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Capitolo III: Esordi e sviluppi del comunismo nazionale

3.3 La ‘desovietizzazione esplicita’

Gli obiettivi economici annunciati durante il IV congresso del PMR, e in particolare la costruzione del kombinat industriale di Galaţi, richiedevano in misura determinante il sostegno sovietico in termini di investimenti e know-how. Gli originali accordi di cooperazione delineati in questo ambito vennero tuttavia messi in discussione in seguito all’emergere del conflitto romeno-sovietico in seno al Comecon. Nel giugno 1962, durante l’incontro tenutosi a Mosca tra i segretari di partito dei Paesi aderenti al Comecon, Nikita Khruščëv presentò - senza previa concertazione con l’insieme dei leader degli Stati interessati - i cosiddetti “principi di base della divisione socialista internazionale del lavoro”.

17La collettivazione delle proprietà agricole, iniziata nel 1949, venne dichiarata ultimata nell’aprile del 1962. A

quella data soltanto poche aree montuose non era state interessate al radicali trasformazioni produttive, dal momento che. la statizzazione del settore agricolo riguardava ufficialmente il 96% dei terreni coltivabili. Ibidem.

La proposta avanzata dai sovietici prevedeva che il Comecon acquisisse un potere di pianificazione economica sovranazionale. Tale potere si sarebbe compendiato nella facoltà di proporre ai Paesi aderenti progetti di investimenti comuni. Il coordinamento dei progetti sarebbe stato reso più efficiente tramite la preliminare attribuzione ai Paesi membri di differenti compiti e competenze in ambito produttivo. Nell’ambito di questa suddivisione, alla Romania sarebbe stata attribuita la funzione di produttore agricolo o - per usare l’espressione sprezzante adoperata da Paul Niculescu-Mizil - di “orto domestico” del Comecon19, cui spettava il compito di rifornire i Paesi industrialmente più avanzati dell’area sovietica.

I dirigenti romeni, fermamente convinti della necessità irrinunciabile di proseguire a ritmi serrati l’industrializzazione del Paese, sulla base di motivazioni ideologiche corroborate dai risultati conseguiti (la Romania aveva conosciuto tra il 1950 e il 1964 un incremento medio annuale della produzione industriale del 13,3%, certamente favorito dai bassi livelli di partenza) non potevano in alcun modo accettare un simile declassamento. Il governo di Bucarest si oppose con tenacia ai propositi sovietici, manifestando la propria esplicita opposizione nei consessi bilaterali o multilaterali ove venisse riproposta la preconizzata suddivisione internazionale del lavoro. Malgrado le pressione esercitate dal Cremlino e dai Paesi economicamente più avanzati del blocco (Cecoslovacchia, RDT), la dirigenza romena mantenne una posizione intransigente. L’esito di questa fermezza fu l’abbandono da parte sovietica dei piani di integrazione economica sovranazionale, decisione che venne formalizzata nel corso della riunione del Comecon svoltasi a Mosca nell’agosto del 196320. Il successo romeno nel respingere le pressioni sovietiche è riconducibile a numerosi fattori, tra i quali David Floyd segnala l’abilità e la determinazione manifestata dai negoziatori romeni, e in particolare da Alexandru Bârlădeanu, il quale fu l’architetto della politica economica romena negli anni sessanta21. Questo aspetto non va separato da elementi congiunturali che riportano alle difficoltà con le quali Krusciov si era recentemente confrontato sul piano internazionale (l’emersione del conflitto sino-sovietico, la tensione con l’Occidente riguardo a Berlino e la crisi dei missili a Cuba), difficoltà che avevano sensibilmente eroso il prestigio del Cremlino.

Nel corso del 1963, la deflagrazione del dissidio romeno-sovietico determinò un iniziale ridimensionamento e il successivo arresto del sostegno finanziario e logistico precedentemente accordato dall’Urss ad alcuni ambiziosi progetti di sviluppo industriale

19

P. Niculescu Mizil, O istorie trăită...cit.,p. 206, 212

20 G.Ionescu, The reluctant ally. A study of communist neocolonialism, London, Ampersand, pp.51-83. 21 David Floyd, Rumania. Russia’ s dissident allly, Praeger publisher 1965, p. 72-81

perseguiti dal governo romeno. La pressione economica esercitata dal Cremlino per indurre Bucarest a più miti consigli non sortì gli effetti sperati, dal momento che i dirigenti romeni si rivolsero risolutamente verso Occidente per ottenere aiuto finanziario e tecnico. Poco dopo la riunione di Mosca dell’agosto 1963, il governo romeno concluse con un’azienda austriaca un accordo del valore di 20 milioni di dollari per la costruzione di uno degli altoforni del

kombinat di Galaţi. In novembre, un altro contratto, del valore di 40 milioni di dollari, venne siglato con un consorzio anglo-francese cui sarebbe stata affidata un’altra sezione dell’impianto di Galaţi. Nel maggio 1964, Gheorghe Gaston-Marin – responsabile nel PCR per le questioni energetiche – guidò negli USA una delegazione del governo che pervenne ad un accordo per l’ampliamento e la liberalizzazione del commercio estero tra Romania e Stati Uniti. Questo risultato non fu conseguito ex abrupto ma rappresentò piuttosto l’esito di una strategia di medio periodo coordinata dall’ex ministro degli Esteri Ion Gheorghe Maurer. Questi, nel quadro di un’apertura diplomatica rivolta in più direzioni, pervenne, nello stesso periodo, a un accordo con la Francia per il rafforzamento delle relazioni bilaterali in ambito commerciale e culturale; simili intese vennero siglate anche con la Gran Bretagna e la Svezia22.

Non c’è dubbio che dietro il confronto romeno-sovietico relativo ai piani di integrazione sovranazionale entrasse in gioco – segnatamente nella prospettiva romena – una posta ideologica. L’obiettivo di un’accelerata industrializzazione del Paese per il governo di Bucarest non soltanto era opportuno in ragione dell’interesse nazionale, ma appariva altresì coerente con le fondamenta della pianificazione economica perseguita fino ad allora nella generalità dei Paesi appartenenti al blocco socialista. Posto dinanzi all’alternativa tra l’Unione

Sovietica e il modello sovietico sia Gheorghiu-Dej sia il suo successore scelsero risolutamente il secondo. Il processo di industrializzazione era percepito dai dirigenti comunisti romeni

more staliniano, come lo strumento per conseguire lo sviluppo interno e la creazione di una classe lavoratrice potente ma anche, conseguentemente, come mezzo per assicurare forza ed autonomia al Paese sul piano delle relazioni internazionali. Conformemente all’opinione di Kenneth Jowitt, l’industrializzazione rappresentò per Gheorghiu-Dej - stalinista di formazione - l’essenza della costruzione del socialismo in Romania, il cui inevitabile corollario avrebbe dovuto essere il rafforzamento del ruolo direttivo del partito nei confronti della società23.

22 In riferimento all’ampliamento delle relazioni culturali italo-romene nella tarda epoca dejista e durante la fase

di debutto della leadership ceausista si veda G. Caroli, La Romania nella politica estera italiana 1919-1965, prefazione di Giuseppe Vedovato, Roma, Nagard, 2009, pp. 460-515.

Katerine Verdery ha ben evidenziato24 come dietro la scelta di procedere a un’industrializzazione a tappe forzate vi fossero motivazioni pragmaticamente legate a un’esigenza di consolidamento politico delle élites dirigenti. L’autrice sottolinea come un accrescimento dei livelli di sviluppo industriale, attuato sotto la stretta supervisione statale, avrebbe infatti determinato la creazione di una più vasta e potenzialmente ricca burocrazia allocativa. Se l’industria pesante fosse divenuta appannaggio degli Stati economicamente più avanzati del blocco sovietico, sarebbero state considerevolmente limitate le risorse a disposizione del partito comunista romeno ai fini del controllo sociale. L’accentramento dirigistico delle risorse del Paese a beneficio del partito e dei suoi vertici sarebbe divenuto di conseguenza più incerto. In sintesi, per i dirigenti romeni un piano coordinato e centralizzato di industrializzazione, ponendo le premesse per un superamento delle pregresse debolezze di ordine politico e sociale, costituiva la base per l’esercizio di un efficace controllo sociale e di un solido monopolio politico da parte del PCR. Nè un approccio allo sviluppo moderatamente decentrato nè una politica economica basata sulla centralità del settore agricolo avrebbero permesso di perseguire i ricordati obiettivi in modo altrettanto incisivo. Una simile interpretazione concorre parimenti a spiegare le ragioni per le quali, a dispetto delle fluttuazioni che interessarono il processo di liberalizzazione politica, la leadership comunista romena rimase tra le meno flessibili del blocco sovietico nei riguardi dei propositi di liberalizzazione in campo economico.

Nel quadro del processo di emancipazione da Mosca, la tappa che precedette la “dichiarazione d’indipendenza” dell’aprile 1964, fu rappresentata dalla pubblicazione del cosiddetto “Piano Valev” nel febbraio del 1964. Tale piano – così ribattezzato dal nome dell’economista sovietico che ne fu estensore – racchiudeva alcune singolari proposte riguardo alla “geografia economica dei Paesi socialisti”. Era infatti prevista la creazione di una macroregione economica a carattere autonomo, non direttamente subordinata agli Stati nazionali cui appartenevano le regioni interessate, ma al tempo stesso si evidenziava l’esistenza di un rapporto chiaramente asimmetrico tra gli Stati chiamati a contribuire al progetto. A tale struttura sovranazionale, l’URSS (più precisamente, la RSS di Moldavia ) avrebbe contribuito con 1200 chilometri quadrati del proprio territorio e la Bulgaria con 38.000 kmq mentre la Romania avrebbe dovuto sacrificarvi ben 100.000 kmq, ossia poco meno della metà del territorio nazionale, nel cui ambito erano integralmente comprese le tre regioni storiche della parte meridionale del Paese (Muntenia, Oltenia e Dobrugia), e di conseguenza, lo stesso distretto amministrativo della capitale. Sotto il profilo della geografia

24 Cfr.K. Verdery, National ideology under socialism: Identity and Cultural Politics in Ceauşescu's Romania,

economica. la Romania avrebbe dovuto destinare alla realizzazione del progetto il 42% del proprio territorio, il 48% della sua produzione industriale e il 38,3% della produzione cerealicola. In termini di popolazione, la Romania avrebbe sacrificato sugli altari del complesso danubiano 12 milioni di abitanti (oltre la metà della popolazione complessiva), la Bulgaria 2 milioni e la Russia appena 700.00025.

Il Piano Valev venne considerato dai dirigenti di Bucarest una provocazione irricevibile, e alla rivista Viaţa Economica fu affidato il compito di procedere a una risposta ferma e tempestiva. L’accusa lanciata ai dirigenti sovietici era sferzante: essi furono accusati di perseguire artatamente la disintegrazione dello Stato romeno quale entità statale e nazionale, avvalendosi in modo strumentale di presunte necessità di coordinamento economico tra i Paesi del Comecon. Il lancio del Piano Valev rappresentò verosimilmente il

casus belli da cui scaturì, due mesi più tardi, la “dichiarazione d’indipendenza” che suggellò ufficialmente il nuovo corso politico avviato dai dirigenti romeni. Il 27 aprile del 1964, la seduta plenaria del Comitato Centrale del Partito approvò un’articolata risoluzione intitolata “Dichiarazione in merito alla posizione del partito del lavoratori romeni rispetto ai problemi dei movimenti comunisti e operai internazionali” (Declaratia cu privire la poziţia Partidului

Muncitoresc Român în problemele mişcării comuniste şi muncitoreşti internaţionale). In essa veniva chiaramente definita la collocazione del PMR nei riguardi dell’Unione Sovietica e degli altri “Paesi fratelli” appartenenti al campo socialista. La risoluzione incominciava con un appello indirizzato al PCUS e al Partito Comunista Cinese affinchè cessassero le polemiche pubbliche che opponevano Mosca e Pechino e veniva altresì menzionato lo sforzo sostenuto dai comunisti romeni perchè si pervenisse a tale risultato. Nel documento si riaffermava la persuasione del PMR nei riguardi dell’inevitabilità della vittoria del socialismo su scala globale, ma veniva parimenti ribadita l’importanza della coesistenza pacifica tra Paesi con sistemi sociali differenti al fine di assicurare la pace. Dopo queste premesse di contesto, la parte più nota della risoluzione affermava perentoriamente:“ nessuno Stato o partito può arrogarsi il diritto di offrire ricette indiscutibili e universalmente valide (...); ciascuno Stato socialista e ciascun partito marxista-leninista detiene in eguale misura il diritto e l’obbligo di elaborare, di scegliere o di cambiare forme e metodi di costruzione del socialismo”. Nei Paesi che avevano adottato il modello socialista era necessario assicurare pari dignità a tutti i partiti, poichè “non esiste e non può esistere un partito padre e un partito figlio, partiti superiori e

partiti subordinati (...) nessun partito può occupare un posto privilegiato nè può imporre ad altri partiti la propria linea e le proprie convinzioni”26.