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Segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (FIM CISL)

In un momento in cui il lessico della politica ha perso la capacità di rappresentare la realtà, in cui bat- tute e opinioni hanno preso il posto delle idee per dissolversi in poche ore, le celebrazioni del cente- nario dell’Appello “ai liberi e forti” di don Sturzo ci ricordano che il potere della parola, quando è sostenuta da un pensiero forte, è tanto grande da plasmare la storia.

Le parole di don Sturzo sono giunte fino a noi da un’epoca lontana e ciò nonostante, se rettamente intese, rappresentano ancora una bussola in grado di orientare il futuro.

Le difficoltà che accompagnarono la genesi e poi la ricezione del suo appello, acute anche nel mondo cattolico del tempo, non sono riuscite a mettere in ombra la portata del messaggio. Perché? Credo che la risposta vada ricercata in un testo posteriore, a mio avviso rivelatore della personalità del sacer- dote siciliano e del modo in cui egli intendeva l’impegno politico:“Io non ho nulla, non possiedo nulla, non desidero nulla. Ho lottato tutta la mia vita per una libertà politica completa, ma respon- sabile. Alla perdita della libertà economica, verso la quale si corre a gran passo in Italia, seguirà la per- dita effettiva della libertà politica, anche se resteranno le forme elettive di un Parlamento apparente, che giorno per giorno seguirà la sua abdicazione di fronte alla burocrazia… agli enti economici, che forme- ranno la struttura del nuovo stato. Che Dio disperda la mia profezia”. (Don Luigi Sturzo, 4 ottobre 1951). Sono parole forti e garbate di un uomo-profeta che ha sfidato il conformismo del suo tempo.

Un secolo è passato dall’Appello “ai liberi e forti”. L’Italia di allora si dibatteva nella crisi politica e sociale del dopoguerra, una crisi che di lì a poco sarebbe sfociata nella presa del potere da parte dei fascisti e nell’instaurazione del regime. Sturzo, che vedeva montare la marea dell’estremismo e co- nosceva i limiti delle classi dirigenti, comprese che la salvezza del Paese poteva venire solo da una forza autenticamente popolare, in grado di inserire l’eredità storica della civiltà italiana – in cui ov- viamente annoverava in posizione preminente il contributo del cattolicesimo sociale - nel filone della modernità europea ed occidentale.

Con la sua aconfessionalità ed il suo interclassismo l’Appello archiviava ad un tempo la grande frat- tura tra cattolici e laici e, raccogliendo i frutti della Rerum Novarum sul terreno dell’economia e del- l’impegno sociale, disegnava un nuovo spazio politico per una forza che ambiva ad essere “centrale” (non amo gli aggettivi “centrista” e “moderato”: spesso sono solo la maschera dietro cui si riparano i tiepidi), riformatrice, aperta, ed al tempo stesso distante dal rivoluzionarismo massimalista dei so- cialisti e dal conservatorismo del declinante ceto dirigente liberale.

L’Appello non solo accettava, bensì esaltava il ruolo della Società delle Nazioni, difendeva le libertà religiose contro ogni attentato di “setta”, il ruolo della famiglia, la libertà d’insegnamento, la libertà dei sindacati, dei corpi intermedi e delle donne. Su alcuni punti di questa “agenda”, per usare il nostro lin- guaggio, gli attriti con la gerarchia non mancassero. Si poneva particolare attenzione a riforme demo- cratiche come l’ampliamento del suffragio elettorale, compreso il voto alle donne, si esaltava il ruolo del decentramento amministrativo e della piccola proprietà rurale contro il latifondismo. Un programma

moderno, come si vede, imperniato su una visione aperta e democratica della società. Una visione che oggi dovrebbe trovare un nuovo approdo nel progetto di una casa comune europea, unico ancorag- gio possibile per la “società aperta” contro i nuovi devoti delle “società chiuse”.

Questa è la grande attualità della visione e del messaggio di don Luigi Sturzo, che rende il “popola- rismo” del prete di Caltagirone ancora oggi una buona piattaforma per poter lavorare al presente e rappresenta un nemico terribile di ogni “populismo” che di questi tempi - anche grazie alle sirene della rete e della demagogia contro gli immigrati, contro l’Europa, contro il futuro è tornato di gran moda. Don Sturzo invece aveva una fede sincera nella persona, che è fiducia nella libertà e nella po- liarchia, o “plurarchia”; tutto il contrario del simulacro della democrazia sotto forma di clic digitale. Sturzo ci parlava di una società senza centro e senza vertice, che vedeva la modernità e il progresso non come ostacolo ma come tempo favorevole, “drammatico e stupendo”. Come quarant’anni dopo disse Papa Paolo VI: “Non molle e vile è il cristiano, ma fedele e forte” (Ecclesiam suam).

Oggi che imperversano webstar a caccia di clic e di consenso sintetico, partiti e movimenti che scan- dagliano i peggiori umori della rete per confezionare messaggi politici “su misura”, unicamente tesi al consenso di breve termine, appare ancora più forte il bisogno di riferimenti forti e liberi. Non esi- stono maestri senza queste virtù: in un’epoca di grande smarrimento, di grandi “rumori”, di esaltate paure, di assenza di pensiero, di vuoto di leadership coraggiose, c’è il bisogno che la politica torni ad essere una forma esigente di carità, perché servizio a favore del prossimo, ricerca ed attuazione del bene comune, un dovere civico.

A cento anni dall’Appello ai “liberi e forti”, l’Italia è un paese “ancora una volta lacerato e diviso”. Lo ha ricordato il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti: “Risuona nell’animo di quanti hanno a cuore le sorti del Paese - ha detto - risuona nell’animo di quanti sentono quella spinta ideale che vede nella difesa della vita e nella promozione umana il motivo di fondo di ogni impegno so- ciale”. Ancor più importante è il riconoscimento che Bassetti tributa a Sturzo per il suo impegno, pa- gato di persona ed a caro prezzo, in favore della verità, della libertà, della giustizia, dell’amore e della pace, ricordando le sue incomprensioni con la gerarchia e la sua opposizione al fascismo, ripercor- rendo “la storia di un uomo, di un sacerdote che ha percorso la strada della santità e dell’impegno cristiano attraverso un particolare impegno pubblico” assunto “per amore del Cristo che ha scorto sof- ferente nei suoi concittadini nudi e affamati. Lo ha fatto per il suo amato Paese, che vedeva preda delle fazioni più estreme, nell’oscuramento dei valori della dignità umana e del progresso civile”. Da tutto ciò discende che l’Appello parla “direttamente anche agli uomini di oggi, interroga profondamente la nostra società così chiusa, rancorosa, individualista e nichilista. E soprattutto esorta a una rifles- sione profonda tutti i cattolici”. Smettiamola di aspettare il cambiamento solo da un leader illuminato, il “potere forte” siamo noi, come ha scritto sulle pagine di “Avvenire” l’amico Leonardo Becchetti. Siamo noi con le nostre scelte di consumo responsabile, con il nostro impegno civico. Il bene comune per funzionare, ha bisogno di quattro mani: il mercato, istituzioni lungimiranti cittadinanza attiva e imprese responsabili.

“Ai liberi e forti” è anche un monito contro le strumentalizzazioni della fede a fini politici: contro chi, per stare sempre all’attualità, pronuncia giuramenti sul Vangelo e la Croce durante un comizio elet- torale. Tutto il contrario del lascito sturziano, che invita a considerare la dignità umana incalpesta- bile, ad essere fedeli al Vangelo in ogni campo dell’agire umano, anche in quello politico, con mitezza, sobrietà e carità. Essere prima di tutto difensori coraggiosi della vita, perché “la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia”. Qui siamo al cuore del problema dell’immigrazione. Non possiamo voltare le spalle né ripararci dietro l’opportunismo. Si tratta di un fenomeno di portata

epocale e come tale va studiato, compreso, affrontato. I 30 mila morti che riposano in fondo alle acque del Mediterraneo sono un pugno allo stomaco per tutta l’Europa. Il tema dei migranti si incrocia con quello delle diseguaglianze, della povertà, delle guerre, della mancanza di istruzione, da cui non può essere disgiunto. L’Italia e l’Europa debbono e possono rappresentare un laboratorio di accoglienza e integrazione ma anche di solidarietà e aiuto per i popoli, in particolare quello africano, attraverso investimenti in scuole, istruzione e cultura, unici seri contributi all’autoderminazione di quei popoli. Le difficoltà di Sturzo con la gerarchia e con la politica di allora sono le stesse di sempre nei luoghi dei corpi sociali e politici, dove il conformismo è l’incapacità di custodire la libertà: quello che Mauro Magatti chiama il “vuoto promettente”, che mette insieme le persone con idee e percorsi diversi, è in- dispensabile affinché tali percorsi siano generativi di cambiamento. Sturzo fu pro-sindaco, organizzò cooperative rurali e bancarie, creò scuole, fondò giornali, costruì una rete di “complicità” con altri gio- vani sacerdoti della sua età. Dalle sue iniziative emerse la sua figura come leader nazionale. Rice- vette il messaggio dell’impegno sociale e politico dall’enciclica Rerum Novarum, che è del 1891. Tutte innovazioni che ieri come oggi condannarono i burocrati custodi delle sacralità dei ruoli men- tre il mondo andava altrove. Oggi in un epoca di profondi cambiamenti che tecnologia e innovazione stanno portando avanti a ritmi esponenziali, bisogna avere la capacità di saper scrivere, con corag- gio e visione, come fece Don Sturzo su un foglio bianco. Il crescente impegno di Sturzo gli fece de- clinare la questione morale ben prima di Enrico Berlinguer: statalismo, partitocrazia, sperpero di denaro pubblico, tre emergenze che sintetizzano la questione morale ancora non affrontata nel paese. A evocarle era proprio don Luigi Sturzo, che non “stava nel mezzo” dell’ambiguità di troppi centri- sti delle sue terre e nel 1946 richiamava l’attenzione della politica e delle istituzioni sulle virtù im- prescindibili da coltivare nello Stato Repubblicano. Tre emergenze cronicizzate e a Sud, insieme al cancro della malavita organizzata e a ragioni storiche mai risolte, nonostante le grandi potenzialità, sono diventate una zavorra pesantissima.

Servire, non servirsi: è la prima regola del buon politico. Sturzo ha contrastato con forza il dilagare dello Stato imprenditore, un ruolo che egli giudicava “pericoloso”, per le tante tentazioni che un forte afflusso di risorse alla politica avrebbe potuto creare e per la sicura inefficienza che si accompagna allo statalismo. Arrivò a parlare anche di “sindacatocrazia” lanciando, allora, un monito al sinda- cato: “L’infezione statalista si è estesa nei partiti, nei sindacati e negli enti pubblici. Come conse- guenza il decadimento morale si estende nel Paese”. Fu un monito importante accolto purtroppo dal silenzio. Ma quando il potere legittimo, in nome dello Stato, si confonde con quello illegittimo, i li- miti morali e legali cedono. In ogni ambito le regole condivise devono valere più del consenso se si scomoda la parola “democratico”. Altrimenti la libertà non è più garantita e l’arbitrio ne prende il posto. Anche sotto questo aspetto l’Appello è un richiamo a recuperare orizzonti lunghi e a superare il ricatto di breve termine a cui ricorrono tutti i populismi, a volte anche quelli che allignano nella classe dirigente del nostro Paese.

Il popolarismo sturziano rimane un efficace antidoto al populismo dilagante: la sua cultura dell’in- contro, la sua laicità positiva, il suo riformismo coraggioso e responsabile, la sua concezione di una democrazia sostanziale, pluralistica, solidale orientata al bene comune sono ancor oggi un valido strumento per superare la grave crisi politica attuale.

Sturzo, Dossetti e De Gasperi sono figure diversissime, tutte dirompenti e spesso considerate addi- rittura “sovversive” nei loro ambienti di provenienza. Eppure le loro parole sono ancora forti come tuoni. Il nazionalpopulismo ha vinto anche per questo: oggi la mediocrazia e il conformismo e la ri- chiesta di fedeltà sono più forte di ogni cosa, anche negli spazi dove storicamente nasce il cambia-

mento. L’Appello ai liberi e forti è il più bell’appello alla libertà come valore insopprimibile di fiori- tura del genere umano, difendiamola sempre, ovunque e da chiunque. “La libertà è come l’aria: si vive nell’aria; se l’aria è viziata, si soffre; se l’aria è insufficiente, si soffoca; se l’aria manca, si muore”. Da ricordare per tornare a essere #popolari.

PUNTO 4 - LAVORO E COOPERAZIONE

Relazione di sintesi di