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di Vittorio Lannutt

6.3. I motivi di crisi nel Paese d’origine

Molte teorie tentano di spiegare le cause delle migrazioni, ma finora nessun modello è stato ritenuto valido a livello globale. La visione più co- mune è quella che connette i fattori si spinta (push factors), vale a dire i grandi problemi strutturali nei paesi di provenienza (povertà, fame, man- canza di lavoro, disastri ambientali, guerre, regimi oppressivi e persecuzio- ni delle minoranze) con i fattori di attrazione (pull factors), dunque con la

necessità di manodopera nei Paesi sviluppati. Le cause delle migrazioni alimentate da fattori economici, politici, sociali e culturali agiscono all’unisono e «poiché sono un fenomeno collettivo, dovrebbero essere prese in esame come sottoinsiemi di un sistema economico e politico in espan- sione»9.

Tuttavia, la necessità di emigrare non è dettata soltanto dalle condizioni di povertà del proprio Paese, altrimenti non avremmo 214 milioni10, ma 3 miliardi di migranti nel mondo. La motivazione economica è soltanto una delle cause che spinge gli individui ad emigrare ed il paese di approdo do- vrebbe attivare politiche che regolano il lavoro di questi, evitando situazio- ni di sfruttamento e garantendo a tutti i lavoratori, compresi gli immigrati, i diritti essenziali: il paese di ricezione, infatti, non è un semplice spettatore passivo del fenomeno migratorio11.

Come si accennava, i motivi che hanno spinto le donne intervistate alla partenza sono diversi, ma quello principale riguarda la scarsità di offerta di lavoro e la precarizzazione di questo.

Stavo a casa, non lavoravo, nemmeno mio marito; ci aiutava mia suocera. I miei genitori lavoravano in campagna, coltivavano mele, arance e altra frutta, ave- vano anche le mucche e altri animali. (32, marocchina, licenza media, occupata).

I miei genitori stavano male finanziariamente, io non ho finito di studiare. Per cinque anni non ho avuto una buona infanzia, non avevo giocattoli, niente, andavo a raccogliere la frutta e a lavorare la terra. Poi quando avevo 6-7 anni ci siamo tra- sferiti in città, era il periodo della rivoluzione, io comunque continuavo ad aiutare la nonna che stava in campagna. (29, romena, licenza elementare, disoccupata)

Anche io ho lavorato in una fabbrica di abbigliamento, il padrone era italiano e poi ha fallito e mi sono ritrovata senza lavoro. (36, romena, licenza media, disoc- cupata)

Queste testimonianze indicano che l’immigrazione nel nostro Paese ha raggiunto un livello di maturità tale, considerando il modello di Böhning, per cui non vi giungono più soltanto giovani provenienti dalle principali cit- tà dei Paesi di provenienza, ma anche donne con un background culturale più basso, nate e cresciute in zone rurali, impoverite anche a causa

9 Castles S., Miller M., (2011), L’era delle migrazioni, Odoya, Bologna, p. 49. 10 Caritas (2012), p. 17.

11 Secondo Saskia Sassen: «i paesi di ricezione devono riconoscere che quando esterna-

lizzano i lavori in paesi con manodopera a basso costo, stanno creando i ponti per le future migrazioni. È vero che l’immigrazione si dà in un contesto di disuguaglianza tra paesi, ma la disuguaglianza di per se stessa non è sufficiente a indurre l’emigrazione. La disuguaglianza deve essere attivata come un fattore di spinta – attraverso reclutamento organizzato, legami neocoloniali, ecc.», in Sassen S. (2008), Nuove politiche di appartenenza, in «Mondi Mi- granti», 3, 2008, FrancoAngeli, Milano, p. 20.

dell’arrivo repentino negli ultimi due decenni del turbocapitalismo12. Un’altra delle cause della partenza dei migranti è la situazione inflattiva dell’economia del loro Paese, alla quale hanno notevolmente contribuito gli elevati tassi di corruzione.

Subito dopo il liceo sono andata alla città dove era a mio padre a fare l’università, a Puerto La Cruz; mio padre tornava a casa solo il fine settimana per- ché lì è tutto lontano. Io volevo fare l’università di stato, ma c’era corruzione do- vevi essere iscritta ad un partito politico e quando ho capito questo ho deciso di non perdere tempo e mi sono iscritta ad un istituto privato. Mi sono iscritta ad un corso di banche e finanza, ma in quel periodo c’era la crisi quindi poi mi sono iscritta ad amministrazione industriale. (…) Lì ho conosciuto altre ragazze che la- voravano e mi hanno indirizzato anche a me, quindi ho trovato un lavoro per pa- garmi gli studi privati; come lavoro facevo la segreteria di un ufficio al centro commerciale che si occupava dei luoghi dove seppellire in cimitero, ma non era lavoro per me. Poi ho lavorato in un altro ufficio che si occupava di taxi, mentre il sabato facevo un corso di parrucchiera. Dopo l’università a 21 anni ho trovato la- voro in una banca e mi sono sposata a 22 anni; quindi lavoravo e mi occupavo del- la casa e della cucina. Sono arrivata in Italia a 24 anni. (34, venezuelana, laureata, occupata)

A Chieti, come nel resto del Paese è rilevante la presenza di cittadini provenienti dall’area balcanica. Tra questi è alto il numero delle donne ro- mene, molte delle quali hanno riferito di essere fuggite da matrimoni rovi- nati dalla dipendenza alcolica dei mariti, che in diverse occasioni si mo- stravano violenti con loro e con i loro figli.

Ho quattro figli, ora hanno tutti la casa per conto loro, sono grandi. Gli altri so- no a Bucarest invece mia figlia è venuta con me e ora lavora a Francavilla. Invece, l’altra mia figlia è morta a quattordici anni per un vaccino che serviva fare per la scuola. In quel periodo sono morti ventisei bambini in due anni è stata una trage- dia. A mio marito non gliene importava niente dei nostri figli lui pensava a bere e menare. (53, romena, diplomata, occupata)

All’inizio era bellissimo poi mi ha iniziato a menare, a dire parolacce perché beveva sempre. (37, romena, diplomata, disoccupata)

Abbiamo divorziato dieci anni fa, in Romania. Dopo quattro anni sono partita per l’Italia. In Romania, avevo un lavoro bellissimo, ero ispettore di personale in una stazione ferroviaria. Io e mio marito avevamo un bar molto grande; lui mi ha detto di lasciare il lavoro per lavorare con lui al bar. Ci siamo lasciati, quasi come tutti i rumeni per l’alcool e le donne e perché mi picchiava. Dopo che avevo finito il lavoro alla ferrovia lui veniva lì, mi minacciava e mi picchiava, perché dovevo lasciare quel lavoro. Lui picchiava anche mia figlia che veniva ad avvisarmi quan-

do lui arrivava. Lui voleva che lasciavo quel lavoro perché avrei preso una grande somma, i soldi di cui lui aveva bisogno nel bar. Ma dopo che ho lasciato il lavoro, lui ha preso i soldi ed è andato via da casa. Stava con una donna che faceva la bari- sta al nostro bar. Io e mia figlia siamo rimaste senza niente. Sono andata all’avvocato, per documenti per il divorzio mi ha aiutata il mio papà. Ma presto ho trovato lavoro come commessa. Non è stato facile passare da ispettore del persona- le a lavorare come commessa. In Romania non è come in Italia, lavorare come commessa è pesante. Avevo turni anche di trentasei ore, lavoravo in continuazione. Ma adesso in Italia, sono rimasta a casa per lavorare con il nuovo compagno. (48, romena, diplomata, occupata)

Anche se non sono molte le intervistate con titoli di studio medio-alti, sono numerosi i casi di proletarizzazione riscontrati nel collettivo. Indicato- re di questo fenomeno è la relazione tra il loro titolo di studio e la profes- sione esercitata: non sono poche le intervistate in possesso di un titolo di studio corrispondente al diploma di scuola superiore italiano. Molte fra co- loro che hanno visto peggiorare la propria condizione socio-economica provengono dall’Europa dell’Est, a seguito della fine del comunismo.

Studiavo cultura, per quindici anni ho controllato come capo le biblioteche del- le scuole, organizzavo il festival per i bambini, la festa era il primo giugno, ora non c’è più, è cambiato il sistema e non ci sono i soldi. Io sto qua per questo, con il nuovo governo la cultura è morta. Ho lavorato in una fabbrica della benzina, era molto grande, aveva 3.000 dipendenti, io lavoravo alla barriera. Dovevo stare at- tenta all’incrocio di macchine, pullman, treni, dovevo stare sempre attenta a cosa dicevano e chiudere la barriera quando passava un treno. Era un lavoro troppo pe- ricoloso, troppa responsabilità. Ho lavorato per dieci anni, poi la fabbrica ha chiu- so. Dopo ho lavorato in una fabbrica, dove si cuciono i vestiti per cinque anni, la- voravo dodici ore per 100 € al mese, mi si affaticavano gli occhi. Io sono vedova, devo aiutare mio figlio che ha preso i soldi in banca per comprare una casa, l’altro figlio sta in affitto. È per questo che sto qua, devo aiutare i figli, loro lavorano, uno studia per diventare militare e fa il commesso, l’altro è cuoco ma non guadagnano più di 100-150 euro al mese. Sono sposati, uno ha una figlia. (59, bulgara, laureata, disoccupata)

In Italia ho fatto l’aiuto cuoca, la babysitter, le pulizie, l’assistente notturna in ospedale, ho lavorato in albergo a Ovindoli. Quando stavo a Celano non lavoravo, il mio compagno non lo permetteva, mi manteneva lui, mi dava i soldi per i figli. Le retribuzioni erano variabili, a seconda, 800/900 € al mese, una volta ho guada- gnato 2.500 € per un mese e mezzo di lavoro perché, oltre al lavoro normale, ho lavorato a ore. Mi sono sempre arrangiata, non mi sono mai mancati un pezzo di pane e i soldi per l’affitto. Ora guadagno 800 € al mese. (47, polacca, laureata, oc- cupata)

Ho lavorato in hotel, mi vergogno, dove vengono vostri uomini per due ore poi cambiano, e con gli anziani; più bello è lavorare con i bambini, con loro si studia.

(65, bulgara, laureata, occupata)

Alcune immigrate, tuttavia, riescono ad utilizzare il titolo di studio con- seguito nel Paese di origine. Tra le intervistate, infatti, c’è chi è riuscita in questo intento.

Babysitter appena attivata; poi cameriera al bar ed al ristorante; poi come segre- taria in un assicurazione. Adesso ogni tanto faccio la cameriera ai matrimoni; ma faccio anche la collaboratrice in un’altra assicurazione: assicurazione vita e rispar- mio, ma se non fai le polizze non guadagni niente. Guadagno sempre poco, esem- pio 60 € per un servizio al ristorante di quattordici ore e mezzo; invece per le po- lizze puoi guadagnare anche 200 €. (34, venezuelana, laureata, occupata)

Questa donna venezuelana ha una laurea in amministrazione industriale, titolo che in Italia non le ha dato i frutti sperati, ma che, seppure in piccola parte, le consente di utilizzare alcune competenze acquisite nell’attività di assicuratrice.

Poco flessibile è anche il nostro sistema educativo-formativo, soprattut- to se paragonato ad altri Paesi sia dell’Unione europea, che emergenti.

Ho fatto un corso di formazione alla regione Abruzzo per otto mesi: controllo numerico delle macchine computerizzate, robot da programmare in fabbrica. Vo- glio provare a vivere in Italia, ma se si presentasse una buona occasione in un altro paese occidentale partirei anche oggi stesso. Quando sono andata tre-quattro giorni a Parigi, Londra, Inghilterra e Spagna dicevo: “Se trovo lavoro rimango qua”, lo dicevo in ogni posto. Dopo che io sono distante 8500 km dal mio paese, se dovessi andare in un altro paese me ne andrei; ma solo sapendo di avere lavoro e sicurezza per i miei. Vedo che qua ho amici venezuelani che sono arrivati laureati, ma fanno altri lavori. Ad esempio un mio amico andava in giro con il furgone a vedere delle patatine; lui qui era solo, aveva casa dei genitori, ma non aveva speranze di niente; dopo è andato in Spagna e fa il dirigente, è importante e va a Parigi, in Cina a Shangai ed in Polonia; adesso lui ed i genitori stanno benissimo (mentre qua lavo- rava con il furgone!). A Pescara mi chiedevano quattordici € per la traduzione di ogni foglio della mia tesi; alla fine la laurea non vale niente! Ho un’amica in Olan- da ed un’altra laureata che sta in Spagna e dice: ‘Sono ingegnere in Venezuela e ingegnere anche qua’.” (34, venezuelana, laureata, occupata)

Le rigidità sia del mercato del lavoro che del sistema educativo italiano attivano dinamiche espulsive sia per gli autoctoni, che per gli immigrati, al punto che il brain drain è un fenomeno che inizia a riguardate anche questa seconda fetta della popolazione che vive in Italia. La difficoltà di utilizzare il titolo di studio è dovuto anche alla scarsa conoscenza dell’italiano:

Quando stavo a Roma, la signora Daniela si è informata; avrei dovuto fare due anni alla “Dante Alighieri”, dovevo imparare il significato di parole di psicologia

che non capivo, poi avrei dovuto fare i concorsi. Non l’ho fatto perché i primi tre anni non potevo. Poi avrei potuto lavorare con businessmen che, dopo la Perestroi- ka facevano affari con l’est per l’acquisto di terre, fabbriche, ma non ho potuto perché non conoscevo ancora bene l’italiano. (47, polacca, laureata, occupata)

È evidente che l’insegnamento della lingua italiana (L2) non è fonda- mentale soltanto per le seconde generazioni, ma anche per gli adulti, i quali senza le necessarie competenze linguistiche hanno scarse possibilità di far valere i propri titoli di studio. Nello scenario internazionale il pregiudizio secondo cui l’immigrato può svolgere soltanto lavori scarsamente qualifica- ti non è più valido. Nel nord Europa, infatti, si sta assistendo ad un’inversione di tendenza, perché il 40% degli immigrati assunti e arrivati tra il 1995 ed il 2005 in Belgio, Lussemburgo, Svezia e Danimarca era in possesso di una laurea. Sono sempre più frequenti i casi di lavoratori immi- grati che hanno un titolo di studio mediamente più alto dei lavoratori autoc- toni. La situazione è diversa nell’Europa meridionale, dove la maggior par- te dei lavoratori immigrati ha un curriculum formativo piuttosto scarso.

Il tema della dequalificazione del lavoratore immigrato è stato a lungo dibattuto ed analizzato e nel complesso la scarsa qualità del lavoro può es- sere dovuto sia al basso capitale umano del lavoratore, sia ad un non corret- to incontro tra lavoro e capitale umano. Questo secondo fattore è frequente in Italia, dove gli immigrati oltre ad essere mediamente più istruiti della popolazione autoctona, con la permanenza migliorano le loro competenze linguistiche. Il fenomeno viene definito brain waste, inteso come impiego di lavoratori stranieri con titoli di studio medio-alti per attività lavorative che richiedono una formazione inferiore. Questo ha determinato uno sbi- lanciamento degli immigrati, rispetto agli italiani, in occupazioni non quali- ficate. Confrontando i lavoratori autoctoni ed immigrati in Italia, sotto- impiegati rispetto al loro titolo di studio, i secondi sono oltre tre volte ri- spetto ai primi: il 28,5% contro l’8,5% (considerando nello specifico i set- tori artigianale e industriale, dove gli immigrati sono principalmente impie- gati, il problema è maggiore per entrambi, ma per gli stranieri è più ampli- ficato, dato che raggiungono il 43%, contro il 23% degli italiani)13. C’è poi da considerare che gli immigrati trovano più facilmente occupazione, ma si tratta di lavori umili e più vulnerabili, infatti la crisi economica ha colpito prima questi lavoratori.

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