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5. L’ingresso in una nuova cultura di Eide Spedicato Iengo e Giusi Laselva

5.1. L’arrivo: fra sostegno e spaesamento

[…] Volevo stare con persone che davano rispetto. […] Quando sono entrata a casa della famiglia dove dovevo lavorare ed ho visto libri, ho pensato di aver avuto fortuna. […] Lì sono stata a lavorare con una donna di cento anni che ora è morta. Lei mi spiegava la storia di Roma e mi parlava dei musei e del Vaticano. Una fa- miglia mi ha dato soldi per fare un viaggio a Firenze, per farmi innamorare dell’Italia. (Agnesa, Ucraina)

Chiedevo a Dio di farmi stare in un posto dove mi posso sentire metà romena […] e stare in una famiglia che mi capisce. Ed è successo. (Ozana, Romania)

Quando sono arrivata in Italia ho avuto i documenti dopo tre giorni, dove sono andata a lavorare mi avevano detto che avrebbero fatto un settimana di prova, in- vece dopo tre giorni era già tutto a posto. (Noruena, Ecuador)

“La prima impressione è quella che conta” recita un antico proverbio popolare. Le testimoni del collettivo confermano questo detto. Chi si imbat- te, infatti, già al primo contatto con la società di approdo in un ambiente che, come nei casi appena segnalati, suggerisce spazi a sé prossimi e secu- rizzanti e ne rispetta l’identità1, si dispone favorevolmente all’ambiente nuovo e sconosciuto, ed è portato ad assumere nei suoi confronti atteggia- menti di impegno e disponibilità. Diversamente, chi non incorre in tale op- portunità, per prefigurare un cambiamento deve imparare in tempi brevi, pur con “la pietra nell’anima” come ha riferito una testimone ucraina, ad arrangiarsi, a far propria la logica della provvisorietà, ad adeguarsi a pro- getti a breve termine, a concentrarsi sul proprio Ego faber2

, a confidare in

1 Non è infrequente che le straniere instaurino con le famiglie presso cui lavorano rap-

porti di stima e di amicizia che si prolunga nel tempo anche quando si interrompe il rapporto di lavoro.

2 Una testimone polacca ha riferito: «In alcuni periodi facevo tre-quattro lavori contem-

occasioni fortuite che consentano di superare gli ostacoli iniziali, soprattut- to se si è in condizione irregolare: l’irregolarità di status diventa, infatti, spesso la premessa per irregolarità contrattuali nel rapporto di lavoro o di autentico sfruttamento:

Il mio primo lavoro l’ho trovato tramite un annuncio in un giornale polacco nel quale c’erano offerte di lavoro da cameriera. In realtà nell’agenzia in Italia (in col- laborazione con quella polacca) ci hanno detto che dovevamo lavorare in un night. Dall’agenzia mi hanno accompagnato all’appartamento nel quale poi ho scoperto che avremmo dovuto vivere insieme con le altre undici polacche. Ci davano da mangiare molto poco, solo pane e insalata. L’agenzia non era affatto seria e ci ave- vano chiesto anche altri soldi. Sono riuscita a scappare dall’appartamento insieme ad alcune ragazze. Sono stata poi ospitata da una mia amica polacca, che ho cono- sciuto tramite altre ragazze, che lavorava come badante. Lei mi ha trovato lavoro come badante e l’ho fatto per due anni. (Magdalena, Polonia)

Diciamo subito che nel nostro collettivo le reti di sostegno3, per il loro configurarsi come strutture che si traducono in una sorta di “effetto- comunità”, sembrano aver svolto con efficacia il loro ruolo, pur se all’interno di una trama relazionale ora forte, ora debole, ora lenta, ora spontanea, ora convenzionale4, ora mercantile5 aiutando a superare la sepa- razione dal proprio paese, facilitando nella ricerca di un lavoro6 e di un al- loggio, introducendo nella lettura del nuovo ambiente, risolvendo anche piccoli problemi, come quello riferito dalla testimone della Costa d’Avorio di “procurare un abito adatto a una cerimonia”.

A proposito dei network etnici non va, tuttavia, trascurata l’eventualità che talora questi piuttosto che fluidificare il percorso d’inserimento dei nuovi arrivati nella società di approdo, possono incepparlo per almeno tre motivi: vuoi quando le reti di sostegno si traducono in intrappolanti forma- zioni endogruppali che chiudono alle relazioni esterne; vuoi quando

3 Per rete di sostegno si intende quel sistema di relazioni, in genere gestite da co-etnici,

che permettono all’immigrato di orientarsi nel nuovo ambiente sociale, facilitandone i per- corsi di inserimento nel paese-ospite e supportandolo nel raggiungimento degli obiettivi.

4 Con l’aggettivo “convenzionale” ci riferiamo alle informazioni e agli scambi che ven-

gono offerti ai neo-arrivati per ossequiare la norma del dovere in quanto si è parte di un’identica etnia, piuttosto che perché spinti da altruismo e solidarietà.

5 Maurizio Ambrosini fa riferimento, in questo caso, a chi trae un compenso per aver

aiutato un connazionale nella ricerca del lavoro o nella sistemazione abitativa. Cfr. Ambro- sini M. (2013), Immigrazione irregolare e welfare invisibile, il Mulino, Bologna, pp. 140- 141.

6 Molto spesso l’affidamento alle reti viene preferito alle agenzie e ai servizi professio-

nali di intermediazione soprattutto da chi ha bisogno di aprire a persone non conosciute lo spazio della propria casa. In questo caso il passaparola e le relazioni di fiducia con stranieri già inseriti nel territorio diventano una garanzia nella scelta della persona da assumere. Per maggiori dettagli sul ruolo dei network etnici ancora Maurizio Ambrosini, op. cit., pp. 137- 146.

l’appartenenza etnica, non godendo di fiducia esterna, si trasforma in segno di sub-cultura deviante7; vuoi quando l’azione dei network alimentano nei datori di lavoro la formazione di stereotipi che danno luogo, sul versante lavorativo, alla cosiddetta “discriminazione statistica”, ossia ad assolutizza- re una caratteristica positiva o negativa notata in alcune componenti di un gruppo ed estenderla all’insieme. In questo caso si consolida l’idea che cer- te etnie siano particolarmente inclini a svolgere determinati lavori (per esempio, i filippini ai servizi domestici o le ucraine a quelli di cura) a fronte di altri.

In ogni caso, l’accoglienza prestata da chi è già di casa nel territorio di approdo (parenti, amici e anche datori di lavoro), se contiene e riduce il di- sagio iniziale legato alla nuova esperienza di vita, non surroga ogni esigen- za delle nuove arrivate. Ad esempio, non può evitare il senso di smarrimen- to che coglie quando non si riesce a far fronte a situazioni inedite perché non si possiedono le risorse necessarie fisiche, psicologiche o culturali per gestirle. Comunque, tra le testimoni, undici hanno potuto contare sull’accoglienza dei parenti, dieci sulla disponibilità di connazionali, due sull’ospitalità dei datori di lavoro, una sull’aiuto della Chiesa e della Cari- tas, ma sedici non avevano alcun “indirizzo” cui rivolgersi. Per chi ha rag- giunto il nostro paese, per così dire, “senza sponde”, ovvero senza disporre di un qualche sostegno efficace che potesse accompagnarle nel percorso di inserimento, le difficoltà – com’è intuibile – sono state molte. In questo ca- so qualcuna è caduta nella trappola di datori di lavoro inaffidabili; qualche altra ha sprovvedutamente creduto alle offerte di aiuto di chi, mostrando un volto amichevole, voleva invece solo approfittare dell’altrui inesperienza e incapacità di orientamento nel nuovo ambiente:

Ho avuto molto disagio quando sono arrivata in Italia perché dopo un mese, a ventiquattro anni non trovavo lavoro. Mia mamma ha cercato lavoro per me come babysitter e badante; ma con anziani non ero capace perché non parlavo italiano e loro volevano compagnia; invece da babysitter non voleva la moglie perché pensa- va che rubavo il marito. Poi mi sono trovata lavoro da stranieri moldovani che fa- cevano souvenir di Pompei e stavo lì a lavorare, ho lavorato poco da loro, mi dava- no quarantamila lire, dalle otto del mattino alle otto di sera, poi alla fine stavano fallendo e non ho potuto lavorare più lì. Poi ho conosciuto un chirurgo plastico tramite amiche, perché poi mi scadeva anche il visto, lui mi promette aiuto, ha det- to che era tutto gratis, ma dopo aver firmato le carte per il permesso, mi ha detto che dovevo pagare. Ero spaventata senza lingua, niente, mi voleva violentare, me- no male che avevo il ciclo. (Olga, Ucraina)

Tuttavia il piano dei disagi ha coinvolto, almeno inizialmente, ciascuna delle testimoni, vuoi quando ci si imbatte nel pressappochismo e nella ruvi-

7 Su quest’ultimo tema si rinvia a Zanfrini L. (2007), Sociologia delle migrazioni, Later-

dezza morale di chi, inconsapevole dei costi che paga chi versa in situazio- ne di svantaggio economico e sociale, non lesina malevolenze gratuite che diventano particolarmente odiose quando hanno per bersaglio i più deboli (in questo caso i figli delle testimoni), discriminati a motivo sia delle scarse risorse economiche della famiglia che per i loro tratti somatici. In questo caso, colpisce il risalto dato alle differenze fenotipiche che denunciano la persistenza del determinismo razziale e l’inconsapevolezza del fatto che i caratteri biologici e i tratti somatici sono variabili indipendenti e non ele- menti caratterizzanti i gruppi sociali. La lezione illuminista che faceva gira- re immaginariamente per la civilissima Europa rappresentanti di “popoli altri”, per indurre alla riflessione di sé, alla messa in problema della propria identità, alla lettura critica dei mores propri e altrui, in questi casi sembra non conservare alcuna eco.

Io non ho tanto sofferto, ma mio figlio sì. All’inizio non si è sentito accettato perché i bambini lo respingevano. Gli dicevano ‘non sei italiano e poi vai anche a mangiare in Caritas, sei povero e diverso la noi’. (Tonia, Romania)

Mi trattavano da extracomunitaria, ma a me non importava per niente. Mia fi- glia ha notato maggiormente questa discriminazione perché ha i tratti somatici tipi- ci venezuelani e la pelle scura. Quando iniziò a frequentare la scuola in Italia, mia figlia veniva isolata dagli amici […]. (Mariela, Venezuela)

Vuoi quando si scivola nel ginepraio dell’apparato burocratico, vissuto in veste di spazio irritante, molesto, deludente, stimolatore di frustrazione e impotenza: sia perché difficile da capire, sia perché reso ancora più compli- cato dalla discrezionalità di chi lo gestisce. Non di rado, infatti, le organiz- zazioni e le istituzioni pubbliche mancano di quella duttilità e competenza utili a rispondere efficacemente alle istanze di chi è straniero, e difettano di personale qualificato e di risorse economiche e strutturali utili ad incidere efficacemente nella dimensione relazionale fra questi e gli autoctoni8. In

8 Si rinvia su questo punto, per esempio, a Spedicato Iengo E., Lannutti V. (a cura di)

(2011), Migrare al femminile in una provincia del Centro-sud. Aree critiche, traiettorie la-

vorative, strategie d’inserimento, FrancoAngeli, Milano. L’apparato burocratico-

impiegatizio è quello di cui si sottolinea maggiormente la malevolenza nei confronti di chi non possiede neppure il primo livello di conoscenze utili ad interagire con la società di arri- vo. Anche in precedenti rilevazioni è emerso questo sentimento di diffidenza nei confronti dello spazio burocratico di cui qui proponiamo un’ulteriore testimonianza: «Nella mia vita ho sempre lavorato e vissuto onestamente. Da quando vivo in Italia ho imparato a mie spese che questo non basta. Anche se sei un’immigrata onesta, che lavora, devi necessariamente dimostrarlo con le “carte””, non ti è concessa la fiducia. Così ho preso l’abitudine di conser- vare tutto, contratti di lavoro vecchi e nuovi, copie di permessi di soggiorno scaduti e già rinnovati, buste paga e persino ricevute di pagamenti e bollette. Insomma tutto quello che potrebbe essere utile a dimostrare che lavoro onestamente e sono a posto con le regole […] Non si può mai sapere cosa mi potrebbero chiedere domani». Hoxha D., Costanzo A. M. (a

questi casi, una mano tesa a risolvere i problemi viene offerta dalle istitu- zioni solidaristiche (e in particolare dalle organizzazioni religiose) che, tut- tavia, possono solo temperare l’atteggiamento disincantato dei migranti nei confronti del sistema dei servizi, percepito come inefficace e privo di per- corsi mirati nella valorizzazione degli strumenti di intermediazione fra stra- nieri e paese ricevente. Nel collettivo solo la testimone della Costa d’Avorio ha fatto riferimento all’impegno che, nel percorso di inserimento nella società di approdo, ha ricevuto dalla Chiesa e dalle associazioni di vo- lontariato sociale. Per inciso: non sono solo i network etnici a costituire le forme di accumulazione sociale che «conferisce alle migrazioni internazio- nali una spinta auto propulsiva. Alla perpetuazione delle migrazioni nel tempo contribuisce anche la nascita e/o la trasformazione di istituzioni, sia legali sia illegali, che consentono la migrazione e facilitano l’adattamento al contesto di ricezione – spesso prescindendo dall’ordinamento giuridico in vigore – con l’effetto di rendere i flussi progressivamente indipendenti dai motivi che li hanno inizialmente originati e sempre più istituzionalizza- ti».9

Pensavo che avrei avuto degli aiuti, ma li hai solo se hai amicizie. […] Sono andata al Comune, ho chiesto quello che spettava di diritto, ma non te lo danno, ti mandano da un’altra parte, e così lasci perdere. Non ti danno tutte le informazioni, se non hai conoscenze che sanno come fare, non ti guarda nessuno. (Doina, Roma- nia)

Vuoi quando l’incorporazione in un segmento del mercato del lavoro precario costringe alla provvisorietà e saltuarietà lavorative, esclude dalla protezione sociale e legale10 e, non di rado, determina l’eventualità di non riscuotere anche il poco che era stato pattuito. A questo punto del discorso corre l’obbligo di puntualizzare che precisamente il lavoro a basso costo di donne come queste «permette alla new economy di estrarre ampi margini di profitto. Paradossalmente […] il glamour dell’economia post-industriale e dei professionisti ad alta qualificazione si regge sull’esistenza di un lavoro servile, espletato da una classe di sotto-proletari, uomini ma soprattutto donne, senza apparenti diritti»11. Dunque, sono solo le risorse legate alla

cura di) (2009), Segni migranti. Femminile plurale, Moby Dick, Ortona, p. 16.

9 Zanfrini L., op. cit., p. 103.

10 Nelle maglie di questo scenario trovano posto anche alcune particolari modalità di re-

clutamento (come il caporalato) che approfitta della vulnerabilità del migrante, in particolare se in condizione irregolare, e sull’assenza di scrupoli di datori di lavoro che non esitano ad utilizzare forza-lavoro conveniente per i loro profitti.

11 Corigliano E., Greco L. (2005), Tra donne: vecchi legami e nuovi spazi, FrancoAnge-

li, Milano, p. 25. Si rifletta sulla impropria rappresentazione del lavoro domestico e di cura svolto dalle immigrate che, nell’immaginario collettivo viene spesso inteso come una sorta di attività “connaturata” al genere femminile, perché poggia sull’esercizio delle tradizionali

propria motivazione a restare che possono avviare un qualche processo di interazione con l’ambiente: un ambiente che spesso è immemore del fatto che i migranti oltre ad essere lavoratori sono anche consumatori e fruitori di servizi amministrativi e sociali.

Con questa crisi, con tanti stranieri, gli italiani vogliono approfittare, non ti danno lo stipendio che ti devono dare, danno di meno.[…] Puoi avere mille euro sul contratto, ma prendi sempre trecento euro. […] Mi sembra una cosa ingiusta. (Ozana, Romania)

Vuoi quando lo stato di necessità inscrive in una forma di inclusione su- bordinata che costringe ora a difendere la propria identità di persona; ora a interpretare la parte di ospite tollerato e invadente, per il quale è difficile venire a patti con schemi culturali diversi dai propri, nel lavoro e negli spa- zi occasionali della quotidianità. Per esempio, nei tre brani che seguono, emerge la forza degli stereotipi che rendono il mondo distante e non speri- mentato, poggiano su gerarchie puramente ideologiche e danno segno di sentimenti localistici molto forti.

Il rapporto con gli uomini qua è veramente deprimente e offensivo. La cosa as- surda che non riescono proprio a capire quando tu li rifiuti. È come se dicessero “Ma come non sei una donna straniera? Non hai bisogno di soldi?”. Questo è uno dei difetti delle famiglie patriarcali che da noi non esiste. Abbiamo raggiunto la pa- rità con il comunismo. Forse una delle cose buone del sistema passato è stata pro- prio una certa educazione alla parità tra i sessi. (Magdalena, Polonia)

È stato difficoltoso adattarsi a fare lavori completamente diversi, badante e ba- rista, rispetto a quello precedente di insegnante di chimica in una scuola di Bulga- ria. […] Nel luogo di lavoro, sento spesso che i clienti […] mi dicono frasi del tipo “voi stranieri siete venuti qui per cambiare l’Italia”. (Stéphka, Bulgaria)

Spesso quando cerco lavoro, mi chiedono: “perché sei venuta?”. Non capiscono perché sono qua , però non sono tanti a fare così. Non hanno informazioni sul pro- blema delle immigrazioni. (Selam, Eritrea)

Vuoi quando il processo di categorizzazione sociale fissa in uno status subalterno e regola le relazioni sulla base di un giudizio svalutante, che crea contrasto fra immagine attribuita e immagine personale, tra identificazione e auto-identificazione. Come è noto alla rappresentazione positiva o negati- va di sé concorre fortemente lo sguardo altrui che può includere e sostenere positivamente12; oppure escludere, rendere fragile e vacillante, produrre

attività di accudimento delle persone e di gestione domestica, nonché facile da svolgere per- ché non richiede competenze specifiche per il suo espletamento.

12 Come è noto il ruolo della categorizzazione sociale è quello di sistematizzare e ordina-

trincee di resistenza culturale, inscrivere in una sorta di “adattamento neo- feudale”13, in cui ci si rassegna a rivestire un ruolo marginale. Questa se- conda eventualità ha coinvolto in particolare la migrazione romena, che es- sendo stata spesso associata ad episodi di devianza e criminalità, ha prodot- to generalizzate espressioni di ansia e diffidenza negli autoctoni14.

Quando sono andata a scuola-guida per prendere la patente, il primo giorno nessuno ha saputo che ero straniera, ma qualche giorno dopo si è iscritto un rome- no e parlavamo la nostra lingua. Dopo una settimana, gli italiani non si sono più seduti accanto a me. C’era sempre una sedia vuota tra me e quell’altro. (Mariana, Romania)

Alle Poste alle prime volte ho preso un numero sbagliato, allora un signore mi ha detto che dovevo cambiarlo, ma avevo già mezz’ora di fila e quando toccava a me hanno continuato la fila come se non esistessi. Non importava a nessuno che fossi in piedi da mezz’ora, mi veniva da piangere. (Amina, Albania)

Vuoi quando si sperimentano gli atteggiamenti infastiditi, difensivi, sprezzanti di atmosfere ostili che coinvolgono anche il “mondo vicino” del- la famiglia acquisita, inspiegabili soprattutto per chi proviene da ambienti più semplici e meno formali, in cui le relazioni sociali sono qualificate da forti toni affettivi. In questo caso il peso ascritto della nascita in un deter- minato paese, l’eventualità di ibridazioni e mescolanze nonché l’orientamento a “naturalizzare” la cultura si trasformano in uno stigma che intrappola gli stranieri in identità immutabili e giustifica gli autoctoni a di- fendere il proprio spazio culturale, sigillandone ogni accesso.

Mia cognata sempre mi ha fatto sentire “tu sei là e io qua”, non aveva una grande ospitalità. Per noi venezuelani è normale se siamo cognati stiamo insieme; e se ti trovi in sintonia sei amica, ma con mia cognata qui c’è sempre molta distanza. Una volta mi ha detto che lei aveva i suoi amici e parenti al completo e non aveva bisogno di altre persone. […] Il giorno del compleanno dei miei figli ha una scusa per non venire. Queste cose fanno male. (Mariela, Venezuela)

Ho detto a mia suocera che sono albanese dopo due o tre mesi. Poi si è arrab-

da cui l’identificazione di sé e il senso di appartenenza o di esclusione al sistema sociale.

13 Valtolina G.G. (2006), “Modelli di integrazione e sviluppo dell’identità” in G.G. Val-

tolina, A. Marazzi, Appartenenze multiple, Fondazione ISMU, FrancoAngeli, Milano, p.116.

14 Indubbiamente nella valutazione e nella percezione di tale gruppo nazionale hanno

giocato un ruolo non secondario «la mediatizzazione dei fatti con valenza negativa, la con- fusione sulle dovute differenziazioni e distinzioni fra rom e romeni, tra regolari e irregolari, tra persone violente e persone laboriose e rispettabili. [….] Così in Italia si è andata intensi- ficando la criminalizzazione della parola “romeno”, mentre in Romania si sono letti in modo generalizzato alcuni episodi considerati “xenofobi”». Cfr. Ghiringhelli B. (2009), “Percorsi d’inclusione socio-economica”, in Ghiringhelli B., Marelli S., Accogliere gli immigrati. Te-

biata perché sono straniera e che non avevo niente, diceva al figlio che stava con un “foglio di via”. (Amisa, Albania)

Vuoi quando la consapevolezza di non riuscire a gestire rapporti parite- tici con gli altri e la disattenzione per la propria diversità sociale e culturale

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