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Il pendolo della modernità, un equilibrio precario ma essenziale

di Vittorio Lannutt

8. Un banco di prova per la democrazia di Claudia Rapposell

8.1. Il pendolo della modernità, un equilibrio precario ma essenziale

Quella del pendolo è una delle immagini utilizzate per descrivere un tratto del nostro tempo, l’ambivalenza della modernità che si definisce con aggettivi contraddittori, voci che con la loro compresenza sfidano il princi- pio di non contraddizione provocando spaesamento negli attori che pensano e agiscono all’interno della sua cornice.

Agnes Heller, ad esempio, afferma che, dal punto di vista politico, i pae- si occidentali si contraddistinguono perché sono chiamati a difendere la pa- ri valenza di due principi: il liberalismo e la democrazia. Semplificando, possiamo vedere come sia difficile affermare allo stesso tempo che ognuno deve pensare con la propria testa e che si deve seguire la decisione della maggioranza che ha sempre ragione. Ma secondo l’autrice è vitale restare nel compromesso e anche difenderlo, dal momento che la storia ci ha dimo- strato che qualora un principio prenda il sopravvento sull’altro ne conse- guono catastrofi: «All’inizio del nostro secolo, in Europa, il liberalismo di- venne sostanziale mentre si formalizzava la democrazia, e questa fu una condizione importante nell’emergere dei totalitarismi. Ora sembra che vi sia una tendenza, almeno negli Stati Uniti, verso la formalizzazione del li- beralismo e la sostanzializzazione della democrazia. Il risultato è un livello sempre più alto di tolleranza verso la violenza e la guerra fredda civile nel nome della “differenza”, e il disprezzo dei diritti delle minoranza nel nome della maggioranza»1. Soltanto se si riesce a mantenere un equilibrio ade- guato fra il liberalismo e la democrazia, un equilibrio che resterà sempre precario, momentaneo, nel “pendolo della modernità”2 si crea una condi- zione ottimale per la sopravvivenza della modernità stessa.

1 HellerA.(1999), Dove siamo a casa, FrancoAngeli, Milano, p. 112. Nel secondo caso

l’autrice indica il riconoscimento delle identità multiple a tutti i livelli di integrazione come il requisito minimo per riportare l’equilibrio. Cfr. anche ivi, pp. 121-122.

Stessa similitudine per Zygmunt Bauman che ci descrive il disagio di un soggetto che ormai non può più rinunciare alla conquista tipica della mo- dernità, la libertà intesa qui come la condizione di non essere vincolati da ipoteche sul ventaglio di scelte per quanto riguarda il chi si vuole diventare dettate dall’appartenenza per nascita ad una classe sociale3. D’altra parte però si anela anche a ritrovare il senso di sicurezza che derivava dal sentirsi parte di un gruppo le cui pratiche erano comunitariamente definite:

C’è un buon motivo per guardare al corso della storia come a un pendo- lo, sebbene per altri aspetti esso potrebbe apparire lineare: i due elementi senza i quali l’esistenza umana è assai dura da sopportare, libertà e sicurez- za, entrambi in pari modo pressanti e indispensabili, sono molto difficili da conciliare senza attriti, e il più delle volte attriti molto forti […]. L’acquisizione della sicurezza impone sempre il sacrificio della libertà, mentre quest’ultima può espandersi solo a spese della sicurezza. Ma la si- curezza senza libertà equivale alla schiavitù; mentre la libertà senza sicu- rezza equivale a essere abbandonati a se stessi. Ai filosofi, questa circo- stanza procura un’emicrania che nessuno è in grado di curare. Essa, tutta- via, rende anche la convivenza un’esperienza irta di conflitti, dal momento che quando si parla di sacrificio della sicurezza in nome della libertà, così come di sacrificio della libertà in nome della sicurezza, ci si riferisce di norma alla sicurezza o alla libertà altrui4.

Agnes Heller traduce questo tratto della storia in una tensione esisten- ziale come un movimento simile a quello del pendolo, esempi di questo so- no: il legarci agli altri/il separarci dagli altri; l’identificarci con gli altri/il distinguerci dagli altri; il ricercare la sicurezza/il riaffermare la libertà per- sonale; il desiderare la dipendenza/il desiderare l’indipendenza; il trascen- dere noi stessi in uno stato di estasi, nella contemplazione mistica, nell’amore o nell’immersione nella Bellezza/il difendere noi stessi contro la perdita dell’identità; il dissolverci in comunità/il cercare la solitudine; il condividere le assunzioni dell’“opinione pubblica”/il prestare fede soltanto ai propri occhi5. L’avvicendamento tra isolamento e relazione, tra riaffer- mazione di sé e perdita di sé, e momenti simili, è l’avvicendamento tra il

momento di sostenere la mia esperienza, il mio significato, il mio orienta- mento, la mia selezione, la mia autoregolazione ed il momento del dimenti-

care queste esperienze nella realtà condivisa: il significato condiviso,

l’orientamento condiviso, la selezione condivisa, la regolazione condivisa e alla fine il momento del totale oblio della memoria di lungo termine come esperienza sedimentata e rielaborata. In ogni società esiste un certo grado, ed un certo tipo, di “tolleranza verso questo genere di avvicendamento”. Rimanere nei limiti di questa tolleranza e ciò che è generalmente chiamato

3 Agnes Heller direbbe che non c’è più nulla scritto sulle nostre culle. 4 BaumanZ., (2003), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari. 5 HellerA. (1994), Etica generale, il Mulino, Bologna, pp. 66-67.

“normalità”. E, nel caso in cui si rimanga nella normalità, si potrà avere an- che un mutuo riconoscimento6.

Agnes Heller e Zygmunt Bauman non sono gli unici autori ai quali fare riferimento, ma ci sembravano i più idonei ad introdurre l’argomento per- mettendoci di esplicitare al contempo il quadro teorico dal quale lo si pren- de in considerazione. La raccolta delle storie di vita, infatti, richiede che siano rispettate precise regole metodologiche, innanzitutto che sia dominata la dipendenza dal contesto, ossia, anche se il lavoro viene portato avanti da una soggettività che si confronta con un’altra soggettività, il risultato deve essere riproducibile, «non giustificato dall’autorità di chi lo produce come unico criterio di validazione»7. Dunque un dato può rivelarsi degno di nota in virtù della sua frequenza, misurabile statisticamente, ma il suo diventare protagonista della discussione sull’argomento e i parametri utilizzati per l’interpretazione dello stesso rinviano alle domande di senso della soggetti- vità che chiosa il questionario8.

Come pure oggetto di scelta è la chiave di lettura, che noi utilizzeremo, che richiama l’immagine del pendolo dal momento che anche nel nostro di- scorso vorremmo salvaguardare un’ambivalenza. La bibliografia sociologi- ca già da qualche tempo suggerisce che l’approccio al tema dello straniero, nello specifico con gli immigrati che incontriamo nel nostro quotidiano, debba avvenire nell’ottica dell’intercultura piuttosto che in quella del mul- ticulturalismo9, ciò significa che le differenze vanno riconosciute ed even- tualmente valorizzate all’interno di un contesto definito da principi primi e da un fine ultimo che non possono essere messi in discussione: i diritti umani e la democrazia. Preferire un approccio all’altro non è questione di gusto personale, può infatti accadere che sulla carta alcune teorie possano sembrare suggestive ma poi messe in pratica, nel nostro caso tradotte in re- gole per gestire la convivenza, si rivelino non solo infruttuose ma addirittu- ra pericolose. Sappiamo10 che pensare la differenza come un valore di per sé, sostenendo perciò l’impossibilità di pronunciare giudizi su una cultura per non cadere nell’etnocentrismo, ha due gravi conseguenze: da una parte il “diversificio”11, cioè se ogni differenza è un valore, chiunque rivendica il diritto di arroccarsi nella propria specificità compromettendo o perfino in- terrompendo il dialogo con altri; dall’altra, quando ci sono casi di violazio- ne dei diritti umani dobbiamo mettere a tacere il nostro senso della giusti- zia, privandoci degli strumenti per difendere colui che è oppresso. Può darsi

6 Ivi, p. 76.

7 GiudiciniP.(2007), Nuovo manuale della ricerca sociologica, FrancoAngeli, Milano,

p. 365.

8 SciarraE. (2007), Epistemologia e società, Sigraf, Pescara.

9 Spedicato E. (2003), Attori e segni di una regione “discreta”, Tinari, Villamagna

(Ch.), pp. 511-526.

10 SartoriG.(2000), Pluralismo Multiculturalismo e Estranei, Rizzoli, Milano. 11 Ivi, p. 107.

il caso che la stessa vittima non giudichi la sua vicenda dal punto di vista dei diritti umani ma ciò non esime noi dal riferirci a lei come essere umano le cui vita e libertà meritano rispetto12.

Questo presupposto fornisce un quadro di riferimento formale e raziona- le ma la prossimità con lo straniero suscita anche reazioni dettate dalla par- te affettiva dell’uomo. La cultura ci insegna a controllare emozioni e senti- menti facendo prevalere la ragione, i cui dettami risultano più equilibrati e ponderati rispetto agli impulsi, tuttavia se essi venissero del tutto messi a tacere andrebbe smarrita la possibilità di provare compassione ed empatia e di esercitare quella indiscrezione necessaria per abbattere la barriera fra “noi” e gli “altri”, grazie alla quale, come Terenzio, possiamo affermare:

homo sum: umani nihil a me alienum puto13. È una curiosità che spinge a

chiedere agli altri chiarimenti sui loro modi di essere e di fare e che quindi può generare di rimando un diverso modo di considerare se stessi, i propri usi e costumi. Il confronto è, infatti, un’occasione per mettere in discussio- ne la cultura di appartenenza, attraverso di esso vengono, infatti, valutate le risorse che essa possiede per rispondere a incoerenze interne o scaturite dal raffronto con alternative, ed è fondamentale per mantenere quella cultura “viva”, perché lascia sussistere la sua perenne incompiutezza14.

A questo punto analizziamo le risposte ricavate dai questionari in merito al nostro argomento.

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