Olio su tela, 40 x 49,3 cm | Inv. 471
Provenienza: Legato Giacomo Bertoldi, 1910 Restauri: A. Bigolin, 2011
Nel Capriccio con arco di trionfo sulla laguna inv. 470 si scorge una piccola caduta di colore al centro in basso, mentre al- tre cadute localizzate lungo i margini interessano entram- bi i dipinti. La pulitura e l’integrazione pittorica sono sta- te effettuate in occasione del recente restauro.
Le opere, vista l’identità di misure e il tema, formano evi- dentemente una coppia e sono da identificarsi con quelle due Vedute di Francesco Guardi di simili dimensioni (cm 41 x 49) citate nell’Elenco del Legato Bertoldi del 1910. Nel Capriccio con arco di trionfo i due fornici laterali dell’ar- co sono ciechi mentre quello centrale lascia intravedere, oltre il rialzo del terreno, la parte sommitale della facciata di una chiesa in stile palladiano con il campanile romanico
simile a quello di Santa Francesca Romana in Roma secon- do Zampetti (1967, pp. 190-191 cat. 86), associazione giu- stamente da scartare per Marini (in Bernardo Bellotto 1990, p. 106 cat. 27); a destra della chiesa vi è un edificio con tri- fora di tipologia tardo-quattrocentesca. Nell’ultimo piano a sinistra si vede una porzione di cupola; a destra svetta in lontananza un campanile con cuspide troncoconica di tipologia gotica.
A destra si apre inoltre un paesaggio lagunare solcato da al- cune imbarcazioni, al cui limite estremo un tempio, ispirato alla basilica veneziana della Salute, si specchia sulle acque. Verso il margine sinistro, invece, svetta in primo piano par- te di un obelisco, ai cui piedi conversano due nobiluomini: uno in marsina grigio-azzurra si affaccia da dietro il basa- mento, l’altro seduto su un grande frammento di trabea- zione colto di spalle indossa la marsina giallo-ocra, ha sulle spalle il pastrano rosso e porta il tricorno. Alcuni viandanti percorrono la strada sterrata che collega la città al rudere, un personaggio che imbraccia il rastrello colto in primo pia- no a destra in controluce è seduto (o accovacciato) a terra. Secondo Kowalczyk (in Canaletto et Guardi, 2012 p. 177 cat. 46; in Verso Monet 2014, p. 414 cat. 29) l’arco in primo pia- no, la cui patera sul lato sinistro è di iconografia generi- camente qualificata come cristiana (in realtà si tratta di
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alcuni personaggi ai piedi del legno della croce, un com- pianto di Cristo?), assomma gli elementi architettonici della porta Santo Spirito con l’arco di Tito che Bellotto disegna nel suo viaggio a Roma del 1742. La studiosa ri- tiene l’alto muro a sinistra una ripresa di quanto Bellotto rappresenta nella veduta topografica della porta di Anto- nio da Sangallo il Giovane di collezione privata edita da Kozakiewicz (1972, II, pp. 52-55 catt. 74-75, figg. 74, 75), il cui disegno si conserva all’Hessisches Landesmuseum di Darmstadt (inv. AE 2222).
La medesima, placida, intonazione riecheggia nel pendant:
Capriccio con rovine di tempio romano inv. 471, dove l’obeli-
sco è sostituito da una statua adombrata e l’arco trionfale lascia il posto alle vestigia di un tempio antico con colon- ne dal capitello corinzio e trabeazione, simile a quello di Saturno nel Foro romano (Kozakiewicz 1972, I, p. 45; II, p. 88 cat. 118). A destra vi è ancora la laguna, ma sullo sfondo questa volta compaiono una piramide e una chiesa con cupola di tipologia «palladiana» e campanile romanico. Sulla sinistra si sporge dallo stilobate del tempio un gio- vane. Un viandante che si aiuta con il bastone si inoltra nell’avvallamento ombroso del terreno fra i basamenti del monumento con statua e del tempio. Al centro, in primo piano, in controluce è colto da tergo un viandante seduto che si appoggia al bordone del pellegrino (non un rastrello). Kowalczyk (in Verso Monet 2014, p. 414 cat. 30) parla di «archeologi ante litteram occupati nelle operazioni di scavo». Un interesse che sembrerebbe più pertinente ai personaggi del dipinto in pendant inv. 470. La studiosa ravvisa più giu- stamente la piramide di Caio Cestio e ritrova di nuovo la cupola della Basilica della Salute. Si sofferma soprattutto a considerare «il soldato di marmo, il silenzioso guardiano delle rovine», il quale «ci riporta alle sculture così diffuse nei giardini veneti settecenteschi: Bellotto potrebbe es-
sersi ispirato a una delle statue collocate davanti al portico di Villa Giustinian a Roncade, frequentata anche da Cana- letto. Il proprietario della villa era all’epoca il patrizio ve- neziano Marc’Antonio Giustinian quondam Gerolamo, già da chi scrive (Kowalczyk 2001) indicato come il possibile committente delle due tele». In quest’ultimo contributo la studiosa (Kowalczyk, in Bernardo Bellotto 2001, p. 120 cat. 28) descrive la statua come quella di «un soldato, muto e im- potente guardiano», aggiungendo che «le statue dei soldati a ornamento dei giardini si incontravano nelle ville venete: ne figuravano due tra le sculture eseguite da Antonio Bo- nazza per i Widmann di Bagnoli nei primi anni quaranta del Settecento. Lungo i viali del giardino della villa Giustinian a Roncade e in terrazza, vicino all’ingresso principale alla casa, sono collocati fin dal Seicento statue dell’intera com- pagnia degli schiavoni al servizio della Repubblica. Anche se la statua di questo capriccio - apparizione davvero unica - non ricalca esattamente alcuna di quelle della villa, è sug- gestiva l’idea che a queste si sia ispirato il pittore: le statue davanti al portico, viste dalla casa, hanno la stessa sagoma. Quest’idea va a rafforzare la possibilità di un rapporto del pittore con il procuratore de Supra Marc’Antonio Giusti- nian, all’epoca proprietario della villa».
L’ipotesi di committenza Giustinian, come si evince dal- le analisi riportate, poggia su basi affatto labili. Quanto all’iconografia, in luogo dell’associazione alle statue da giardino, ci si limita a prospettare il quesito sul significa- to di un monumento colossale posto presso il tempio che nel capriccio in pendant corrisponde all’obelisco, il quale si rapporta a sua volta alla patera dell’arco di contenuto cri- stologico. Un quesito la cui soluzione, ancora da trovare, può tenere conto della presenza del viandante con bastone che sembrerebbe sprofondarsi alla sua base.
Le due opere, che Coletti nel 1921 (ds., p. 73) definisce «i
se ne sarebbe avvalso anche per la traduzione incisoria. Si tratta dell’acquaforte firmata «B.B. detto Canaletto fe.» per la quale si veda Kozakiewicz (1972, II, p. 93 cat. 120); fa parte della ben nota serie di otto di piccole dimensioni che rientrano nel periodo veneziano dell’artista.
Si deve fin d’ora considerare che entrambi i soggetti (per quanto in misura differente) trovano il corrispetti- vo in due disegni attribuiti a Bellotto conservati presso l’Hessisches Landesmuseum di Darmstadt (inv. AE 2221, inv AE2185; Kozakiewicz 1972, II, pp. 88-93 catt. 117, 119, 121; Bleyl 1981, pp. 37-38 catt. 26-27), provenienti dall’eredità dell’artista e caratterizzati dal fatto di essere eseguiti a puro contorno, senza l’ombreggiatura ad acqua- rello che riguarda invece quelli canalettiani conservati a Windsor. Si tenga conto fin d’ora, altresì, di come il rap- porto fra il disegno e il Capriccio inv. 470 sia stretto, men- tre non lo è affatto fra il Capriccio inv. 471 e il disegno con la corrispondente acquaforte da porsi comunque in relazione fra loro. In quest’ultimo caso la variante principale riguar- da la presenza, in luogo della veduta della laguna, di un rudere di edificio a pianta centrale («rotonda»), attraverso un arco si scorge poi in lontananza una veduta urbana cor- rispondente, nella sostanza, a quella inquadrata dal forni- ce dell’arco di trionfo del Capriccio inv. 470.
La paternità di Bellotto su queste opere del Museo di Aso- lo è stata avvallata, in seguito, con riferimento a Pallucchi- ni da tutta la critica a eccezione di Constable (1962, II, pp. 416-417 catt. 482-483; e assieme a J. G. Links nel 1989, II, pp. 450-451 catt. 482-483), che vi scorse degli autografi ca- nalettiani. Lo studioso rilevava come la costruzione delle architetture e delle figure palesi le medesime caratteristi- che del momento pittorico che la critica talvolta espunge dal catalogo del grande vedutista veneziano a vantaggio di quello del nipote (Constable 1962, I, pp. 136 segg.). Tali creduti Guardi», accostandole per la prima volta più cor-
rettamente a Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto (Venezia 1697 - 1768), furono già ricondotte a Bernardo Bellotto da Bertarelli (1925, p. 314) che non specifica (a meno che non sia sua) a chi si debba la nuova proposta di paternità confermata da Vardanega nel 1928. Questa fu avvalorata ben più tardi all’interno della storica mostra
I Capolavori dei Musei Veneti, allestita a Venezia da Rodol-
fo Pallucchini nel 1946. Lo studioso consapevole che si trattava di opere del tutto inedite colse allora l’occasio- ne per indagare la natura stessa di questi capricci, «cioè poetiche commistioni di elementi reali e fantastici: mo- tivi rovinistici in primo piano (un arco di trionfo diruto e un colonnato di tempio in rovina), città nello sfondo e marine, a destra, con navigli e vele condotte con una sen- sibilità quasi orientale». Pallucchini inoltre rilevava, cor- rettamente, «la diretta influenza dello zio Canaletto» e li datava alla prima metà del quinto decennio del Settecento, «momento di cui sono noti altri dipinti bellottiani consi- mili» (Pallucchini 19461, p. 167 catt. 306-307; 19462, p. 189
catt. 306-307). Tale posizione fu ribadita dallo studioso in occasione dell’esposizione dei dipinti asolani alla mostra
Trésors de l’Art Vénitien tenutasi a Losanna l’anno seguente
(Pallucchini, in Trésors 1947, p. 103 catt. 103-104). Fu con- fermata da Donzelli (1957, p. 17), De Logu (1958, p. 203) e Martini (1964, p. 251 nota 218, fig. 209: inv. 470).
Va riconosciuto il merito a K.T. Parker (1948, pp. 51 cat. 106 Pl. 82, 56 cat. 133 Pl. 68) di aver indicato l’identi- tà compositiva fra il disegno assegnato a Canaletto della Royal Collection di Windsor inv. 7533 e il capriccio asola- no inv. 470 che l’insigne studioso cita con l’attribuzione a Bellotto; altresì di aver stabilito il rapporto ideativo fra un altro disegno di Canaletto della stessa collezione inv. 7020 e il capriccio asolano inv. 471, aggiungendo che Bellotto
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opere pur qualificate da un contrasto chiaroscurale più marcato e una certa meccanicità e sommarietà di tratta- mento del particolare, a giudizio di Constable andrebbero ricondotte ugualmente a Canaletto. I capricci del Museo di Asolo rientrerebbero quindi in quegli esempi riproposti da quest’ultimo a gran numero a partire dal quinto decen- nio del secolo. Lo studioso, inoltre, segnalava nuovamente la stretta relazione tra il capriccio inv. 470 e il disegno del- la Royal Collection di Windsor (inv. 7533; Constable 1962, II, p. 547 cat. 789; Constable - Links 1976, II, p. 596 cat. 789) e riteneva «copia» di Bernardo Bellotto quello custo- dito a Darmstadt (inv. AE 2221). In aggiunta, Constable si avvedeva di come il capriccio asolano potesse derivare da quella Veduta di un porto con arco trionfale romano a sinistra
e nello sfondo architetture della Royal Collection di Windsor
realizzata da Luca Carlevarijs, già presente nella collezio- ne del console Joseph Smith a Venezia (Pallucchini 1994, I, pp. 183, 184 fig. 282). Un riferimento a Carlevarijs che, per il foglio canalettiano di Windsor, era già stato avanzato da Fritzsche (1936, cat. VZ 40). Tuttavia, più di recente è stato giudicato giustamente poco significativo da Marini (in Bernardo Bellotto 1990, p. 106).
L’analisi di Constable riguardante il disegno nelle sue va- rianti rispetto al dipinto asolano è della consueta puntua- lità: «This differs mainly in having two standing figures in the right foreground; in the view through the arc con- sisting of another arch with some buildings adjacent; the sailing-ship on the Lagoon being larger; and the distant church less clearly like S.ta Maria della Salute».
Per quanto concerne il Capriccio inv. 471 Constable an- nota che la rovina del tempio, somigliante a quello di Sa- turno del Foro romano, ha riscontro nel Capriccio inv. 784 dalla Royal Collection di Windsor (Constable 1962, I, PL. 89; II, pp. 416 cat. 483, 417 cat. 484).
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L’attribuzione a Bellotto e la collocazione cronologica pro- posta da Pallucchini alla partenza della fortuna critica dei capricci asolani è ribadita successivamente dallo studioso (Pallucchini 1965, p. 69): «non può non sorprendere che il Constable, nella sua diligente ma deludente monografia sul Canaletto, attribuisca a lui i due Capricci del Museo Ci- vico di Asolo, che certamente sono trascrizioni del nipote, come rivela quella sensibilità per un colore più profondo, autunnale». Mentre alla mostra monografica di Varsavia del 1964-1965 non figuravano opere del Bellotto venezia- no, come annota Kozakiewicz (1964, p. 241), lo studioso polacco (1965, p. 14) ha modo di menzionare subito dopo i capricci asolani, come anche Pignatti (1966, p. 219). Sulla loro problematica Pignatti interviene in seguito in più oc- casioni, affrontando in particolare il rapporto ideativo fra il disegno di Windsor inv. 7533 e quello di Darmstadt che riteneva (ma erroneamente) firmato da Bellotto e recante la data 1740 (Pignatti 1967, pp. 1-17; Idem 1971, p. 327). Si deve tener conto che Orlandi (1753, p. 101) riferiva che Bernardo Bellotto «superate le difficoltà dell’arte, prese ad imitarlo [lo zio Canaletto] con tutto lo studio ed assidui- tà»; verosimilmente nella primavera del 1742, «per consi- glio del Zio, portandosi a Roma fece uso del suo talento nel disegnare e dipingere le antiche fabbriche e le più belle vedute di quell’alma Città. Con tale esercizio rendendosi sempre più abile (…)». Sulla scorta di questa notizia e sulla base dei recuperi figurativi operati, Zampetti (1967, p. 190 cat. 86: inv. 470) suggerisce per le opere asolane in questio- ne una datazione posteriore al soggiorno romano «anche se il capriccio, proprio perché tale, potrebbe essere nato nella fantasia del Bellotto indipendentemente da ricordi visivi, e magari sgorgato da qualche suggerimento dello zio. La mano del Bellotto è evidente: contorni marcati, rapidi con- trasti di ombra e luce, senso dilatato dello spazio».
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Lo studioso conferma la probabilità che il Capriccio archi-
tettonico con porto di Carlevarijs della Royal Collection di
Windsor possa essere stato utilizzato da Bellotto per l’a- spetto compositivo. Ritiene il disegno di Darmstadt «pre- paratorio» per il capriccio inv. 470 e ripetizione letterale di quello di Canaletto a Windsor.
L’attribuzione a Bellotto e la datazione al 1741 - 1742 dei due capricci asolani è confermata da Camesasca (1974, p. 89 catt. 15-16), Steingräber (1987, s.p. cat. 37: inv. 470) e Puppi (in Capricci veneziani 1988, p. 430 catt. 27-28). Quest’ultimo studioso tira le somme a proposito del pro- blema di datazione nei confronti del viaggio a Roma di Bellotto (avvenuto con lo zio) e osserva come «l’esperien- za diretta dell’Urbe non sembra, veramente, necessaria e i motivi potrebbero esser stati suggeriti dallo zio al Bellotto allorché questi collaborava strettamente con lui, in par- ticolare tra il 1735 e 1740». Riconsidera pertanto il valo- re di «matrice» dei due disegni di Canaletto di Windsor sopra citati, in definitiva conclude «che Canaletto, in un momento fervido di collaborazione col nipote e per giunta assillato dalla richiesta da parte dei collezionisti di sog- getti capricciosi, abbia fornito a Bernardo i modelli grafici dei due componimenti – l’uno pressoché integralmente ripreso; l’altro interpretato, previa mediazione della tra- scrizione e del collaudo in disegno – che l’allievo (dovrem- mo trovarci a ridosso del 1740) realizza nei modi di un linguaggio il quale ha già trovato, ed asserisce, sue proprie inconfondibili connotazioni».
Si deve a Giorgio Marini (in Bernardo Bellotto 1990, pp. 106-109 catt. 27-28) un’analisi di particolare impegno sui due dipinti asolani che si salda con le ricerche dello studio- so di natura documentaria, riguardanti le fonti e altresì la verifica di nuove attribuzioni di opere della giovinezza di Bellotto (G. Marini 1993, pp. 125-140). Si è dato conto qui Puppi (1968, p. 122 catt. 363-364) conferma la datazione
del 1741-1742, si deduce precedente il viaggio a Roma. La collocazione dei dipinti asolani è illustrata con chiarezza da Kozakiewicz (1970, 7, p. 798) nel profilo in sintesi di Bellotto. Secondo lo studioso polacco «già prima del 1740 il Bellotto aveva un’attività indipendente, all’inizio nel- la bottega dello zio, con “vedute prese dai luoghi” (Canal
Grande da Palazzo Rezzonico fino a Palazzo Balbi, Lione, Mu-
seo; Santi Giovanni e Paolo e Scuola di San Marco, Springfield, Mass., Museo) e capricci con ruderi e rovine (due del Mu- seo di Asolo; raccolta E. Van Thyssen, Lugano [ora Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid, inv. 40 (1934.2)]; raccolta Thomas Barlow, Londra). Un gruppo di disegni nello Hes- sisches Landesmuseum di Darmastadt ci illustra questa tappa dell’attività di Bellotto. Dello stesso periodo sono le prime acqueforti: otto capricci architettonici ispirati a motivi veneti, padovani e romani, in cui gli edifici e le rovine appaiono sullo sfondo paesistico in un’atmosfera malinconica: si collegano a disegni e acqueforti del Cana- letto con soggetti simili». Si preferisce riportare nella sua integrità e con i confronti proposti questa visione di sin- tesi dello specialista polacco di Bellotto che si apprestava a pubblicare la maggior monografia moderna sul pittore. Nella quale (Kozakiewicz 1972, I, pp. 22, 45, 65-67; II, pp. 88 catt. 116, 118, 90 fig. 116, 91 fig. 118) conferma i ca- pricci asolani eseguiti «già prima del 1742» e soprattutto li innalza a schema figurativo originario di tutti gli altri che di lì a poco l’artista realizzerà. Partendo da essi «si spiega anche il legame, da principio assai forte, con la veduta di fantasia come la concepisce Antonio Canal, e inoltre con la tradizione dell’arte del Carlevarijs e di Marco Ricci. Il nostro artista rimase sempre legato allo sviluppo tematico dei capricci nella pittura veneziana, soprattutto nel Canal dopo il 1742 e nel Marieschi, che aveva vissuto da vicino».
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scegliendone vari elementi iconografici e adattandoli alle nuove composizioni»; pertanto viene a stabilirsi «una do- cumentazione eccezionalmente completa del processo cre- ativo» (Kowalczyk, in Bernardo Bellotto 2001, p. 116). Quanto alla datazione, negli ultimi pronunciamenti, la studiosa si sofferma nel dettaglio sull’analisi esecutiva più che stilistica dei due capricci asolani e giunge a giustifi- care la collocazione nel 1743 circa, quindi dopo il viaggio a Roma e prima di quello in Lombardia «quando l’artista sperimentava, nei nuovi soggetti romani, la graduale con- quista di una tecnica personale. Al grande uso delle inci- sioni nella pittura fresca, ancora presente nelle due vedute del Fitzwilliam Museum di Cambridge (Il Canal Grande
dal campo di Santa Maria Zobenigo verso il bacino di San Mar- co, inv. 186; L’Arno dal Ponte di santa Trinita verso il Ponte Vecchio, inv. 192) si sostituiscono qui altri mezzi tecnici
per illuminare gli spigoli delle architetture e per variare le superfici». L’esito è quello che consente l’accostamen- to, determinante nel pensiero della studiosa, alla veduta del Foro romano dalle rovine del tempio di Castore e Polluce del National Museum of Victoria di Melbourne (Kozakiewicz 1972, II, pp. 460 cat. A318, 465). La valutazione, in sostan- za, si sposta dalle considerazioni di contenuto figurativo, derivanti dall’esperienza romana, a quelle squisitamente formali. La veduta di Melbourne è giudicata «particolar- mente canalettiana per la luce meno contrastata, per i colori caldi delle architetture, per le eleganti macchiette, ma già distante dalle vedute realizzate a Venezia prima del viaggio a Roma» (Kowalczyk, in Bernardo Bellotto 2001, p. 120). Quanto ai capricci asolani, per quello con ruderi di un tempio inv. 471 la studiosa annota: «Il cielo percorso da pesanti nubi oblique, livido all’orizzonte, appartiene al repertorio post romano, come l’acqua segnata a tratti pa- ralleli di varie sfumature di verde».
sopra delle osservazioni circa le componenti figurative, si sottolinea ora come queste sostengano per lo studioso una datazione precedente il viaggio a Roma del 1742, cioè a ridosso del 1740. Particolare riguardo meritano le conclu- sioni inerenti il capriccio inv. 471 che secondo lo studioso, «mostra una attitudine combinatoria di motivi compositi variamente desunti, largamente verificabile per il pitto- re». Riguarda sia alcuni elementi architettonici sia la pre- senza di «contadini con la gerla e il bastone», per cui si fa riferimento ai fogli di Rotterdam (Museum Boymans-van Beuningen, inv. I.146) e Windsor (The Royal Collection, inv. RL 7513), illustrati nella stessa circostanza da Marini (in Bernardo Bellotto 1990, pp. 94-97 catt. 21-22). Soprat- tutto, questa prassi combinatoria «fa ipotizzare che la tela in esame [inv. 471] costituisca l’esito formale di un percor- so che, iniziato col disegno d’ispirazione canalettiana, sia stato meditato nell’acquaforte per poi approdare al dipin- to». Pertanto, lo studioso non accoglie la tesi di Kowalczyk (in una tesi di laurea del 1987-1988 che chi scrive non ha consultato) nella quale quest’ultima, secondo quanto ri- portato da Marini, «stabilendo una sequenza quadro-dise- gno-acquaforte, implica un’esecuzione della tela prima del 1741» (Szylin 1997, 16, p. 96; Delneri 1999, p. 78 cat. 7). Le posizioni al riguardo dei dipinti asolani di Kowalczyk sono in seguito espresse in più occasioni a partire dal 2001 (in Bernardo Bellotto 2001, pp. 116-119 catt. 27-28; in La
pittura di paesaggio 2005, p. 109; in Canaletto 2008, pp. 148-
151 catt. 51-52; in Canaletto et Guardi 2012, p. 177 cat. 46: inv. 470; in Verso Monet 2014, p. 414 catt. 29-30).