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Giornalista e scrittore

Egregio Comitato promotore,

innanzitutto grazie per l’avermi considerato adeguato a offrire un contributo a questo ancora attuale dibattito, a cento anni dall’appello sturziano. Grazie per l’opportunità che mi date. Spero di essere all’altezza dei vostri propositi.

Mi avete affidato l’Area Tematica che fonda la sua ragion d’essere sulla parola-chiave “famiglia”. Al- l’inizio, mi sono chiesto: “Perché io?”. La prima risposta che mi è venuta in mente è stata: perché ri- copro il ruolo di Presidente Nazionale del Forum delle Associazioni familiari. Sì, è vero. Ma prima ancora io sono padre, sono figlio, sono fratello. Ed è, quindi, da questo punto di vista che vorrei par- larvi; da una visione di prossimità, appunto, ‘familiare’, che parla della carne e del sangue propri della vita quotidiana di ogni famiglia.

1_ Non è assolutamente un caso che la parola ‘famiglia’, anche dal punto di vista visivo, risulti al centro dell’appello di Don Luigi (se ci mettessimo davanti a un foglio con l’Appello, noteremmo che la parola ‘famiglia’ si trova proprio al centro del foglio). E non è un caso -neppure questo -se la pa- rola ‘famiglia’ i Padri Costituenti la vollero all’interno della nostra Carta Fondamentale, sulla quale si sarebbe fondata la Repubblica Italiana.

Mi chiedete di similitudini tra l’attuale cambiamento d’epoca e il ’19. Sicuramente parliamo di un grande momento di confusione e smarrimento. La guerra è - possiamo dire -appena finita, si è appena avviata una ricostruzione, non solo fisica o degli edifici, ma anche morale. Con gli uomini, i padri, i figli che tornano a casa dopo l’avvenimento bellico, speranzosi di ritrovare le loro mogli e i loro figli, di cui hanno perso le grandi tappe della crescita; e i combattenti più giovani che cercano i loro geni- tori. Dunque, un ritrovarsi delle famiglie. Naturalmente per chi ha potuto, per chi non è mancato in guerra. Fare lo sforzo di rimettersi in una condizione ex ante, con tutti gli interrogativi in merito a ciò che proporrà loro il futuro.

Ebbene, con le dovute - per fortuna! -distinzioni, avverto che questa incertezza sul domani accomuni le famiglie del ’19 con quelle di oggi. La precarietà di non sapere che cosa accadrà nel futuro pros- simo. «Potrò fare il mestiere che desidero?», si chiede oggi un adolescente:«Avremo un futuro in- sieme?», s’interrogano oggi due fidanzati; «Potremo dare un futuro ai nostri figli?», si domandano oggi due genitori. Sfido voi a contestualizzare queste tre domande nel 1919 e a vedere se, anche nel passato come adesso, non si fatichi a dare risposte concrete. Potrei andare avanti, ma il limite che mi avete giustamente proposto, m’impone di passare al quesito successivo.

2_ La famiglia è sinonimo di Bene Comune. La famiglia è Bene Comune. In famiglia, il Bene Comune è l’unico, esclusivo ed imprescindibile faro che guida la vita di chi la compone. Mi spingo oltre: la fa- miglia è Cristianesimo. Un figlio, anche se piccolo, ha la concezione innata che dal genitore riceverà quegli insegnamenti e quelle istruzioni che gli saranno utili per la vita. E quindi il rispetto per i fra- telli, per i genitori, per il prossimo, il non dire bugie, quindi il postulato del dire la verità, è in fami- glia che vengono recepiti per la prima e immancabile volta. In famiglia vi è giustizia. La famiglia è la

prima custode del patto intergenerazionale. Certo, ‘giustizia’ non significa ‘concedere tutto a tutti’, ma ‘concedere ciò che spetta’. Allora come oggi, le famiglie rivendicano e bramano semplicemente giustizia: nelle politiche fiscali ed economiche, nel sostegno sociale a chi è più in difficoltà, nella cura particolare a chi, in una famiglia, merita un’attenzione tutta particolare, perché disabile o non auto- sufficiente. Non una posizione di privilegio, ma le condizioni necessarie e sufficienti affinché possano esprimere nuovamente tutto il loro potenziale creativo e costruttivo della società e delle comunità in cui vivono.

In tal senso, non può esistere sempre un ‘colpevole’, un capro espiatorio cui potersi riferire in modo indefinito, tenendo le mani in tasca.

Fare il Bene Comune vuol dire andare oltre gli interessi particolari, fare ‘rete’, scegliere di remare tutti nella stessa direzione, ma soprattutto mettere passione e coraggio in tutto quello che si fa. Se il popolo smette di esercitare le proprie prerogative pienamente democratiche, nelle quali rientra anche la sussidiarietà, e sta volutamente in silenzio a guardare, poiché egoisticamente sta bene nella sua con- dizione, nel suo ‘ego-chamber’, finisce per dimenticarsi dell’altro, per trascurare il Bene Comune. «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale», recita la nostra Costituzione, che la legittima al pari di tutti gli altri corpi intermedi. È questo il più grave allarme dei giorni nostri: la crisi di queste realtà, che sono vere e proprie estrinsecazioni di prossimità dell’apparato statale. Ed ecco, a cascata, la crisi della sussidiarietà, che solo le famiglie sono in grado di esprimere in modo tanto bello ed efficace: quell’opzione che ha rappresentato, da sempre, un punto di forza per l’Italia. Dov’è finito il primo e più importante ‘ammortizzatore sociale’ del Paese? Siamo ancora in grado di garantirgli un ruolo nell’incontro-confronto con lo Stato? Don Luigi aveva capito che la realtà statuale, da sola, non avrebbe potuto farcela a realizzare la democrazia. Ancora prima del varo della Costitu- zione, scrisse nell’Appello: «Ad uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere or- ganico […] vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali».

Bisogna ripartire da qui. Potremo lamentarci di tutte leggi elettorali che vogliamo, ma quanto fac- ciamo ‘unione’, ‘fronte comune’, quanto sfruttiamo gli strumenti di rango costituzionale di cui già siamo dotati? Quanto siamo decisi a spaccarci la schiena per preservare questi preziosi elementi di comunità? “Fare squadra”, “metterci insieme”…non sono forse queste le fondamenta di un animo cri- stiano? Per vincere la sfida che la società odierna ci pone non basta parare un rigore, se poi si smette di giocare. Bisogna segnare una rete in più dell’avversario, giocarsi la partita, sudare fino all’ultimo istante, ‘finché l’arbitro non fischia la fine’. Con questo spirito e con i meccanismi che l’impianto co- stituzionale ci mette tra le mani potremo allora, sì, creare un ponte tra Stato e Fede. Un ponte di fon- damentale importanza.

3_ Mi piace pensare che “potere” sia un verbo e non un sostantivo. Preghiamo un “Maestro” che il Giovedì Santo si è messo a lavare i piedi: quanto di più umile e, se volete, mortificante si possa fare. Politica è lavare i piedi, non farseli lavare. Politica è servire, non essere serviti. Bisogna partecipare, non c’è alcun dubbio in questo. Bisogna chinarsi e lavare i piedi. Anzitutto, ognuno nel proprio ruolo: come possiamo pensare di migliorare un Paese se non facciamo nulla per quei luoghi in cui operiamo ogni giorno e non li rendiamo migliori? «La bellezza salverà il mondo», diceva Fedor Dostoevskij:ecco, l’ideale secondo cui ciascuno di noi può pian piano trasformare ogni ‘luogo’ in cui abita e vive in un piccolo capolavoro è il discrimine reale tra la fantasia e la realtà in politica. La fa- miglia? Sì. Il mio posto di lavoro? Sì. Ma anche la mia città, il mio marciapiede, la scuola di mio fi- glio, il mio supermercato. San Francesco, patrono d’Italia, soleva dire: «Cominciate col fare ciò che è

necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile». Partiamo dalle piccole cose quotidiane. Smussiamo, limiamo e scolpiamo con fiducia il ‘bozzetto del Canova’ che la vita ci mette davanti. Col tempo ci accorgeremo, anche con l’ausilio degli strumenti costitu- zionali, di aver restituito Bellezza e aver fatto Bene a noi stessi e a chi abbiamo intorno. «C’è del buono in questo mondo -scrive Tolkien nel ‘Signore degli Anelli’, introducendo questo concetto -vale la pena combattere per esso».

4_ Non voglio tirare acqua al mio -che ho buona ragione di pensare sia il ‘nostro’ -mulino, ma la fa- miglia è il primo baluardo educativo della nazione. Molto banalmente: una donna partorisce cittadini, ricordiamocelo questo. E la famiglia è anche il termometro di uno Stato. Per vedere in che condizioni sia un Paese, gli statistici -non per nulla -si chiedono come stiano le famiglie. Don Luigi -e anche qui risiede l’attualità dell’Appello -richiama a «urgenti riforme nel campo della previdenza e della assi- stenza sociale, nella legislazione del lavoro […] alla elevazione delle classi lavoratrici […], la lotta contro l’analfabetismo». In queste parole dimora l’elevata attenzione che il prete calatino ha per lo Stato, che non può prescindere dall’attenzione per le famiglie. E ci dice che Famiglia e Stato rappre- sentano una fusione indissolubile. Non due facce della stessa medaglia, ma la stessa identica meda- glia, se è vero che tutto educa e tutti possono educare. Ed è lo Stato che deve prendere ad esempio la famiglia -non lo dico io, ma il nostro Codice Civile, che erge il “buon padre di famiglia” a criterio di misurazione della diligenza. La buona prassi non può che essere questa. Lo Stato e, con esso, le isti- tuzioni scolastiche, non devono essere avvertiti come un nemico, ma come un padre che vuole il me- glio per noi e che, correggendoci, ci rende migliori di quel che siamo. Sempre, senza dimenticarci del ruolo dei padri e delle madri di famiglia in questo.

5_ «Domandiamo che la Società delle Nazioni riconosca le giuste aspirazioni nazionali, […] propu- gni nei rapporti internazionali la legislazione sociale». Riparto dalle parole di Don Luigi all’interno dell’Appello. Stati consapevoli fanno una comunità internazionale consapevole. Il termine “fami- glia”, mi viene da pensare, fuori dai nostri confini viene spesso legato alle cosiddette “famiglie poli- tiche” dei partiti -ad esempio “la famiglia socialdemocratica”, “la famiglia liberale” ecc. -che poi, magari, al loro interno, di legami familiari hanno ben poco.

I comparatisti, giustamente, nei loro studi s’impegnano a trovare entità che possano ritrovarsi in uno Stato come in un altro; ma anche le peculiarità che li differenziano. Nessuno dice che non c’è organo più equivalente e identico, nel panorama mondiale, della famiglia. Perché non è qualcosa che ci siamo inventati, che abbiamo istituito con legge: è, come dice la Costituzione, una ‘società naturale’. Cre- sciamo bambini della generazione Schengen, della generazione Erasmus, i quali danno per scontati i loro liberi spostamenti, le occasioni che possono cogliere, le LIM che hanno a scuola, mentre tutto questo non potrebbero averlo se mancasse l’Europa. Quell’Europa che, all’occorrenza, è madre e al- l’occorrenza è matrigna. Ma un giovane che va fuori a studiare, a imparare nuove culture, non è forse una ricchezza per la famiglia, per lo Stato di appartenenza, come pure per lo Stato che lo ospita? C’è ancora, in questo concetto, un profumo di futuro non trascurabile. Ebbene, credere in questa Europa è un dovere, anche e soprattutto nei confronti di chi ha dato la sua vita per metterla in piedi. Con- dannare, emettendo una sentenza, non è tra le cose che interessano a un Cristiano, ma -cito ancora Don Luigi - «migliorare le condizioni generali […] di tutti i Paesi uniti nel vincolo solenne della So- cietà delle Nazioni» deve essere il nostro unico compito. Costruire e migliorare, mai distruggere. Nel nostro tempo non possiamo più pensare che uno Stato, da solo, possa contare qualcosa. Pensiamo a cosa accadrebbe se uno Stato qualsiasi dell’Unione Europea si lanciasse oggi in solitudine nell’eco- nomia mondiale: verrebbe probabilmente surclassato, segnando la propria fine. I prodromi di qual-

cosa di simile li stiamo già ‘annusando’ con la cosiddetta “Brexit”. Pensare all’Europa oggi dovrebbe essere - più che pensare ai singoli Paesi come dei vicini di casa - pensare a tanti figli di un’unica fa- miglia: ciascuno con il proprio carattere, le proprie aspirazioni, i propri gusti, la propria personale e unica sensibilità; ognuno inevitabilmente differente, eppure tutti insieme quando davvero conta. E come in ogni famiglia che si rispetti, si può litigare, strillare, ci si può prendere a cuscinate e, magari, una notte si può dormire sul divano. Ma poi, già il giorno dopo, non c’è mai crisi che non torni a posto, che non venga ricomposta per il Bene Comune.

In questo senso, l’identità nazionale, il desiderio di patria, le aspirazioni dei singoli Paesi sono stati e debbono sempre più diventare sentimenti che uniscano un popolo all’altro, mai che lo dividano. Ce lo chiedono il presente e il futuro dei nostri figli, dei nostri nipoti, delle nostre famiglie.

Rileggere Don Luigi oggi, pertanto, ci ricorda che, a tutti livelli, possiamo e dobbiamo richiamare i nostri diritti nella misura in cui non ci ritiriamo dai nostri doveri. Nella misura in cui non smettiamo di amare e dare la vita per ciò in cui crediamo, nel silenzio quotidiano, da Paese reale che sa andare oltre l’indignazione, oltre la rassegnazione, oltre gli scioperi, che risolve problemi e non si arrende no- nostante gli insulti e i bastoni tra le ruote della burocrazia, scongiurando costi sociali che altrimenti ricadrebbero sulla collettività.

Sono questi i principi che ci fanno ottimi cittadini, ottimi italiani, ottimi europei: così com’erano stati pensati da Adenauer, Schuman, De Gasperi -quest’ultimo non a caso, in qualche modo, erede ideale del contributo politico sturziano. Quel senso profondo dei diritti e dei doveri che si vive ogni giorno nelle nostre famiglie. E che ci fa, in conclusione, anche ottimi cristiani.

PUNTO 1 - FAMIGLIA E VITA

Relazione di sintesi di