circa), opera già assegnata a Zanchi. Con qualche anticipo su que- sta fase si colloca invece nel catalogo di Negri l’Ercole e Onfale sul mercato antiquario di Genova come Zanchi (olio su tela, 128 x 112 cm; Dipinti antichi 2014, pp. 54-55, lotto 58). A queste opere pseudo-zanchiane databili circa il 1675 fa se- guito, evidentemente accanto a quelle asolane, Il buon sama-

ritano di collezione privata di Udine, già attribuito ad Anto-

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assolvere alla funzione di modello presenta tuttavia carat- teri esecutivi propri di un’opera finita e non del bozzetto. Si propone per questo inedito la precisa attribuzione a Pietro Ferrari, pittore affatto raro, il cui catalogo è com- posto finora unicamente dal gruppo di sei spettacolari te- leri della volta presbiterale della cattedrale di San Doimo a Spalato con Storie di san Doimo. Gli sono riconosciuti da Ivan Kukuljevic´ Sakcinski (1858, I, pp. 82-83), ovviamen- te in base ai documenti di pagamento dal 1683 al 1685, i soli che restituiscono il nome del pittore risultante averli eseguiti in loco («tenuto in casa apposta»), resi noti con l’illustrazione dell’intero ciclo da Kruno Prijatelj (19751,,

pp. 82-86;1982, pp. 815-816). La valutazione dei dipinti dalmati in uno stato ottimale dopo il restauro, come sono documentati parzialmente da Radoslav Tomic´ (2002, pp. 109-113), consente di cogliere l’identità di mano in quello asolano per gli inequivocabili modi pittorici sopradescritti e i caratteri tipologici ed espressivi, riguardo alle insisten- ze nella definizione fisionomica, ma anche al caratterizzan- te senso del movimento e drammaticità gestuale.

Non si conoscono al momento altri dipinti certi di Pie- tro Ferrari oltre a quelli documentati a Spalato. L’esempio affatto raro qui illustrato proviene nelle raccolte asolane in un percorso collezionistico che non è dato di poter ri- Acquisito attraverso il Legato Bertoldi del 1910, il dipinto

recava un’attribuzione a Jacopo Palma il Giovane.

Al centro della scena Maria che alza gli occhi al cielo men- tre sorregge in grembo il corpo del Figlio, è adiuvata da Giuseppe d’Arimatea. Giovanni avvicinandosi contempla il volto di Cristo asciugando le lacrime. Sul lato destro stanno le tre Marie. Inginocchiata in basso a destra la Mad- dalena ha posato a terra il vaso degli unguenti. La dimen- sione narrativa dell’opera comprende la rappresentazione di Nicodemo intento a deporre la lunga scala usata per ca- lare il corpo di Cristo dall’alta croce. Il legno del supplizio - sul quale è ancora applicato il cartiglio dell’I.N.R.I. e la corda - si staglia sul cielo plumbeo e il paesaggio collinare semplificato.

In primo piano sono esibiti entro un cesto altri strumenti della passione, oltre la corona di spine e il vaso del nardo. Il formato del dipinto, che utilizza le dimensioni del mo- dello per produrre un’opera del tutto autonoma, giustifica una stresura pittorica veloce e sicura. Il ductus delle pen- nellate come accostate anziché fuse è sempre evidente nella costruzione della forma, poiché il pittore si avvale soprat- tutto del fondo ocra per ottenere gli effetti chiaroscurali. Non è nota l’opera di dimensioni maggiori che corrispon- de a questa ideazione, la quale come osservato pur potendo