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Società autonoma, pregiudizi culturali e rapporti interpersonal

di Vittorio Lannutt

7. Chi mi è straniero? di Claudia Rapposell

7.1. Società autonoma, pregiudizi culturali e rapporti interpersonal

“Edoxe te boule kai to demo”. Secondo Castoriadis1il passo verso l’autonomia della società fu compiuto dai greci quando hanno cominciato a far precedere le loro leggi dal preambolo “sembra giusto” invece che da “è giusto”. Se, infatti, tutte le società creano i propri ordinamenti, una società diventa autonoma quando ammette esplicitamente la sua origine umana. Ciò comporta da una parte che le istituzioni non derivano la loro validità dall’eredità sacra di decisioni prese dai mitici fondatori e quindi possono essere sottoposte a valutazioni e revisioni, d’altra parte che si rifiuta il mito di una società perfetta quale punto di arrivo, dal momento che ogni crea- zione umana deve fare i conti con il suo attributo congenito della precarie- tà2.

D’altra parte, «It is a truth universally acknowledge that…»3. L’incipit di Orgoglio e pregiudizio ci suggerisce che in ogni cultura troviamo degli assunti vissuti dalla gente comune in modo non problematico e che, stabi- lendo la “norma”, hanno un effetto rassicurante perché esimono il soggetto da assunzioni di responsabilità in merito. Infatti, il solo ipotizzare questi capisaldi quali frutto di una costruzione sociale presupporrebbe il coraggio

1Sembra giusto al consiglio e al popolo”. Castoriadis C. (1998), L’individu privatisé,

«Le Monde diplomatique», febbraio; e Id. Democracy as Procedure and Democracy as Re-

gime, «Constellations», 1, 1997. Cfr. anche Bauman Z. (2004), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, pp. 139-142

2Per quanto riguarda il primo punto, Agnes Heller afferma che è proprio della democra-

zia liberale «non considerare sacra nessuna istituzione, tutto è aperto al cambiamento, tutti possono “negare” tutto». Heller A.(1999), Dove siamo a casa, FrancoAngeli, Milano, p.104. Per quanto riguarda il secondo argomento, è una delle caratteristiche del nostro tempo “postmoderno” aver rifiutato, insieme all’idea di progresso, la convinzione di una redenzio- ne ultima. Cfr. ivi, pp.115-116.

3 La traduzione italiana a cura di I. Maranesi è la seguente: «È cosa nota e universalmen-

di affrontare anche una critica al sistema nel complesso, ossia che venga modificato lo scenario all’interno del quale si è soliti modellare il proprio modo di sentire, pensare e decidere il corso di azioni da intraprendere. Dunque, ci chiediamo se sia possibile osservare una cultura e identificare quali siano questi assunti, le sue caratteristiche fondamentali, in modo da rintracciarne il carattere relativo e ipotizzare la ragione per cui esso venga sottaciuto.

Dal momento che l’abbiamo citata, prendiamo in esame proprio il caso di Jane Austen. Noi sappiamo che la sua vita reale si svolgeva nello stesso ambiente in cui sono collocati i personaggi dei suoi romanzi, ciononostante riesce a mantenere la distanza opportuna per farne un ritratto. È proprio questa capacità che la rende una grande scrittrice: come un pittore fa di un autoritratto un capolavoro se i tratti risultano significanti, oltre che per se stesso, anche per gli spettatori4, così è geniale quella auto-rappresentazione letteraria che intuisce e decodifica le idee che informano l’ambiente, che ne definiscono la struttura, l’identità; idee che dovrebbero essere custodite nell’equilibrio fra la loro funzione caratterizzante e la disfunzionalità del loro eventuale irrigidimento in pregiudizi.

Ma poniamo l’eventualità che il pittore si cimenti con il ritratto di un uomo che fa parte di un’altra cultura, magari con tratti somatici peculiari, o che lo scrittore si avventuri nella descrizione di un ambiente diverso dal suo, dal punto di vista sincronico o diacronico: quanti sarebbero tentati di andare a cercare eventuali distorsioni o falsificazioni in base al presupposto che ogni forma di narrazione che abbia per oggetto l’altro sia di necessità inficiata, dal momento che la diversità la si può guardare soltanto «attraver- so la lente d’ingrandimento dei propri pregiudizi?»5.

Quindi possiamo affermare che il rischio di un’osservazione distorta minaccia sia l’interpretazione della nostra cultura quanto quella di realtà diverse; i pregiudizi possono presentarsi in entrambi i casi e viziare la com- prensione. Così come si può essere capaci di preservare la distanza in en- trambi i casi. Ciò ci permette in primo luogo di sfatare due errati presuppo- sti ermeneutici: le osservazioni non sono necessariamente più attendibili e colgono meglio la realtà quando il ricercatore è parte integrante del suo og- getto d’indagine, né d’altronde lo studio è più oggettivo, perché c’è un mi- nore coinvolgimento emotivo, se egli si rivolge a qualcosa di non familiare. Ma soprattutto ci consente di affermare che il pregiudizio ha un ruolo molto

4 ArendtH.(1982), Teoria del giudizio politico, Il melangolo, Genova 2005. Rispetto a

quanto l’autrice dice riguardo il criterio della pubblicità: il genio è colui che produce opere d’arte grazie alla creatività della sua immaginazione, tuttavia egli si subordina al “gusto”, la legge dell’intelletto che, attraverso l’ampliamento del pensiero e la sua generalità, rende possibile paragonare il suo giudizio con i giudizi effettivi e possibili degli altri e, quindi, comunicabile l’ispirazione dello spirito; ed è proprio la comunicabilità la conditio sine qua

non dell’esistenza di oggetti belli. 5 Heller A., op. cit., pp. 135.

importante nella definizione di una cultura e contribuisce a costituire nuclei valoriali intorno ai quali si aggregano i soggetti che ne fanno parte, ciò nondimeno, ad uno sguardo non ingenuo si rivela anche come un ostacolo alla conoscenza.

A questo punto riteniamo necessario per la nostra argomentazione pren- dere in considerazione ancora un dato, Remotti ci ricorda che la lontananza e la separazione non sono il fatto originario ma derivano da una situazione di “intrinsecità” degli altri rispetto a noi6. Infatti, se l’essere umano è in- completo sul piano biologico perché possiede un limitatissimo corredo istintuale, egli, insieme al gruppo con cui vive e in base all’ambiente in cui risiede, è necessitato ad escogitare i modi con cui rispondere ai suoi bisogni operando delle scelte fra varie opzioni, e proprio queste scelte saranno quindi alla base di una cultura particolare e del sistema di organizzazione sociale. Quindi è vero che ogni cultura si distingue per alcune sue caratteri- stiche peculiari ma, precedentemente alla pluralità delle forme specifiche, si intravede una radice comune ed è questo il motivo per cui la differenza ci attrae e ci spaventa7: l’altro è sia il termine attraverso il quale configuriamo negativamente l’identità, individuale e di gruppo, sia un’occasione di con- fronto e di valutazione8. Possiamo perciò tirare le fila del discorso affer- mando che ogni cultura si distingue in base alle scelte operate in merito alle modalità di rispondere ai bisogni dei propri membri e, dimentica della sag- gezza dei greci, le assolutizza al fine di provvedere una parvenza di sicu- rezza9 riguardo le relazioni, evitando un’eccessiva conflittualità e quindi la disgregazione.

Per cui possiamo dedurre che l’alternativa non è tanto fra interno ed esterno, bensì tra la chiusura e «l’invito ad un viaggio dove non sappiamo in anticipo con chi ci incontreremo, se sapremo riconoscere – come fecero Ifigenia e Oreste – i nostri fratelli e le sorelle in mezzo agli stranieri»10.

Inoltre, consideriamo un’altra circostanza: può capitare di trovarsi co- stretti a prendere atto dell’estraneità anche di coloro che consideravamo più prossimi?

«Mais tu as eu longtemps l’avantage de croire qu’un cœur comme le mien t’était soumis. Nous étions tous deux heureux: tu me croyais trompée, et je te trompais»11.

6 Remotti F. (1992), “L’essenzialità dello straniero”, in Bettini M. (a cura di), Lo stra- niero. Ovvero l’identità culturale a confronto, Laterza, Roma-Bari, pp. 31-33.

7 Cfr. sui concetti di mixofobia e mixofilia in particolare Bauman Z. (2007), Modus vi- vendi, Laterza, Roma-Bari.

8 Remotti F., op.cit., p. 25.

9 Bauman Z. (2003), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari. 10 Ibidem, pp. 144-145.

11 La traduzione italiana a cura di J. Starobinski è la seguente: «Ma tu hai avuto a lungo

Con queste parole si chiudono le Lettere persiane, un testo in cui il cen- tro della scena dovrebbe essere occupato dalla descrizione dei costumi, fi- losofici, politici, religiosi e morali di una parte del mondo ad opera di un “chi” che proviene da un “altrove”. I protagonisti sono, infatti, due persiani che visitano il cuore dell’Occidente del XVII secolo, Parigi, e descrivono le

loro esperienze di incontro con persone che esprimono o testimoniano idee e usanze che ai loro occhi appaiono quanto meno bizzarre. In questo modo si configura una sorta di “esotismo rovesciato”12 sia perché essi fanno a ri- troso il percorso dei voyageurs europei ma soprattutto per il motivo che, a differenza di quanto solitamente accade, «la Persia è il luogo delle certezze rassicuranti, dei segni riconoscibili, della lingua comprensibile» mentre l’Europa diventa la terra dei barbari, di stranieri che suscitano perplessità e inquietudine.

Con questo stratagemma Montesquieu costruisce per il lettore quella di- stanza, di cui abbiamo detto, che gli permette di assumere una prospettiva inconsueta, un punto di vista inedito, dal quale gli è possibile osservare la sua stessa cultura europea o, ancor più precisamente, parigina. Grazie a ciò abbiamo un esempio di quanto affermato in linea teorica sul pregiudizio: gli assunti che fino ad allora aveva potuto considerare alla stregua di “dati na- turali” adesso vengono smascherati nel loro carattere relativo: i modi di pensare, vivere, sentire sono passibili di critica, dal momento che ad occhi altrui si rivelano paradossali e contraddittori. E Usbek, il protagonista, si impegna a mettere a frutto l’occasione di conoscenza, che gli è offerta dal suo viaggio-esilio, sulla base del presupposto che si giunga a conoscenza non cercando somiglianze e analogie bensì attraverso la comparazione, il mettere a confronto procedendo per identità e differenze. Ma l’ottimismo che sottende la storia, ottimismo conseguente alla fiducia che la ragione possa analizzare e spiegare la realtà, si incrina a causa di una vicenda per- sonale; il mondo affettivo degli uomini sembra sfuggire a questo approccio, è un luogo che resiste alla razionalità. Usbek, infatti, viene tradito, con un inganno continuo e consapevole, da Roxane che, fra le cinque mogli del suo harem, era quella da lui ritenuta più fedele e virtuosa. E la reazione di colui che si descriveva come uomo di cultura aperto e tollerante, esiliato perché non sopportava ipocrisie e intrighi di corte, capace di irridere a fana- tismi e dispotismi, è quella di ordinare la punizione capitale. Esercitando il potere assegnato al suo status, si trasforma in tiranno mentre Roxane, er- gendosi lei a vera paladina di libertà e ribelle nei confronti del potere costi- tuito e della tradizione, si sottrae alla punizione suicidandosi.

Da questa lunga premessa quale lezione possiamo trarre per il nostro ar- gomento? Chi abbia intenzione di approfondire il tema dell’immigrazione

felici: tu mi credevi ingannata e io ti ingannavo». C.L. de Montesquieu, (2010), Le lettere

persiane, Mondadori, Milano, p. 278 (Lettera CLXI).

molto probabilmente si imbatterà in analisi dei push-pull factors, delle pro- blematiche innescate dal fenomeno nei paesi d’approdo: discussioni sulle reazioni degli autoctoni in termini di razzismo, xenofobia, tolleranza, ri- spetto. Inoltre, solitamente, vengono proposte alternative all’interno delle quali prendere posizione: assimilazione, incorporazione, multiculturalismo, pluralismo o, visti i fallimenti dei paradigmi precedenti, è auspicato un ap- proccio nell’ottica dell’intercultura, che ci ricorda che l’uomo viene prima delle sue appartenenze e perciò le basi per la convivenza sono assicurate dalla salvaguardia dei diritti umani e del valore della democrazia, prima che dalla valorizzazione della differenza. Tuttavia Montesquieu ci ha detto che la distanza che separa europei e persiani non è nulla in confronto a quella che può frapporsi fra due coniugi; cioè l’inganno nel giudizio sull’altro non trova giustificazione nella diversa appartenenza culturale, bensì nel mistero che è per noi ogni persona, essa resterà sempre oltre ogni sguardo, anche di quello del compagno più intimo13. E, dunque, le difficoltà di dialogo con l’altro sembrano non dipendere soltanto dalle diverse appartenenze culturali quanto dall’unicità di ogni essere umano.

A questo punto proponiamo la nostra ipotesi: per parafrasare Zygmunt Bauman14, non è tanto che l’estraneo è un bersaglio sostitutivo sul quale scaricare la responsabilità delle nostre incertezze dovute al nuovo contesto nel quale sono gettate le nostre esistenze, la modernità liquida, quanto è il bersaglio verso il quale spesso storniamo le insoddisfazioni e le delusioni dovute all’essere costretti a fare quotidianamente i conti con “l’estraneità” che alberga in tutti coloro con i quali ci relazioniamo. Chi mi è più estra- neo: il marito che incontro in tribunale per discutere la causa di separazio- ne, la vicina di casa che conosco da quarant’anni e invoca la giustizia divi- na15 per ogni mio presunto reato contro il regolamento condominiale, oppu- re la signora cinese che evita qualsiasi forma di dialogo-confronto ma co- munque è sempre gentilissima ogni volta che entro nel suo negozio?

È straniero il lontano quanto il vicino dal punto di vista culturale perché straniero è colui che per noi è incomprensibile, con il quale difetta la co- municazione, chi vive in un mondo che non ha contiguità con il nostro, pre- senta tratti somatici o modi di pensare e caratteristiche della personalità che fuoriescono dalla misura ritenuta “giusta”16.

13 Ad esempio come ci suggerisce la riflessione filosofica di E. Levinas. 14 Bauman Z. (2007), Modus Vivendi, Laterza, Roma-Bari.

15 Sartori spiega la difficoltà di integrare in una società liberal-democratica persone mus-

sulmane a causa della loro visione teocratica della società ma difficoltà simili si hanno nel dialogo con fondamentalisti cattolici e di altre confessioni minoritarie come i testimoni di Geova. Cfr. Sartori G. (2000), Pluralismo Multiculturalismo e Estranei. Saggio sulla società

multietnica, Rizzoli, Milano.

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