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Capitolo V: La politica estera nel periodo 1965-

6.2 Limiti e ambivalenza della “fase liberale”

Non pochi studiosi si sono soffermati ad esaminare le caratteristiche della ‘liberalizzazione’ attraversata dalla Romania dalla metà degli anni Sessanta, interrogandosi sul reale impatto di tale liberalizzazione nei rapporti tra Stato comunista e società. Il principale limite ricorrentemente individuato (da parte ad esempio di Michael Shafir e Vladimir Tismăneanu) nel processo di distensione politica promosso dal PCR e dalla sua

leadership risiedette nel negare, in linea di principio, un’espressione autonoma alla società civile, attenendosi a una liberalizzazione programmata dall’alto. Una simile valutazione non appare infondata, e tuttavia il nuovo clima di ‘disgelo’ conferì ad esempio al dibattito culturale una vivacità schietta e un certo grado di genuina libertà; tale fenomeno non fu peraltro scevro da legami con una più generale, seppure assai prudente, ‘liberalizzazione’ che investì la società romena nel suo insieme.

Le tendenze al cambiamento in seno alla società e nel mondo della cultura non raggiunsero certo in Romania sviluppi altrettanto arditi rispetto a quanto avvenne nel caso della ‘Primavera di Praga’, il cui esito confermò peraltro l’incompatibilità di un simile visione con la dottrina della sovranità limitata imposta da Brežnev. Il confronto tra individuo, società e autorità, il rapporto tra il passato e il presente totalitario riconduceva, rispettivamente nel caso romeno e cecoslovacco, a presupposti sensibilmente differenti. La Cecoslovacchia, Paese con pregresse tradizioni di democrazia liberale e con un passato connotato da un considerevole grado di sviluppo sia economico sia culturale, fino a poco prima del debutto della ‘Primavera’ - e poi in seguito - era stata oppressa da un regime comunista tra i più intransigenti e dogmatici del blocco sovietico. La società cecoslovacca non aveva tratto dal regime comunista alcun vantaggio sostanziale di ordine politico, economico o sociale. Nell’ambito della Primavera di Praga si verificò un parziale ed effimero recupero di pregresse tradizioni di civiltà e di democrazia per oltre venti anni seppellite o mutilate. La liberalizzazione romena si inquadrò invece in una fase storica connotata da dinamiche di progresso sociale ed espansione economica sostanzialmente inedite per la società romena, le quali di fatto resero il regime accetto alla maggioranza dei suoi cittadini.

Le politiche perseguite dalla nuova leadership ceausista in rapporto alla società apparvero connotate da un ambivalenza di fondo. Il dirigismo tecnocratico della nuova classe dirigente e l’impostazione ideologica connessa alla nuova fase nazionale, condussero infatti a una rinuncia ai sorpassati metodi stalinisti, non escludendo tuttavia la conferma di un’attenta vigilanza da parte delle autorità nei confronti dei cittadini.

Così osservava Enzo Bettiza nel 1966, nel descrivere le impressioni ricavate dal contatto con la società romena in piena fase di ‘disgelo’:

Rispetto al terrore del paleostalinismo degli anni ’50, che qui fu meno folle che in Ungheria e in Bulgaria, ma meglio e più capillarmente organizzato, oggi l’atmosfera appare certo mutata. Però, nella direzione dell’affrancamento graduale dai controlli di polizia, la Romania ha compiuto passi assai più avari di altri Paesi vicini7.

Le medesime caratteristiche salienti di uno “Stato di gendarmeria” - secondo la definizione proposta da Bettiza del caso romeno - si sarebbero ravvisate nel settore della cultura, ove pure il regime era pervenuto a formulare, con intelligenza e scaltrezza, alcune importanti concessioni:

Ogni concessione, che possa anche soltanto escoriare il potere assoluto del partito, è negata. E’ interessante, da tale punto di vista, l’astuto pragmatismo applicato dai censori alla politica culturale. I dirigenti hanno capito che si può restare al potere anche comandando da un ufficio con le pareti coperte di quadri astratti e gli scaffali della biblioteca riempiti da Kafka e Ionescu. L’ideologismo puerile, moralistico, astrattizzante, alla sovietica, non li ottenebra (...). Lo stesso Ionescu8, considerato una delle più pericolose bestie nere letterarie in altri Paesi

comunisti, a Bucarest è non solo ampiamente rappresentato, ma si dice e scrive che la sua opera ha subito in gran parte l’influenza di Caragiale, il classico del dramma romeno (...). La libertà estetica è, insomma, largamente tollerata, è anzi favorita là dove può servire, come nel caso Ionescu, all’esaltazione del prestigio nazionale. E’ la libertà dei contenuti a essere controllata.9

Si può osservare una certa coerenza nei cambiamenti apportati fin dai primi anni dalla nuova leadership romena in direzione di un accentramento personalistico del potere e le iniziative contestualmente intraprese al fine di dirigere con mano ferma e decisa la politica culturale. Il leader del PCR, in occasione della Conferenza Nazionale del partito del 6-7 dicembre 1967 nella quale assunse la carica di Presidente del Consiglio di Stato, annunciò la creazione di una commissione per i problemi ideologici che avrebbe funzionato in seno al Comitato Centrale del PCR. Nel medesimo consesso, Ceauşescu dichiarò che tutti gli

7 E. Bettiza, L’altra Europa: fisiologia del revisionismo nei Paesi dell’Est..., cit., p.157

8 Come è facile desumere dal contesto, Bettiza si riferisce non a Nae Ionescu – che durante il periodo interbellico

fu portavoce della nutrita pattuglia di intellettuali romeni vicina al movimento legionario (di estrema destra) – bensì a Eugen, il noto drammaturgo che all’epoca viveva in Francia e il cui cognome era dunque frequentemente ‘adattato’ in Ionésco.

organismi che si occupavano di questioni scientifiche e culturali - fino ad allora, nella maggior parte dei casi, operanti in un quadro di formale autonomia - sarebbero stati posti sotto la supervisione diretta del Comitato Centrale10. Fu infine prevista una significativa ristrutturazione in seno Consiglio di Stato per la Cultura e l’Arte (CSAS) - organismo che esercitava una funzione di supervisione e indirizzo ideologico nei confronti delle attività artistiche – al fine di porlo in un rapporto di più stretta dipendenza dal Segretariato del CC e ampliare, al suo interno, l’organico dirigenziale collocato in un rapporto di diretta dipendenza politica rispetto al segretario generale del partito.

E’ interessante notare come le motivazioni addotte per giustificare i cambiamenti poc’anzi menzionati siano state le medesime impiegate a sostegno della contestuale riforma istituzionale che prevedeva l’abrogazione del divieto di cumulo d’incarichi politici. Si trattava in entrambi i casi, secondo Ceauşescu, di eliminare “alcune sovrapposizioni ancora esistenti ed evitare nel futuro la comparsa di altre che avrebbero determinato ripercussioni negative nel quadro dei processi decisionali”11. Si può inoltre segnalare, a questo proposito, l’esplicito riferimento compiuto da Ceauşescu nel suo discorso presso la conferenza nazionale del partito (pubblicato nel quotidiano di partito Scînteia, 7 dicembre 1967) riguardo lo stretto legame esistente tra la preconizzata riforma amministrativa e l’attribuzione al partito di un più forte potere di controllo nell’ambito del settore ideologico e culturale. Secondo Annele Ute Gabanyi, occorre non sottovalutare l’ipotesi che gli obiettivi in campo ideologico-culturale nitidamente formulati nel quadro della ‘minirivoluzione culturale’ legata alle “Tesi di Luglio” del 1971 fossero stati già chiaramente delineati a partire dalla fine del 1967; gli avvenimenti a livello nazionale e soprattutto internazionale, secondo la Gabanyi, avrebbero tuttavia ritardato di alcuni anni l’effettiva concretizzazione di un modello di direzione ideologica di tipo autoritario12.

In termini generali, è opportuno ribadire come durante la seconda metà degli anni Sessanta, il consolidamento della ‘nuova ideologia nazionale’, non apparve di per sè in contraddizione con il mantenimento ( in forme certo più miti rispetto al periodo anteriore ma non necessariamente meno pervasive) di una pedagogia politica autoritaria né con nuove misure tese al consolidamento dell’ordine sociale e morale; queste ultime vennero delineandosi già anteriormente al 1968 in diverse circostanze, non mancando talora di essere

10 A.U. Gabanyi, Politica şi literatura în Romania după 1945, Bucuresţi, Editura Fundaţiei Culturale Române,

2001, pp. 138-141

11 Ivi, p.140 12 Ivi, p.143

segnalate nella stampa occidentale13. La nuova politica ‘nazionale’ si proponeva di pervenire – sulla base di motivazioni solo parzialmente differenti rispetto a quelle invalse in precedenza – a una omogeneizzazione della società romena: fu questo un concetto sistematizzato e perseguito con totalitaria coerenza durante la fase ‘sultanista’ della leadership ceausista. L’eliminazione delle differenze di ordine sociale, economico e nazionale implicava il mantenimento di un modello di sviluppo di natura schiettamente dirigistica nei metodi e negli intendimenti strategici, correlato ad un tipo di socialismo che poteva forse essere considerato parzialmente obsoleto in alcuni Stati socialisti di orientamento riformista (come l’Ungheria) ma la cui validità appariva confermata in Romania dalle brillanti performances conseguite in ambito economico e sociale. Uno degli obiettivi cui aspirava la menzionata politica di omogeneizzazione era costituito dal superamento del tradizionale dualismo tra città e campagna, mediante la promozione nelle aree rurali di livelli di sviluppo e di opportunità nell’accesso ai servizi sociali, lavorativi e sanitari comparabili con quelli goduti dagli abitanti dei centri urbani. In questo contesto va collocata, nel novembre 1965, la decisione di Ceauşescu di pervenire alla formazione di una commissione centrale per il riordino e la sistematizzazione (sistematizarea) dei villaggi14. Le differenze tra contesto abitativo urbano e rurale dovevano essere superate promuovendo una pianificazione socio-economica volta a imporre l’afflusso degli abitanti delle campagne all’interno di “centri direzionali” dove fosse concentrata la vita economica, sociale ed amministrativa del circondario. In questo progetto, le considerazioni di ordine ideologico apparivano pragmaticamente congiunte all’obiettivo di ridurre gli oneri economici legati al tentativo promuovere lo sviluppo in località isolate e scarsamente abitate. Le proposte di “sistematizzazione dei villaggi” furono approvate dalla conferenza nazionale del partito e divennero legge nel febbraio del 1968; il medesimo argomento sarebbe stato affrontato nel corso della conferenza del partito svoltasi nel luglio del 1972, ma ancora per lungo tempo la legge approvata nel 1968 non sarebbe divenuta operativa. La politica di sistematizzazione avrebbe trovato effettiva, coerente applicazione soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta, nel quadro di obiettivi e modalità che fecero apparire tale politica come una nuova, sinistra manifestazione della compiuta involuzione di segno totalitario sperimentata dal regime romeno nella sua ultima fase.

13 L’inviato speciale del quotidiano francese Le Monde, Michel Tatu, durante il suo soggiorno in Romania nel

luglio 1967 scrisse un articolo nel quale denunciava l’ ”appesantimento del clima sociale” nel Paese, in seguito all’adozione di una serie di misure di carattere autoritario. Nell’articolo veniva segnalato come nel maggio 1967 fossero stati introdotte nuove misure per disciplinare con maggiore rigore il lavoro nelle fabbriche. Secondo Tatu, sarebbero stati all’ordine del giorno controlli ispettivi effettuati durante le pause di lavoro per punire coloro che contravvenivano alla rigida regolamentazione prevista in materia. Cfr. C. Durandin, Nicolae Ceauşescu:

adevăruri şi minciuni...p.86

Altre misure sviluppate nel corso degli ‘anni liberali’ del ceausismo avrebbero trovato piena applicazione nel corso delle successive fasi del regime. Una tra queste, approvata nel 1965, era il decreto legge n°. 12 ed era rivolto al “trattamento medico delle persone che soffrono di gravi malattie mentali”15. Le norme riguardanti l’internamento di persone ‘moleste’ vennero dunque definite in contesto storico che forse non lasciava facilmente presagire il loro successivo impiego. Nel 1966 vennero fondati gli ospedali psichiatrici “Poiana Mare”, nel judetul Dolj (nel sud-ovest del Paese) e il “dr. Petru Groza” nel judetul Bihor, nei pressi della città di Oradea. Entrambi questi istituti sarebbero in seguito divenuti luoghi deputati all’internamento di individui ritenuti ostili al regime. A partire dagli anni Settanta, il ricorso all’internamento coatto di dissidenti all’interno di strutture psichiatriche divenne una pratica relativamente frequente nella Romania ceausista. E’ difficile effettuare una stima numerica attendibile in riferimento alle vittime di questo trattamento. Il decreto legge n. 12 prevedeva che la decisione di disporre l’internamento in un ospedale psichiatrico spettasse congiuntamente alla Procura e agli organi sanitari competenti e che la proroga del ‘periodo di trattamento’ dovesse in ogni caso essere approvata da un’istanza giudiziaria; nonostante ciò, il ricorso all’internamento coatto avvenne sempre più frequentemente in un quadro extragiudiziale e sovente nella totale assenza di cartelle diagnostiche del medico competente nei riguardi dei ‘degenti’ accusati di reati politici. La prassi dell’internamento psichiatrico dei dissidenti, non soltanto inumana ma in flagrante contrasto con la deontologia professionale dei medici psichiatrici, si avvalse frequentemente della collaborazione di numerosi tra questi ultimi, pur in presenza di alcune isolate e talvolta coraggiosamente ostinate voci di protesta, come quella di Ion Vianu16. L’articolo 114 del codice penale approvato nel 1968 forniva la base giuridica per l’internamento e il trattamento psichiatrico rivolto a “malati mentali o tossicomani che si trovano in uno stato nel quale rappresentano un pericolo per la società”17. In base alle disposizioni del nuovo codice, erano passibili di internamento nelle strutture ospedaliere psichiatriche, come pena alternativa a quella irrogata attraverso l’ordinaria detenzione, anche coloro che erano accusati di “propaganda contro lo Stato” (art. 166) o di “tentativo di “attraversamento fraudolento della frontiera” – ossia senza

15 Ibidem, pp.104-105

16 Lo psichiatria Ion Vianu (nato nel 1934) divenne negli anni Settanta inviso alle autorità comuniste per le

proprie prese di posizione contro l’internamento coatto degli oppositori; a rendere maggiormente periclitante la sua posizione professionale intervenne la solidarietà da questi espressa nel 1977 a Paul Goma. Dopo l’allontanamento dalla docenza, accompagnato da un “processo politico” svoltosi nella facoltà di Medicina dell’Università di Bucarest, Vianu ottenne, infine, nel 1977, il permesso di emigrare. Nello stesso anno si stabilì in Svizzera, dove iniziò la propria collaborazione con Radio Free Europe e dove sarebbe rimasto fino alla caduta del regime. Una testimonianza articolata del suo percorso umano e professionale si trova in I.Vianu; M.Călinescu. Amintirii în dialog: Ion Vianu, Matei Călinescu, Polirom, Iaşi, 2005.

passaporto - (art.245), un reato, quest’ultimo, che comportava una condanna detentiva tra 6 mesi e 3 anni18.

Nel novembre del 1968, Vasile Paraschiv lavorava come operaio specializzato presso i cantieri petrolchimici di Ploieşti, quando decise di abbandonare polemicamente il partito comunista, cui si era iscritto la prima volta nel 1947, all’età di 19 anni. Questa decisione fu accompagnata da un’aspra denuncia contro gli abusi commessi da alcuni dirigenti locali del PCR e, in termini più generali, contro il rifiuto verso una genuina apertura a istanze di partecipazione democratica manifestata da parte della leadership nazionale del partito. Nel luglio dell’anno successivo, Paraschiv fu per la prima volta arrestato da ufficiali di pubblica sicurezza e condotto nell’ospedale psichiatrico di Urlaţi – nei pressi di Ploieşti - dove venne trattenuto per cinque giorni19. Nuove vessazioni e nuovi periodi di internamento, di durata sempre maggiore Paraschiv subì a partire dal 1970 in concomitanza con il generale irrigidimento del regime e con l’adozione di misure più draconiane contro i dissidenti. Secondo Deletant, nel corso degli anni Sessanta il ricorso al trattamento medico obbligatorio rivolto a personalità considerate ostili al regime venne ammesso dalle autorità giudiziarie soltanto per periodi limitati di tempo (in ogni caso non superiori ad alcuni mesi) mentre divenne prassi giuridicamente codificata nel corso degli anni Settanta il fatto che tale trattamento potesse essere prorogato fino a un periodo massimo di cinque anni20.

Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione, nel valutare le apparenti ‘incongruenze’ verificatesi nel processo di liberalizzazione politica, fu rappresentato dall’adozione di una nuova legislazione sull’aborto. Il 1 ottobre 1966 la Gazzetta Ufficiale pubblicava il decreto 770/1966, attraverso il quale il ricorso all’interruzione di gravidanza venne regolamentato in modo decisamente restrittivo21. Sanzioni penali vennero previste sia per la donna sia per il medico che avesse dato la propria collaborazione a infrangere la legge22. La nuova ratio legislativa sul tema segnò un radicale mutamento d’approccio rispetto alla legislazione precedentemente in vigore dal 1957, la quale aveva ampiamente liberalizzato e depenalizzato il ricorso all’aborto.

18 Ibidem

19 V. Paraschiv, Lupta mea pentru sindicate libere in România, Polirom, Iasi, 2005, p.48 20 Ivi, p.107

21

La legislazione stabilì che il ricorso all’aborto era consentito soltanto a donne che avessero superato i 40 anni di età, oppure alle madri con quattro o più figli, alle vittime di stupro e incesto e nel caso di malformazioni del feto. Cfr. G. Kligman, Politica duplicitătii : controlul reproducerii in România lui Ceauşescu, (traducere din engleza de Marilena Dumitrescu), Bucuresti, Humanitas, 2000, p.34

22

Per la donna come per il medico la pena prevista era il carcere da uno a tre anni e la perdita di alcuni diritti civili per il medesimo periodo. Ivi.

Non sorprende constatare che a fondamento della nuova legislazione in materia di aborto ricorsero in modo preminente argomenti di carattere socio-economico piuttosto che motivazioni di natura etica. L’aborto veniva individuato dai dirigenti romeni come una delle cause principali della denatalità nel Paese, con nefaste conseguenze sul piano sociale e produttivo. Garantire adeguati tassi di riproduzione nella prospettiva del “ricambio della forza lavoro” appariva una preoccupazione essenziale al fine di assicurare la costruzione del socialismo. Si trattava di una necessità resa più imperiosa dalle accresciute esigenze legate al delinearsi di un comunismo su base nazionale e, conseguentemente, al rafforzamento di dinamiche competitive rispetto agli altri Paesi del blocco socialista. A conferma della valenza politica che il tema della procreazione aveva per gli estensori della legge, il decreto legge 770/1966 fu accompagnato - diversamente dalla legge sul 1957 che liberalizzava il ricorso all’aborto - da un preambolo che definiva i principi ispiratori delle nuove norme. In esso veniva affermato: “l’interruzione di gravidanza rappresenta un atto con gravi conseguenze sulla salute della donna e reca grave pregiudizio alla natalità e all’incremento naturale della popolazione”. Le preoccupazioni delle autorità nei riguardi dell’ “incremento naturale della popolazione” apparivano giustificate da un tasso di natalità che nel 1966 si attestava statisticamente intorno a una media di 1,9 media di figli per donna, poco al di sotto del tasso di ricambio generazionale (collocato intorno al 2,1-2,2 figli per donna): si trattava di un fenomeno di stagnazione demografica probabilmente poco allarmante secondo gli odierni

standard di numerose società europee, ma che poneva all’epoca la Romania – al pari dell’Ungheria – tra i Paesi meno prolifici su scala mondiale23.

Il tema della procreazione, nel corso dei due decenni successivi, sarebbe stato ‘politicizzato’ in misura crescente. Le preoccupazioni pubbliche – e l’emergente retorica discorsiva - espresse dalla leadership del PCR in materia di aborto e in riferimento alla necessità di assicurare un vigoroso incremento demografico conobbero alcuni significativi cambiamenti nel periodo che intercorse tra la ‘fase autoritaria’ del regime (1971-77) e quella ‘sultanista’ (dal 1978 in poi). Concrete misure a sostegno delle famiglie numerose furono approvate al principio degli anni Settanta. Nel 1974 la legislazione in materia di aborto sarebbe stata resa ancora più restrittiva – e le sanzioni contro i responsabili più severe - attenendosi tuttavia, in termini generali, ai presupposti culturali e politico-ideologici che informavano il decreto approvato nel 1966. Fu nel corso della terza fase della leadership ceausista che la retorica pronatalista del regime assunse tinte più schiettamente ed

23 Si consideri che nel 1965 – un anno dopo il climax del “baby-boom” nel nostro Paese – l’indice medio di figli

esplicitamente nazionalistiche. Durante questa fase, nella quale il conducător avrebbe assunto su di sè, con una certa coerenza ideologica, l’archetipo di Padre della Nazione, la martellante retorica ufficiale, individuando nella procreazione un inderogabile “dovere patriottico”, si spinse ad indicare l’obiettivo di giungere entro il 2000 a una nazione formata di quaranta milioni di abitanti, in un Paese che nel 1980 ne contava appena 20 milioni24.

Le nuove disposizioni legislative in materia di aborto approvate nel 1966 concorsero a distinguere nettamente la Romania dal resto dei Paesi del blocco socialista, dove – con limitate eccezioni - il ricorso all’aborto era stato reso legale a partire dal 195725. Le preoccupazioni socio-economiche addotte dalle autorità romene nel giustificare le nuove misure non costituivano tuttavia un precedente assoluto nel campo socialista: simile preoccupazioni erano emerse nell’Urss staliniana allorché si era pervenuti nel 1936 a vietare l’aborto, sebbene la Russia bolscevica fosse stata, nel 1920, il primo Paese nel mondo a rendere legale il ricorso all’interruzione di gravidanza26.