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Arcivescovo di Genova e presidente della CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee)

Mi rallegro per il desiderio di ricordare la figura di don Luigi Sturzo, figlio di questa terra di Sicilia, a cento anni dall”Appello agli uomini liberi e forti”. L’evento di oggi cade in una contingenza che lo rende particolarmente aDuale e utile: le recenti elezioni del Parlamento Europeo.

La coscienza europea

Credo che l’appuntamento eleDorale appena concluso possa essere considerato forse il primo che ri- vesta un significato veramente europeo; sembra cioè che sia andato oltre l’aspeDo del test nel con- fronto politico interno ai singoli stati. Forse, a causa di faDi nuovi come la Brexit britannica e le spinte centrifughe che sono sorte, ognuno ha improvvisamente avvertito che l’Europa Unita non è qual- cosa di lontano, ma che in qualche misura riguarda direDamente ciascuno. Da qui la necessità di prendere posizione: così è avvenuto. Ne è segno la complessiva e forse inaDesa posizione. A questo riguardo – pur in mezzo a dubbi, incertezze, delusioni – si è voluto affermare, spero non solo sulla spinta di timori, che bisogna camminare insieme; che il mondo globale lo richiede; che l’interesse di chi ci vuole divisi per mercanteggiare meglio alla lunga non è vincente; che l’Occidente compaDo dovrebbe favorire il continente unito in mezzo a giganti vecchi e nuovi, che vorrebbero non la spar- tizione ma la sudditanza dell’Europa.

La chiesa crede nell’Europa Unita

I vescovi europei – che ho l’onore di rappresentare – credono all’Europa unita e ritengono che nes- suno possa seriamente sostenere che – per principio – sia meglio “da soli” che “insieme”: questo principio vale per le persone come per i gruppi, le Nazioni e gli Stati, anche se da ogni parte è stato riconosciuto che la questione centrale non è il “se” ma il “come” camminare insieme.

Romano Guardini, descrivendo l’età della giovinezza, dice che il giovane ha “la sensazione che il mondo sia infinitamente dischiuso e che le energie siano illimitate; da qui l’aspeDativa che la vita offra doni di portata incalcolabile e la certezza di poter fare grandi cose, è un aDeggiamento rivolto verso l’infinito, l’infinito di quanto non si è ancora provato a iniziare. Questo aDeggiamento ha il ca- raDere dell’incondizionato… contemporaneamente, però, manca l’esperienza della realtà. Mancano la conoscenza del reale contesto e la misura di quanto si può fare, di quanti altri possono fare. Manca la coscienza dell’enorme ostinatezza della realtà, e della resistenza che essa oppone alla volontà. Per- tanto, è molto forte il pericolo di ingannarsi, di scambiare l’assolutezza delle convinzioni con la forza con la quale si possono affermare (…) Manca quell’aDeggiamento tanto banale quanto fondamentale per qualsiasi riuscita, che è la pazienza” (Le età della vita, Vita e pensiero 1993, pagg.46-47), e io ag- giungerei l’umiltà.

In questa acuta descrizione, mi sembra siano descriDi alcuni traDi dell’Unione Europea, che sta vi- vendo un’età di passaggio, cioè di crisi. Il pericolo potrebbe essere quello di rifiutare la crisi, tempo di grazia, e di confermarsi con “ostinatezza” nelle proprie visioni giudicando la realtà con sufficienza. Se questo fosse l’aDeggiamento, sarebbe a rischio il sogno dei gradi spiriti ai quali dobbiamo l’Europa come destino e come opera. Al giovane, continua Gardini, “manca la capacità di vedere e di elabo-

rare ciò che ha visto. Pertanto, il giovane non può fare a meno dell’esperienza altrui (cit. pag. 58). La chiesa confida che l’Europa accolga il tempo di crisi come tempo di grazia, per esaminare il per- corso faDo e ripensare se stessa non innanzituDo come una architeDura da applicare, ma come un cammino di popoli. Nella prima prospeDiva il rischio è quello di accelerare e imporre, nella seconda può essere quello di una eccessiva lentezza: ma nel primo caso la reazione è il distacco dei popoli da qualcosa che è percepito esterno e lontano, nel secondo il risultato è l’adesione a un sogno crescente e condiviso che emerge dal mondo interiore degli uomini e delle Nazioni.

Tre versanti di revisione

A poca distanza dalle elezioni, vediamo un nuovo quadro politico: nuovi soggeDi sono entrati a con- dividere la responsabilità di un cammino unitario. Era prevedibile. Ora la politica deve fare il pro- prio dovere: il primo dovrebbe essere quello di meDersi al tavolo senza la sindrome del nemico, bensì con la fiducia nelle diversità, quelle differenze che sono esaltate in alcuni campi, ma sono odiate e emarginate in altri. È il solito schema dei due pesi e delle due misure! La politica è l’arte della sintesi alta non della esclusione a priori o del compromesso al ribasso, tanto meno della faziosità: deve par- tire dalla convinzione sincera che ogni soggeDo può portare un frammento di verità, di istanze le- giDime, di metodi da non escludere a prescindere.

Finora, la scena politica europea sembra impegnata a ridefinire i quadri istituzionali: ma è da ricor- dare che sono il Consiglio d’Europa e il Parlamento che dovranno avere la visione e dare le linee, re- gistrare i tempi, rivedere i modi. Non si traDa – mi sembra – solo di ridistribuire rapidamente i compiti, ma di ripensare il cammino, e questo può essere faDo con fiducia, poiché non si parte da zero, l’esperienza non è né breve né inconsistente, i popoli hanno già deDo molte volte e in molti modi le loro storie, e i Padri hanno consegnato a noi parole e sentimenti chiari e alti entro i quali segnare il percorso dei ciDadini europei. La via è quella della comunione e della comunità, che evoca la fami- glia, luogo di stima, fiducia, rispeDo, solidarietà, responsabilità.

Un primo piano di ripensamento sembra quello dove l’aDenzione si è subito applicata: quello dei problemi di ordine economico e finanziario. Legate a questi si impongono le politiche per la famiglia, il lavoro e la disoccupazione, le migrazioni, la difesa, ma anche bisogna rivedere le materie di com- petenza: l’Europa deve essere più leggera per essere più efficace.

Un secondo piano mi sembra quello della purificazione della memoria: se il continente ha una voca- zione unitaria, ricca di storie peculiari, allora bisogna guardare in faccia queste storie che si sono in- crociate nei secoli, alleate o scontrate con alterne vicende, basta pensare al secolo scorso. Questa storia complessa dovrebbe essere purificata per non pregiudicare il progeDo comune: pregresse aspira- zioni, successi o delusioni, supremazie o annessioni … dovrebbero essere purificate da quel sogno che si chiama Europa Unita. Essa, da quelle vicende, deve trarre insegnamento e direzione, senza rinno- vare aspirazioni egemoniche di nessun tipo: procedere nella fila non significa imporre il passo a tuDi. Il terzo piano di riflessione è quello più profondo e quindi fondativo: è quello che Platone – nella “Repubblica” – chiama “la cura dell’anima”. Ragionando sulla polis greca come un fenomeno alto di democrazia egli sostiene che ciò è stato possibile fino a quando Atene si è presa cura dell’anima: se- condo Patocka, fu questa la forza spirituale che generò la ciDà stato e l’impero romano, e in seguito generò l’Europa. Naturalmente questa energia si incontrò con il diriDo romano, e il cristianesimo ne fece sintesi con il Vangelo. È un dato storico, perché non riconoscerlo.

Che cosa intendeva Platone con la “cura dell’anima”? Intendeva la ricerca della verità, delle grandi verità che stanno oltre le cose quotidiane e che riguardano l’esistenza umana; le verità che danno senso alla vita personale, che superano la frammentazione, che portano verso un’unità che non omo-

loga ma armonizza. Ora come allora, e come sempre nella storia, l’uomo sente in sé e si pone il pro- blema dell’eternità: esso nasce dalla ineludibile esperienza del limite, della finitezza e della morte, della fragilità metafisica dell’essere che si scontra con l’anelito insopprimibile verso una felicità piena e definitiva. Viene alla memoria quanto scrive Pirandello: “non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte” (Pirandello, Il fu MaDia Pascal). È la cura dell’anima che permeDe al continente di non essere l’Europa dei mercati e della finanza, ma innanzituDo l’Europa dello spirito. Se nella storia di ieri e di oggi molti popoli hanno potuto resistere in situazioni mate- riali gravissime, dove mancano i beni primari insieme alle libertà fondamentali, ciò significa che, al di là del benessere materiale, esiste una energia di tipo immateriale che è la forza dello spirito. È que- sta forza che genera il senso di appartenenza, l’impegno e il sacrificio, in una parola la passione per realizzare qualcosa di alto come un continente unito e solidale.

“Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo, allora cesserebbe di essere” (Novalis, La cristianità, ossia l’Europa). In conclusione, cerco di presentare alcune brevi considerazioni distinte su due aspeDi. Perché Novalis fa una affermazione così neDa? Accenno a tre ragioni:

InnanzituDo perché il Cristianesimo fonda la dignità dell’uomo; la fonda al livello più alto e invio- labile, quello di Dio. È interessante rilevare che le Carte internazionali parlano della dignità umana ma non entrano nel merito del fondamento: lo danno per acquisito, con tuDe le conseguenze! In secondo luogo, perché il cristianesimo si presenta come fede universale che, rivolgendosi alle sin- gole persone, supera i vincoli particolari senza negarli, e permeDe una comunità universale, mentre l’impero incarnava l’idea di una autorità politica universale, il cristianesimo pone la differenza tra ci- viltà e politica, e quindi tra universalità spirituale e particolarità civile.

Infine, perché la fede cristiana pone l’idea della superiorità della persona sulla natura: la vita del- l’uomo non è la vita del cosmo, essa viene direDamente da Dio. Per questo inizia senza paura l’in- dagine sulla natura per governarla a suo servizio, fino a pretendere di superare il limite e di voler possedere il creato: in questa prospeDiva, Romano Guardini aveva previsto la sfida decisiva per l’Umanità: “l’epoca futura non dovrà affrontare il problema dell’aumento del potere … ma quello del suo dominio” (R. Guardini, Il potere, Morcelliana 1963, pag.9). Le ultime due guerre sono state il triste riscontro di questa sfida.

Quali sono i problemi più delicati ai quali i credenti devono dare delle risposte? Uno l’abbiamo già indicato: fondare la dignità della persona umana con le parole della ragione, aDraverso cioè un “lin- guaggio istituzionale” come affermava Habermas: ciò impone una riflessione sulla trascendenza, cioè se l’uomo sia fondamento di sé stesso oppure si auto comprenda in rapporto ad una istanza che lo trascende, e quindi è universale, ma di cui è partecipe. E poi, il rapporto tra politica e religione, tra monoteismo e democrazia, laicità e laicismo, la questione del fondamento del diriDo, che a sua volta rimanda al rapporto tra natura e cultura, tra diriDo e giustizia.

RispeDo a questi fronti, i cristiani hanno una grande responsabilità e forse qualche ritardo. I luoghi del pensiero e le istituzioni accademiche caDoliche sono chiamate a essere più presenti nel pubblico dibaDito, e portare le ragioni di quei valori che sono proposti dal Vangelo, ma che appartengono al- l’esperienza universale. Oggi sono stravolti a causa di un individualismo esasperato che vede nel prin- cipio dell’autodeterminazione la chiave di volta, la base della metamorfosi antropologica in aDo. Il cosiddeDo “trans umanesimo” fonda se stesso non sulla ragione come facoltà del vero, ma sulla volontà assoluta che Levin chiama “decisione”. Questa pretende di porre la realtà delle cose e di sé stesso fino a reinventarsi. Paradossalmente, quanto più l’agire è innaturale, più si ritiene affermata la dignità umana. Il primato della volontà senza verità porta alla negazione della persona e alla disgregazione sociale.

Cristianesimo e Europa

Vorrei concludere con una citazione di don Luigi Sturzo: “A tuDi gli uomini liberi e forti, che in que- sta grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né pre- conceDi facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà” (Luigi Sturzo, Appello agli uomini liberi e forti, 1919). Sturzo pensava alla Società delle Nazioni, che possiamo tradurre anche come “Comunità di popoli”. È una visione alta che – prima che essere organizzativa, esprime l’anima delle genti, il desiderio – prima che la legiDima opportunità – di camminare insieme con quella virtù umana e cristiana che si chiama solidarietà: essa significa por- tare in solidum la vita, e richiede anche il principio di sussidiarietà, per cui ognuno viene valorizzato ed è fiero non solo di ricevere ma anche di dare il meglio del suo cuore e della sua intelligenza, della sua storia e della sua vita.

Intervento di