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3. La cornice sociale e culturale delle testimoni di Eide Spedicato Iengo

3.1. Il “prima” della migrazione

Perché sia più chiaro il perimetro in cui si inscrivono i vissuti delle te- stimoni e le azioni collettive cui rinviano, è utile soffermarsi, pur se breve- mente, sul “prima” della loro esperienza migratoria. Diciamo subito che gli esordi delle storie rubricate sono quasi tutti eguali e modellati sullo schema di una scheda anagrafica: “sono nata in…”, e a seguire le informazioni sulla famiglia d’origine e sullo spazio quotidiano. Il passato remoto appare se- gnato in gran parte da smemoratezza2 (la maggior parte delle narrazioni è, infatti, scarna ed essenziale) e, pertanto, proposto in modo contratto e con- ciso quasi fosse un altrove afono e inespressivo.

Sono nata in Bulgaria. La mia famiglia era buona, i miei nonni erano bravi, io penso che avevo una vita normale come tutti, mancavano un po’ i soldi, mio padre è un dottore pensionato pediatrico, ma non prendeva tantissimi soldi. Mamma era malata di fegato per tanti anni, c’era una diagnosi ma non si sapeva bene come cu- rarla […]. I nonni paterni sono morti presto. Mi piaceva tanto studiare e andare a scuola e con le amiche uscivamo.

Sono nata in Romania. Io sono figlia unica, mio padre lavorava in una fabbrica e mia madre era casalinga. Non conosco i nonni perché sono morti molto giovani. Mia mamma è morta a quarant’anni. Mi piaceva andare a scuola e avevo molti amici. Dopo otto anni di scuola non ho avuto più la possibilità di studiare, mio pa-

1 Camplone T. (1997), “Io vivo nell’ombra”. L’immigrazione in Abruzzo e le sue voci,

Regione Abruzzo, Assessorato alla Promozione Culturale, Edigrafital, Teramo, p. 21.

2 La smemoratezza, in questo caso, poggia su più ragioni: sulla diffidenza a confidare ad

estranei la propria storia; ma, soprattutto – riteniamo – sia legata al meccanismo della rimo- zione di situazioni e accadimenti spiacevoli.

dre non mi riusciva più a pagare gli studi. Ho lavorato nei campi.

Sono moldava. Aiutavo mia mamma a casa, a quindici anni sono andata in Ucraina a lavorare per quattro mesi. Era un lavoro così pesante che non vedevo l’ora di tornare a casa per riposare, stavo in un albergo al mare, dovevo cucinare, lavare. Poi sono stata in Russia a lavorare in un ristorante, lavavo i piatti. Ho una sorella più grande, un fratello di due anni più piccolo e una sorella sei anni più pic- cola. Mia madre prima di sposarsi ha lavorato in una fabbrica dove cuciva i vestiti, dopo ha cresciuto noi e cuciva i vestiti a casa. Mio padre era agricoltore, ora lavora come dipendente in un mulino.

Sono nata a Poltava in Ucraina, sono figlia unica. Mia mamma ha fatto la cas- siera in una fabbrica, dava stipendi come si davano una volta in contanti e mio pa- dre ha guidato i treni. Durante la settimana stavo con i miei e sabato e domenica andavamo dalla nonna. Ho passato l’infanzia a crescere le galline della nonna. […] Ogni vacanza non andavo fuori perché non erano ricchi i genitori. […] A diciotto anni sono andata la prima volta al mare a Odessa.

Sono marocchina. In famiglia stavo bene, però quasi sempre abbiamo avuto problemi, perché papà e mamma litigavano sempre. Mamma era brava con noi, lei insegnava nelle scuole elementari, papà invece ci sgridava sempre, urlava, lui face- va il camionista però poi ha avuto un dolore e ha smesso di lavorare […] Dopo un anno di problemi e litigi si sono separati e io e mio fratello piccolo siamo stati con mamma, invece mia sorella più grande è stata con papà. Dopo un anno separati so- no tornati insieme, ma papà picchiava la mamma e anche noi e siamo stati così per quasi dieci anni […].

Sono eritrea e sono andata a scuola fino a venti anni, ho fatto l’università di geografia e storia per insegnare, ma solo tre anni, mi mancava un anno. Non posso finire perché non posso tornare, io sono scappata, qui sono rifugiata politica. […] Prima di andare via per la guerra, scherzavamo, facevamo il caffè, che è diverso dall’Italia, con tutti gli amici, mangiavamo come una famiglia. […] Quando c’è il caffè, in casa nostra, vengono zie, famiglie vicine, si fanno popcorn, biscotti, cara- melle, oggi si fa in casa nostra, domani in altra, a turno.

In Cina vivere è sempre bello quando sei piccola. Mia madre era casalinga e mio padre commerciante. Ho tre sorelle e un fratello, quando ero piccola sempre giocavo e studiavo. Mi piaceva andare a scuola e avevo tanti amici. I miei genitori erano buoni, quando avevo quattordici anni mio padre è venuto in Italia per guada- gnare di più.

A questo tempo della vita è stata data sonorità da poche testimoni. Tre principali assi tematici – la realtà familiare, le condizioni economiche, l’ambiente sociale – hanno fatto da guida al racconto. Sebbene ciascuna di loro si sia servita di un proprio codice interpretativo e abbia inserito le sue azioni in uno spazio particolare, drammatizzato le proprie esperienze in contesti specifici, organizzato in forma autonoma il patrimonio dei propri

ricordi, i tempi dell’infanzia e dell’adolescenza vengono raccontati con cu- ra.

Sono nata a Cali in Colombia. La mia famiglia originaria era composta dai miei nonni materni molto anziani, mio fratello minore, mia sorella maggiore e la sorella maggiore di mia madre. Mio padre invece era sposato con un’altra donna da molti anni, aveva altri figli; ero gelosa della sua nuova famiglia. Ricordo anche momenti belli, in particolare, quando avevo un cavallo e c’era anche un laghetto dove anda- vo a fare anche il bagno. Eravamo poveri. Ricordo che mio fratello aveva la pancia molto grande perché avevamo poco o nulla da mangiare. La casa nella quale abita- vamo a Cali era stata costruita con canne al posto dei muri e paglia al posto del tet- to. Lì si costruiva tutto in casa. Non facevamo la spesa. Ci si arrangiava con quello che si aveva. Si faceva il pane con il grano. Vivevamo molto di cocco e di banane e di quello che si riusciva a raccogliere per strada. Mia nonna ci teneva molto a farci mangiare e ci cucinava il cocco in modi molto diversi. I miei nonni erano molto magri. C’era tantissima povertà, mi ricordo che andavo a raccogliere i giocattoli nelle montagne della spazzatura e raccoglievo il cibo che trovavo per terra. Cam- minare per Cali non era facile. Uscire era pericoloso, si vedeva molta violenza sulle strade. Quando uscivo vedevo molte persone morire e non ne ricordo il motivo. Veniva esercitata molta violenza anche sui bambini e sulle donne. La mia vera mamma era sempre assente ed io uscivo di casa da sola, sempre sporca. Io sapevo che andava a lavorare, ma credo non si trattasse di un lavoro buono. Non so che lavoro faceva di preciso […], usciva di notte. Mi svegliavo la mattina, piangevo perché non la vedevo, oppure perché la vedevo rientrare ubriaca. Ma io non riusci- vo ad odiarla perché era mia madre. […].Improvvisamente un giorno non ho più visto mia sorella, mi hanno detto che non stava più con noi. Penso che l’avessero data a qualcuno, ma non so a chi. Un altro evento forte è stata la fuga di mia madre da Cali a Bogotá, mi ha portato con sé e non ho mai più rivisto i miei familiari. Mia madre è dovuta scappare perché faceva parte della mafia e della guerriglia, quindi rischiava di essere uccisa.[…] Arrivammo in una casa brutta, vecchia, sporca. Cre- do siamo state ospitate. C’erano molti disagi ad esempio mia madre mi faceva la doccia con acqua freddissima. Anche a Bogotá, mia madre continuava a non esser- ci mai ed io piangevo sempre per solitudine. Fino a quando, una sera, non l‘ho più vista. Poco prima, ricordo che mia madre era seduta su un gradino e poi si alzò di- cendomi che sarebbe tornata subito, ma non è più tornata e non so che cosa le sia successo di preciso. Dopo un po’ di tempo sono arrivati dei poliziotti, mi hanno presa e condotta nella caserma. Lì sono stati gentili con me, mi hanno dato anche da mangiare, ma io piangevo perché volevo stare con mia madre. Ricordo anche che in caserma mi hanno fatto dormire in una stanza nella quale c’erano molti fuci- li; anche se avevo paura mi sentivo protetta da quelle persone. Dopo qualche gior- no, mi hanno portata nel collegio. […]. Nel collegio cercavano di darci una vita serena, ad esempio, ci facevano giocare ad hockey ed anche ballare e cantare ed ogni tanto organizzavano le feste. Dopo tre anni in collegio, mi hanno detto che dovevo andare in adozione. Non avevo idea di cosa fosse l’adozione. Sapevo sola- mente che, avevano mandato la mia fotografia in televisione (cosi come quelle de- gli altri bambini) nella speranza che un parente mi venisse a prendere. Ma non ri-

spose nessuno. Così, dopo qualche mese, mi hanno fatto conoscere i miei attuali genitori. (Francy, Colombia)

Sono nata a Cumaná in Venezuela, è un paese di mare. In famiglia siamo sette figli, io sono la più piccola. Ho vissuto i primi quindici anni della mia vita in Cu- maná e poi ci siamo trasferiti in un altro paese Tigra, per lavoro del mio papà. Mamma è casalinga. Papà sa fare tutto: elettricista, muratore, lui è un costruttore. La maggiore di tutti i figli è una sorella, poi ho un fratello di ventisette anni, uno di venticinque, una sorella di ventiquattro anni, un’altra sorella di ventitré, un fratello di ventuno anni ed in ultimo, io di diciotto anni. […] Noi non eravamo figli dello stesso padre. Papà è morto quando ero piccola. La mia mamma sempre si è procu- rata il modo di farci crescere essendo bravi. Il mio papà lavorava, non è stato mai lui a educarci, portava i soldi a casa e andava via. Poi la mia mamma ha deciso di andare a lavorare e stavo con la sorella della mamma che era brava a educarci. Io sono cresciuta in un paese pericoloso e la mia mamma ci faceva vedere che le armi erano cattive e la droga cattiva, che non potevi fidarti di nessuno, rispettare il mag- giore a casa e avere ordine. Mi diceva che quando parlavo dovevo stare attenta alla forma della parola, diceva: “ Devi parlare bene così sarai importante con la tua pre- senza”. Lei leggeva per ampliare il lessico e insegnarlo a noi tutti. Noi figli siamo andati tutti a scuola e abbiamo preso il diploma. Sempre stavamo chiusi in casa. Io potevo uscire dalla sette alle nove. (Gabrieles, Venezuela)

Sono nata in Albania, in campagna, in un piccolo paese, Mirdite. Sono l’ottava di dieci figli, mio padre lavorava in una miniera e mia madre era casalinga. […] Stavamo bene perché in campagna siamo tutti amici. Eravamo pochi abitanti, quin- di non c’erano scuole. Andavamo tutti insieme di mattina a scuola elementare in un’altra città, un cammino di un’ora e mezza, dalla montagna dovevano girare at- torno al fiume che non si poteva attraversare. Eravamo in gruppo andavamo tutti insieme, era anche divertente, ma d’ inverno era difficile e pioveva. Arrivavamo bagnati. Mano a mano, quando facevo le superiori, hanno messo il ponte ed era più facile. Andavamo bene a scuola i professori erano bravi, ci facevamo studiare. Do- po il liceo scientifico, però quando ho finito le superiori, è iniziata la guerra civile perché stava cadendo la dittatura. […] Mia madre era molto buona di cuore […]. Mio padre era alcolista, i miei fratelli hanno cercato di aiutarlo. […] Erano i fratelli più grandi a organizzare, perché loro portavano lo stipendio; quindi non mi manca- va molto mio padre. Se mi confrontavo con i vicini che stavano peggio di me: una famiglia con due figli e non arrivava niente a casa, noi economicamente stavamo meglio. […] In Albania se uno rubava una cosa banale ti mettevano di fronte al paese a mostrare il cattivo esempio, noi bambini siamo cresciuti con la paura. L’educazione era fortissima, mio padre e mio zio avevano tanti valori. Noi erava- mo dieci figli; mio padre lasciava la pensione sul mobile e noi non abbiamo toccato niente. Ci hanno insegnato a non mentire, a non rubare […]. La mia preoccupazio- ne era quella di non voler deludere i miei. (Mimosa, Albania)

Sono nata in Polonia. Una volta ho visto un bellissimo paio di stivali ma il prezzo era tanto caro. Ho parlato con papà e lui mi ha detto: ok, domani dopo la scuola resta in città e vengo io a vederli. È venuto con mia mamma e mia sorella e

li ha comprati a tutte e due, ha pagato un suo stipendio. La mattina dopo io prende- vo il pullman alle sette, mio padre è venuto alla fermata a controllare e quando ha visto che avevo gli stivali mi ha fatto cambiare perché li aveva comprati per uscire. ( Magdalena, Polonia)

Sono nata a Braila in Romania, è una città molto grande e bella. Siamo tre so- relle e con la mia famiglia siamo sempre state bene. Abbiamo avuto una situazione materiale molto buona. I miei genitori lavorano tutti e due, mia madre lavorava in una cooperativa (dove si cuciva) e mio padre lavorava alla nostra terra.. […]. Mia madre faceva tutto il possibile per comprarci tutto quello che altri non avevamo. […] I soldi sempre mancavano, ma […] eravamo ben vestiti. A Pasqua, la settima- na prima ci compravano qualcosa di nuovo. Lei pensava che tutta la famiglia si de- ve vestire, era qualcosa di nuovo per il nuovo anno, di nuovo anche dentro di noi. Un vestito nuovo cambiava un po’ la vita, non so se parte della nostra cultura è così o era solo mia madre così. Noi da ragazzine chiedevamo qualcosa di più e ci dava quello che volevamo. Da bambina ricordo che quando chiedevamo qualcosa, mia madre guardava mia padre, si parlavamo con gli occhi, mio padre abbassava gli occhi e faceva un cenno per dire sì. (Mirela, Romania)

Quantunque legate a spazi differenti, le vicende individuali proposte paiono essere state dirette da un medesimo regista e aver seguito, pur con alcune varianti, uno stesso copione che ha fatto luce su espressioni di ini- ziazione precoce alla vita adulta, spirali di marginalità, percorsi esistenziali spesso folti di obblighi e poveri di scelte, spazi segnati da pesanti esigenze quotidiane, modelli di socializzazione dalle scarse visioni prospettiche, vis- suti che bastava poco a rendere sereni, come l’acquisto di un paio di stivali (che, tuttavia, dovevano essere indossati con parsimonia per non sciuparli) o di un vestito nuovo che “cambiava un po’ la vita”.

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