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Autonomia o indipendenza? La nuova collocazione della Romania nel quadro internazionale

Capitolo III: Esordi e sviluppi del comunismo nazionale

3.5 Autonomia o indipendenza? La nuova collocazione della Romania nel quadro internazionale

Se si esula dalle dinamiche strettamente pertinenti al confronto russo-sovietico, possiamo affermare che il nuovo corso della politica romena ebbe un carattere prevalentemente bidirezionale, rivolto, ossia, al consolidamento delle relazioni con i regimi ‘eterodossi’ del blocco socialista e ad una decisa apertura nei confronti dell’Occidente. Tale orientamento sarebbe divenuto tridirezionale dalla fine degli anni Sessanta, trovando espressione in un più esplicito impegno nel fronte dei Paesi ‘non allineati’ e nell’avvio di una collaborazione con i Paesi in via di sviluppo del continente africano e asiatico, accompagnandosi a una crescente enfasi posta sui temi della pace e del disarmo internazionale.

Per quanto riguarda il primo gruppo di interlocutori, i rapporti stabilitisi tra Bucarest e Pechino costituirono nel tempo un significativo elemento di discordia nelle relazioni romeno- sovietiche. Nel tentativo di respingere l’egemonia sovietica, il governo romeno individuò nella Cina un potente alleato politico, le cui idee condivideva almeno nell’ambito delle relazioni internazionali. Gli esordi della politica romena di avvicinamento alla Cina non furono coronati da immediato successo. Questo assunto è suffragato dalle testimonianze rese in proposito da Corneliu Mănescu (ministro degli Esteri nel periodo 1961-72) e da Ion Gheorghe Maurer, entrambi membri della delegazione che al principio del 1964 si recò a Pechino per discutere con Mao Tse Tung37. Sia Mănescu38 sia Maurer sostengono che la delegazione romena venne trattata con estrema freddezza dal leader cinese e dai dirigenti del PCC, i quali valutavano con scetticismo il cambiamento di posizione di Bucarest nei confronti del Cremlino39. Successivamente, la prosecuzione dei contatti ad alto livello tra Bucarest e Pechino e la costanza manifestata dal governo romeno nel mantenere un atteggiamento

37 Di tale delegazione, come precedentemente ricordato, faceva parte anche Nicolae Ceauşescu.

38 L. Betea, Convorbiri neterminate – Corneliu Mănescu in dialog cu Lavinia Betea, Iaşi, Editura Polirom, 2001,

p. 91

neutrale nel conflitto sino-sovietico determinarono dapprima una normalizzazione e in seguito uno sviluppo delle relazioni bilaterali tra PCC e PCR e tra i rispettivi governi 40.

L’alleato europeo della Cina nel corso degli anni Sessanta fu l’Albania, che nell’ottobre del 1961, durante il XXII° congresso del PCUS, venne “scomunicata” dalla dirigenza sovietica. In conseguenza di questa condanna, attenendosi alla comune linea assunta tra gli Stati del blocco sovietico, la Romania ruppe le relazioni diplomatiche con l’Albania, relazioni che avrebbe tuttavia ripreso nel 1963, quasi contestualmente alla conclusione di un accordo commerciale tra i due Paesi.

Per quanto riguarda le relazioni con la Jugoslavia, queste seguirono un corso sinuoso, passando da un atteggiamento di condanna e rifiuto (nel 1949 e poi nuovamente nel 1960, quando dalla tribuna del quarto congresso del PMR Gheorghiu-Dej attaccò violentemente il revisionismo titoista) all’avvio, dal 1962, di una significativa cooperazione in ambito economico tra i due Paesi. Nel 1963, Gheorghiu-Dej incontrò Tito a Belgrado, ricevendo maggiori riguardi rispetto quelli tributati a Krusciov, essendo l’unico leader comunista straniero cui venne conferito l’onore di tenere un discorso nel parlamento jugoslavo, la

Skupština41.

In sede di analisi storica rimane controverso il significato da attribuire alla collocazione della Romania ceausista nello scenario internazionale. Alcuni storici – tra i quali Vladimir Tismăneanu42, Mihai Retegan43 e David Floyd44 – ritengono legittimo, pur nel quadro dei fattori e dei limiti imposti dal contesto internazionale, adoperare la definizione di

indipendenza in riferimento alle caratteristiche della politica estera romena posteriore al 1964. Altri autori sono di diverso avviso. Sia Robert King sia Michael Shafir ritengono che l’etichetta d’indipendenza appaia inadeguata rispetto al caso romeno e adoperano rispettivamente la formula “autonomia nei limiti della tolleranza sovietica”45 e l’articolata locuzione di “autonomia espressa attraverso una strategia di simulazione della permanenza romena nella sfera sovietica” ossia, secondo Shafir, “un caso di allineamento parziale” nei confronti dell’Urss46.

40 P.Niculescu Mizil, O istoire trăită...cit., pp,27-28, 41 ibidem

42 V. Tismăneanu, “Personal Power and Political Crysis in Romania”, in 'Government and Opposition'”, n.24,

vol. 2, 1989

43 M. Retegan, Romanian Foreign Policy and the Crisis in Czechoslovakia 1968, The Center of Romanian

Studies, Iaşi, 2000

44 D. Floyd Rumania, Russia’s dissident ally, Praegers Publishers, 1965 45 R. King, History of the romanian communist party...cit, 135-136 46M. Shafir, Romania : politics, economics and society...cit., p.175

Dinanzi all’ambivalenza semantica talvolta sottesa al dibattito, Robert King stabilisce una distinzione netta tra i termini “indipendenza” e “autonomia”: essere indipendenti, nell’ambito delle relazioni internazionali, equivale per King a non essere subordinati a un’istanza esterna dotata di funzioni direttive e di controllo; tale status può essere conseguito attraverso il fermo e completo respingimento di una pregressa relazione di subordinazione. Il termine “autonomia” fa invece riferimento a un determinato grado di autogoverno - garantito o permesso da un’autorità politica suprema - il quale si attiene al perseguimento di obiettivi limitati

Michael Shafir, riferendosi specificamente al caso romeno, definisce “allineamento parziale” i rapporti che intercorrono tra due Stati - uno dei quali subordinato all’altro - nel cui ambito lo Stato subordinato persegue una politica autonoma contrassegnata dal primato degli interessi nazionali a detrimento di istanze politiche esterne. Tale politica autonoma è limitata in quanto, da un lato, nel suo ambito vengono tendenzialmente evitate provocazioni verso l’alleato più potente e, dall’altro, lo Stato parzialmente allineato rimane almeno formalmente coinvolto all’interno del contesto geopolitico dominato dallo Stato egemone. Quest’ultimo non è incoraggiato a ricorrere a un’azione militare per avere ragione sull’alleato riluttante, dal momento che le divergenze non travalicano determinati limiti e, di conseguenza, una simile azione risulterebbe controproducente in termini di rapporto costi/benefici47.

Ritenendo fondate le argomentazioni proposte da Shafir, sono dell’avviso che la politica estera condotta da Nicolae Ceauşescu – perseguendo e ampliando gli intendimenti del suo predecessore – si sia caratterizzata come una politica autonoma ma non indipendente, tenendo altresì in considerazione il fatto che la Romania ceausista rimase parte integrante del blocco sovietico e confermò nel tempo la propria adesione al Patto di Varsavia e al Comecon, pur adoperandosi con successo a limitare al minimo le obbligazioni connesse a tale adesione. Sebbene non possano essere negate né sottovalutate le azioni messe in atto in più occasioni dalla dirigenza romena in contrasto con le linee direttive promosse dall’Urss nel quadro del blocco comunista, tali azioni non posero in discussione gli interessi vitali di Mosca nell’area nè la validità del modello sovietico nel suo insieme. A questo proposito, nel valutare la politica estera romena, Robert King ha evidenziato come questa sarebbe rimasta nei limiti della tolleranza sovietica in ragione del fatto che avrebbe agito soltanto su una delle tre dimensioni della politica sovietica nell’Europa orientale, ossia sull’internazionalismo (inteso come il quadro delle relazioni tra gli Stati comunisti), senza intaccare la sicurezza (la

conservazione della bilancia del potere tra i due blocchi) e la legittimità ideologica (assicurata in Romania dal mantenimento del monopolio del potere da parte del PCR).

Per quanto attiene alla prima delle tre dimensioni della politica estera sovietica, King rileva come il PCR, nonostante il proprio orientamento attento alle tematiche nazionali, abbia continuato anche in epoca ceausista a considerare la propria collocazione all’interno del movimento comunista internazionale come una fonte essenziale di legittimazione nel quadro delle relazioni con altri movimenti e partiti politici, fossero esso riconducibili o meno a un’affiliazione politica di tipo comunista.

Per definire ulteriormente il quadro, riteniamo sia interessante menzionare un discorso tenuto dal segretario del PCR il 25 luglio del 1967 nel quale venne sollevato l’argomento delle strategie perseguite dal PCR e dal governo romeno sul piano delle relazioni internazionali. Nel suo intervento, Ceauşescu delineò una gerarchia dei Paesi con i quali il PCR intratteneva rapporti preferenziali: al primo posto vi era l’Urss, seguito dalla Bulgaria e dalla Jugoslavia. Questa classificazione venne considerata da Jowitt come una conferma di una parziale riformulazione della posizione detenuta dalla Romania nel campo socialista rispetto al periodo anteriore al 1963-64. Mentre le relazioni con l’Urss e la Bulgaria avrebbero costituito la riprova dell’impegno prioritario accordato del PCR allo sviluppo del sistema mondiale socialista, l’introduzione della Jugoslavia nella gerarchia delineata sarebbe stata la conferma del fatto che, pur permanendo un legame strategico tra Romania e Paesi del blocco sovietico, tale legame non era privo di limiti nè di riserve48.

Per quanto attiene all’aspetto della sicurezza, occorre osservare che gli interessi strategici dell’Urss in questo campo non furono messi in discussione dall’ “eresia” romena. Non privo di rilievo fu il fatto che i Paesi del blocco orientale che detenevano un ruolo strategico nell’ambito del power balance tra USA e URSS, fossero ubicati in Europa centrale (Cecoslovacchia, Polonia, RDT) piuttosto che nell’area balcanica. Distinte da questa considerazione di ordine geopolitico sono le valutazioni espresse da alcuni analisti politici occidentali – e da alcuni ex ufficiali della Securitate, come Mihai Pacepa49 - i quali negano l’esistenza di una politica estera romena connotata da obiettivi strategici divergenti rispetto a quelli sovietici. Autori come Robert Wiener si sono soffermati ad evidenziare come Nicolae Ceauşescu, utilizzando la propria immagine di ‘ribelle’ del blocco orientale, avrebbe avuto accesso al know-how e alla tecnologia avanzata di cui necessitavano i sovietici. Secondo Wiener, la politica estera ‘indipendente’ della Romania sarebbe stata, se non proprio dettata,

48 K. Jowitt, Revolutionary breakthroughs and National development...cit., pp.254-55.

quantomeno fortemente incoraggiata da Mosca, al fine di perseguire obiettivi di rilievo strategico nell’ambito della competizione economica, militare e tecnologica che opponeva il blocco comunista all’Occidente50. Sebbene qualsiasi interpretazione che individui nella politica estera romena dell’epoca ceausista un carattere ‘eterodiretto’ da Mosca tenda forse a incorrere in un eccesso di semplificazione, non va nondimeno sottovalutata la ricordata convergenza di interessi tra Romania e Russia nel settore della modernizzazione economica e tecnologica, come pure le conseguenze determinate da ciò a più livelli.

Il sostegno accordato dalle cancellerie occidentali alle scelte compiute dalla leadership romena si basò, in misura predominante, sulla persuasione che tale strategia avrebbe determinato una forte diminuzione della coesione nel campo sovietico, erodendo in misura crescente il potere detenuto dall’Urss. Il comunismo nazionale romeno si affermò e consolidò in concomitanza con importanti trasformazioni intervenute nella politica perseguita dal Dipartimento di Stato americano, dal tentativo di Kennedy di rendere più flessibili le strategie di intervento statunitense nel blocco sovietico, proseguendo attraverso l’epoca della presidenza Johnson per giungere infine con Nixon a un’esplicita politica di “differenziazione” che cessava di considerare il blocco sovietico come un monolite e individuava in Ceauşescu un interlocutore di primo piano per favorire una progressiva ‘desovietizzazione’ dell’Europa orientale51.

Per quanto riguarda la conformità della Romania al modello sovietico sul piano della sostanza e delle forme dell’esercizio del potere – in altri termini, la questione della legittimità, nella ricordata analisi proposta da Robert King – la leadership romena non destò a Mosca dubbi né preoccupazioni. I dirigenti del PCR furono coerenti assertori di un intransigente monopartitismo e di un’inflessibile centralizzazione politica, differenziandosi in ciò da un regime pur ortodosso come la Repubblica Democratica Tedesca, il quale ammise al proprio interno un pluralismo partitico, seppure di facciata52. Il monopolio politico detenuto dal PCR

50 Robert Weiner, “The US policy of differentation toward Romania” in Paul D. Quilan, The United States and

Romania. American-Romanian relations in the Twentieth century, Woodland Hills, California, 1988, p.129.

51 La strategia nixoniana nei riguardi della Romania – pur esposta a contestazioni da più parti – proseguì con

innovazioni non determinanti sotto la presidenza di Carter e Reagan. Tra i più determinati oppositori della teoria dei “comunisti buoni” (ossia coloro disposti ad assumere il ruolo di spina nel fianco dell’Urss brežneviano) vi fu David Funderbunk, ambasciatore americano in Romania durante il periodo 1981-85.Cfr. D. Funderbunk,

Pinstripes and Reds: An American Ambassador Caught Between the State Department and the Romanian

Communists 1981-1985, Washington, Selous Foundation Press,1987.

52 Nella RDT, la SED (Sozialistiche Einheitspartei Deutschland) detenne la singolare caratteristica di essere

partito di maggioranza relativa, e non assoluta. Le altre formazione ammesse nell’agone politico erano principalmente il Partito Democratico dei Contadini, il Partito Nazional-Liberale, e l’Unione democratica cristiana. Si trattava, beninteso, formazioni che operavano in un quadro di fedeltà e conformità nei confronti del regime politico tedesco-orientale. Tutte le principali decisioni adottate vennero approvate all’unanimità, con la significativa eccezione della legge sulla legalizzazione dell’aborto (approvata nel febbraio 1972 con la defezione del gruppo democratico-cristiano).

e il rifiuto opposto con costanza da Ceauşescu dinanzi a qualsiasi ipotesi di incisiva liberalizzazione sul piano interno costituirono una convincente rassicurazione per i dirigenti del Cremlino, evidenziando come l’ipotesi di una ‘normalizzazione’ dell’ ”eresia” romena attraverso l’impiego degli stessi metodi adottati contro Dubček in Cecoslovacchia sarebbe risultata inopportuna e controproducente.

Capitolo IV: i rapporti del regime con le minoranze nazionali e le confessioni