1. La provincia di Chieti: un territorio inclusivo? di Simonetta Secondin
1.4. Lavoro e potenziale d’integrazione
Nel quadro appena descritto, è da sottolineare che la regione sembra esprimere un alto livello di attrattività per coloro che raggiungono il suo territorio. È quanto documenta il IX Rapporto del CNEL che colloca l’Abruzzo al quinto posto nella graduatoria fra le regioni italiane di fascia alta nel potenziale di integrazione degli immigrati: occupa, infatti, laposi- zione più eminente della graduatoria fra tutte le regioni centro-meridionali del paese sul versante dell’inserimento sociale ed economico: 60,2 (sebbe- ne il primo sia più vistoso del secondo: 57,3 versus 63,1) ed è preceduta soltanto da Piemonte, Emilia-Romagna, Liguria e Friuli Venezia Giulia22.
Ad una lettura di maggiore dettaglio, emerge che fra le quattro province abruzzesi quella di Teramo presenta il più alto potenziale d’integrazione con un indice di 64,3, collocandosi al 7° posto nella graduatoria nazionale. Il territorio di questa provincia sembra, infatti, offrire condizioni sociali ed economiche particolarmente favorevoli a chi approda nel suo territorio, ve- rosimilmente anche per la presenza di un tessuto imprenditoriale di piccole e medie aziende che fluidifica gli ingressi e le permanenze. Per converso, le altre province abruzzesi presentano potenziali più bassi: Chieti occupa la 41ª posizione con un indice di 59,2; L’Aquila la 47ª con 58,2 e Pescara la 53ª con 56,9.23
Sebbene, come si accennava, l’inserimento sociale giochi un ruolo più forte a fronte di quello occupazionale, non può negarsi che l’occupazione straniera (cresciuta, negli anni, a differenza di quella autoctona più stagnan- te), pur mostrando oggi segni di sofferenza a seguito degli effetti della re- cessione economica di questi ultimi anni, conferma la sua tenuta (tab. 4) .
Tab. 4 – Tasso di occupazione in Abruzzo degli stranieri e degli autoctoni negli anni indicati
Anni Stranieri Autoctoni 2008 67,1 59,0 2009 64,5 55,7 2010 63,1 55,5 2011 62,3 56,8 2012 60,6 56,8
Fonte: Istat. Lavoro 2012
22 Di Sciullo L. (2013), “Il potenziale d’integrazione dei territori italiani nel 2011” in IX
Rapporto CNEL, Indici di integrazione degli immigrati in Italia, Roma, p.11. Il CNEL, at- traverso una scala di misurazione che va da 1 a100, fornisce sulla base di una griglia d’indicatori il grado di attrattività che un territorio esercita sugli stranieri sul versante dell’inserimento sociale ed economico. La media fra l’indice d’inserimento sociale e l’indice di inserimento occupazionale consentono di suddividere i territori del paese nella fascia alta, media e bassa.
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Una tenuta, tuttavia, non priva di coni d’ombra, legata alla circostanza che soprattutto le imprese continuano a privilegiare le posizioni temporanee a scapito di quelle permanenti e, dunque, insistono nell’adozione di «un modello di sviluppo che ha incautamente imboccato una “via bassa”, pun- tando sulla contrazione del costo del lavoro più che sull’innalzamento della produttività. È l’esito della scelta, economicamente miope e socialmente imprudente, di avere incoraggiato l’arrivo di immigrati intenzionati ad in- stallarsi in maniera definitiva senza interrogarsi sul loro destino umano e lavorativo, e in particolare sulle prospettive di mobilità e sviluppo profes- sionale e sulla possibilità di fare leva sulle loro competenze per la creazione di valore aggiunto»24.
Questa tendenza viene confermata anche dalle rilevazioni dei Centri per l’Impiego e delle Comunicazioni Obbligatorie. Gli uni e gli altri sottolinea- no, appunto, l’esistenza di un “doppio mercato del lavoro”, nel quale le op- portunità di occupazione della componente straniera a fronte della stagna- zione e della gracilità di quella autoctona è, per più di un verso, l’esito dell’orientamento (peraltro già consolidato da anni) delle imprese abruzzesi dell’industria e dei servizi ad assumere personale immigrato a tempo de- terminato, ad alta adattabilità alle condizioni di lavoro, incline a non recla- mare canali di mobilità lavorativa e a sostare senza turbolenze nelle aree di approdo lavorativo25. Ovvero, e detto altrimenti, la manodopera immigrata viene congelata in specifici settori economici (nelle attività manifatturiere, in quello delle costruzioni e dei trasporti) ed è segregata nei segmenti più bassi: ossia nelle posizioni corrispondenti ai lavori manuali e a bassa quali- ficazione, i cosiddetti “lavori da immigrato”. Conferma quanto appena det- to il Rapporto Annuale 2013 dell’Istat dal quale si evince, attraverso i risul- tati dell’applicazione di modelli logistici, che «a parità di sesso, età, riparti- zione territoriale di residenza, livello d’istruzione, ruolo in famiglia, settore occupazionale, regime orario, posizione e anni di esperienza lavorativa, uno straniero presenta una probabilità di trovare un’occupazione non qualificata sette volte più alta di un italiano con le stesse caratteristiche. Le difficoltà di pieno inserimento nel mercato del lavoro della popolazione immigrata si inaspriscono per le donne: la probabilità per le straniere di lavorare nei segmenti occupazionali caratterizzati da bassi skill è nove volte superiore a quella delle italiane»26.
Riscontrare la concentrazione degli immigrati nei mestieri meno attratti-
24 Caritas/Migrantes (2013), XXIII Rapporto Emigrazione, p. 14.
25 In tale ambito è da sottolineare, all’interno della componente straniera della forza-
lavoro, l’aumento degli occupati comunitari, mentre resta stabile quello riferibile agli extra- comunitari. Cfr. su questo tema, per esempio Spedicato Iengo E. (2008), “L’immigrazione straniera in Abruzzo tra nodi irrisolti e strategie inclusive”, in Immigrazione, inclusione e
lavoro in Abruzzo, Abruzzo Lavoro, Osservatorio Regionale Inclusione Sociale e Povertà,
pp. 15-33.
vi dal versante del prestigio sociale e, da non escludere, anche da quello delle condizioni retributive e di tutela, conferma l’ipotesi del “consolida- mento del processo di etnicizzazione dei rapporti di impiego le cui cause vanno probabilmente oltre le stessa selettività dell’offerta autoctona”27. Per- tanto è lecito ritenere che il ricorso alla manodopera straniera più che costi- tuire la risposta pertinente ad aggirare la difficoltà di reclutamento di per- sonale italiano, obbedisca piuttosto ad una strategia di flessibilità difensiva delle aziende che, attraverso la possibilità di attingere a questo serbatoio di manodopera assicurano senza particolari costi il loro livello produttivo.