di Vittorio Lannutt
7. Chi mi è straniero? di Claudia Rapposell
7.2. Il gioco dei pregiudiz
Se ora esaminiamo le interviste alle testimoni rintracciando i rimandi all’appartenenza nazionale17 loro e dei loro interlocutori nei paesi ospiti, sembra di assistere ad un gioco in cui i pregiudizi rimbalzano nei campi del noi/loro respinti con egual impeto dalle due squadre antagoniste. Prendia- mo ad esempio in considerazione i rapporti fra queste donne con i conna- zionali e il paese di origine, cosa recepiscono di quanto viene detto di loro quali immigrate e come a loro volta giudicano gli italiani.
Ci sono molte donne che ammettono di provare vergogna a dichiarare di far parte di un’etnia, nello specifico marocchina, albanese e soprattutto ru- mena, in quanto i propri connazionali hanno assunto comportamenti ritenuti disdicevoli, oltre che spesso sanzionabili dal punto di vista del Codice, tan- to che hanno gettato ombre sull’intero gruppo al quale appartengono:
Gli italiani pensano che i rumeni sono tutti zingari. So benissimo che i rumeni hanno fatto del male in questo paese; si sono comportati come gli ultimi uomini della terra senza educazione. Gli italiani devono sapere che sono quelli che sono scappati dalle galere, hanno fatto quello che sapevano fare: rubare, ammazzare. […] Preferisco non parlare rumeno perché mi vergogno18. (Daina, Romania)
Al giudizio negativo degli autoctoni perciò si associano le stesse conna- zionali le quali lamentano anche il fatto che molti uomini non lavorano, al- zano le mani e bevono alcolici. In particolare l’alta percentuale di donne rumene divorziate avalla l’ipotesi che gli uomini che provengono da questo paese abbiano riproposto nella nazione ospite modalità di comportamento a causa delle quali erano ritenuti poco affidabili già in patria. Degna di nota è anche la necessità che alcune donne hanno di precisare quanto siano diver- se, più raffinate nei modi, loro che hanno vissuto, nel periodo in cui erano nel paese d’origine, in città rispetto a quante provengono dalla campagna:
Noi che siamo cresciute in città abbiamo un’altra mentalità. Siamo abituate ad essere rispettate. Sono cresciuta nell’alta società e sono stata tra le persone educate, mentre quelle altre rumene sono cresciute in campagna, si riconosce il loro modo. […] Preferisco mille volte che non ci sono. Preferisco parlare con tutti i tipi di stranieri che non con rumeni. Questa mattina, quando sono andata a lavoro, una rumena mi ha detto di mettermi vicino a lei e strillava forte e faceva domande. Hanno un carattere diverso, noi siamo tranquille e più riservate. Anche se abbiamo problemi , non andiamo in giro a lamentarci. Chiediamo rispetto. Loro si lamenta- no sempre e parlano forte. Noi parliamo piano, non tutta la gente deve sapere. (Graziela, Romania)
17 In questo caso il riferimento allo Stato-nazione permette di tracciare i confini del den-
tro/fuori da una specifica cultura.
D’altra parte, queste affermazioni negative sui conterranei sono contro- bilanciate dall’idealizzazione della famiglia di origine; e laddove i rapporti con i genitori, il padre in particolare, sono descritti come problematici, al punto da lasciare dolorose cicatrici psicologiche o fisiche, vengono ricorda- ti i nonni, che spesso hanno assunto il ruolo di adulti di riferimento prima- rio. Si rintraccia nell’argomentazione il bisogno di farsi forza su un aspetto positivo della propria origine come base per la definizione identitaria, biso- gno che si esprime sovente anche nella nostalgia del paese lontano. Infatti, nella maggior parte dei casi le ragioni che hanno fatto decidere per la stra- tegia migratoria vengono ricondotte a questioni economiche, soprattutto per le donne più mature, è per l’appunto di primaria importanza la ricerca di una soluzione per provvedere ai figli e/o ai nipoti; tuttavia sono rari i casi in cui il lavoro all’estero sia in vista di un progetto preciso da realizzare in pa- tria con la prospettiva del ritorno, eccetto qualche testimone con l’obiettivo di acquistare o ristrutturare un’abitazione, oppure di finanziare un’attività commerciale. Ciò a dimostrare l’ambivalenza di atteggiamento nei confron- ti di una situazione che spezza dolorosamente legami umani, ma al contem- po rappresenta una possibilità di ottenere il riconoscimento della propria autonomia e il rispetto della libertà di scegliere, a differenza di quanto ac- cadeva nella situazione precedente in cui spesso erano soggette a vedersi imporre finanche la persona da sposare.
Le attese però si realizzano soltanto in parte. Infatti, se si esaminano come sono vissuti i rapporti con gli italiani sembra utopistico parlare di “in- tegrazione”, anche in casi di anzianità migratoria, di buona conoscenza del- la lingua e della cultura italiana, di successo economico: il dualismo noi/loro resiste quale presupposto della relazione. Essere migrante “desti- na” ad appartenere ad uno status diverso, che varia in funzione del peso della nazione di appartenenza nelle transazioni internazionali e della nic- chia lavorativa che le migranti sono solite occupare. Infatti, in primo luogo un ostacolo si rintraccia nella percezione da parte delle donne immigrate di essere prese in giro a causa dell’uso improprio della lingua e per l’accento, se non addirittura nel sentirsi descritte attraverso il preconcetto secondo cui il provenire da alcune nazioni comporti necessariamente indigenza econo- mica, un bassissimo livello d’istruzione e limitate capacità intellettive:
Ho notato la chiusura delle persone perché mi facevano delle domande ridicole, a volte mi chiedevano se sono venuta dall’estrema povertà o se so come accendere una lavatrice. (Izabela, Polonia)
Ciò risveglia una sorta di orgoglio nazionale se hanno l’occasione di dimostrare che loro possono essere anche più “in gamba” degli autoctoni, come quando, secondo gli esempi riferiti, frequentando un corso di estetista o la scuola guida, non solo riescono a superare le difficoltà linguistiche ma
risultano anche essere le più brave:
I primi tempi non parlavo ma poi, quando è nato mio figlio ed è andato all’asilo, ho fatto un corso da estetista gratis della regione, almeno per imparare di più l’italiano. Quando non riuscivo a spiegare le materie, i primi anni, i professori mi ac- cettavano e mi dicevano: “calma, ti aspettiamo”, ma i miei compagni italiani mi di- cevano: “se non sai l’italiano, che ci sei venuta a fare qua?” Io mi innervosivo perché non sapevo parlare italiano. Altri parlavano male dietro la schiena: “perché si è iscritta a questo corso!”. Io sentivo e capivo. Non sapevo scrivere, trovavo difficoltà a scrivere “s” e “z”. Ho pianto molto perché mi colpiva la loro risposta e pensavo: “non vado più perché non riesco”. Con la forza io mi sono detta: “devo finire anche per far vedere loro che non sono peggio di loro” e mi sono fatta forza. (Olga, Ucrai- na)
E un feedback positivo abilita molte a pronunciare a loro volta giudizi sugli italiani. Sono, infatti, poche le donne immigrate che confermano il leit
motiv che vuole gli abitanti del Bel Paese gente calorosa e generosa, nella
maggior parte dei casi si dice che sono falsi, appunto in quanto parlano ma- le alle spalle, freddi e “nazionalisti come i tedeschi”.
Inoltre, ci sono molte concordanze nelle descrizioni dei nostri giovani: immaturi, perché trascorrono la loro esistenza pensando che la vita sia una sorta di gioco, e viziati perché hanno tutto e ritengono dovuto il soddisfa- cimento di ogni loro richiesta:
I miei compagni di classe hanno avuto una vita troppo semplice e non hanno il valore delle cose e l’intelligenza di dare un valore a tutto. Secondo me le ragazze sono cretine, si vede da come parlano, da come camminano. Io osservo tutto, lo ca- pisco e lo sento che sono stupide. Anche il rispetto di dare del lei agli adulti se non li conosci, già questo dà tanto da pensare. Per esempio, non vogliono studiare e an- dare avanti, non danno importanza alle cose e non pensano al futuro perché credo- no che la vita è un gioco e giocano. Io non le lascio avvicinare perché non mi sono simpatiche. È stupido quello che fanno, si mettono a fare i dispetti, strillano quando tutti stanno in silenzio, si buttano uno sopra l’altro senza interessarsi se fanno male. Secondo me il problema è dei genitori, adesso questa generazione lascia troppo li- beri i figli che dovrebbero avere un po’ di restrizione su di tutto e non hanno il va- lore delle cose perché i genitori gli hanno dato tutto. (Gabrieles, Venezuela)
Ma soprattutto sono colpite dalla maleducazione che si esprime nel non portare rispetto agli insegnanti, agli anziani e, in modo particolare, ai geni- tori. È indubbio che in questo modo viene messo sotto accusa tutto il siste- ma educativo italiano in cui i figli sono al centro degli interessi del nucleo familiare, alcune volte a discapito dello stesso e degli altri componenti, provocando squilibri relazionali aggravati dall’incapacità dei genitori di porsi come riferimenti autorevoli che sappiano dare indicazioni e far rispet- tare le regole; genitori che quindi vengono ritratti come figure che non han-
no più consistenza di un budino! D’altro canto è interessante rilevare che molte intervistate hanno al contempo dimostrato di apprezzare l’affidabilità dei mariti italiani che provvedono in modo responsabile alla famiglia, par- tecipano alla gestione dei figli, aiutano nelle faccende domestiche e non so- no soliti bere. Dunque, sembrerebbe che una maggiore responsabilità sia attribuita alle madri, esprimendo così anche una sorta di rivalità di genere alla quale le italiane rispondono, in un’inconscia controffensiva, accusando le donne immigrate di essere delle “ruba mariti”:
Sentivo spesso dire che le straniere rubano i mariti, i fidanzati e gli uomini; all’inizio me lo dicevano in faccia che siamo “sfasciatrici delle famiglie” o che “vado con gli uomini sposati e li seguo e li rubo”. Poi ho sentito spesso dire: “l’Italia è per gli italiani. Le straniere sono delle prostitute e vanno con tutti, basta che trovi uno ricco e con i soldi e la sistemazione”. (Olga, Ucraina)