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Capitolo V: La politica estera nel periodo 1965-

5.2 Lo sviluppo dell’azione politico-diplomatica

Il debutto di Nicolae Ceauşescu alla guida del partito non parve avvenire sotto buon auspici per il tenore delle relazioni romeno-sovietiche. Il neosegretario del PCR tra il 3 e 11 settembre 1965 fu in visita ufficiale a Mosca, dove si incontrò con Brežnev. Durante i colloqui tra i due leaders vennero affrontati talune questioni irrisolte che il Cremlino appariva riluttante ad affrontare4. Ceauşescu menzionò il problema dell’Isola delle Serpi, un atollo di modeste dimensioni (17 ettari) collocato a 45 chilometri dalle coste romene ed ucraine. La Romania era stata costretta a cedere all’Urss l’Isola delle Serpi nel 1948; a questa prova di forza si era accompagnato un ridimensionamento delle acque territoriali spettanti alla Romania; tale fatto rimaneva un punto controverso, sul piano politico e diplomatico, nell’ambito delle relazioni romeno-sovietiche5. Ancor meno gradita per l’anfitrione sovietico fu l’interessamento espresso dal leader del PCR nei riguardi della questione del „tesoro romeno” in URSS – un argomento fino a quel momento sottaciuto dalle autorità comuniste romene6 e destinato a tornare alla ribalta, con accenti di maggiore veemenza, in epoca post- comunista7. Un ulteriore elemento di irritazione per Brežnev fu rappresentato dalla conferma

3

E. Bettiza, L’altra Europa - fisiologia del revisionismo nei paesi dell’Est...cit., p. 155.

4 Cfr. M.Anton; I. Chiper, Instaurarea regimului Ceausecu, Continuitate si ruptura in relatiile romano-sovietice,

Institutul National Pentru Studiul Totalitarismului, Bucuresti, 2003 pp.128-201

5 La questione dell’Isola delle Serpi (Insula Şerpilor in romeno, Острів Зміїний in ucraino) in epoca post-

comunista ha rappresentato un punto controverso nelle relazioni tra Romania e Ucraina. Pur confermando la sovranità ucraina sull’isolotto, una recente deliberazione della Corte di Giustizia dell’Aja - cui era stato affidato, nel 1997, un ruolo di arbitrato tra le parti – ha riconosciuto come legittime la maggior parte delle rivendicazioni romene nei riguardi delle acque territoriali adiacenti.

6Vi era per la verità un piccolo precedente – che rientrava però nell’agone politico-culturale piuttosto che nel

contesto delle relazioni diplomiche bilaterali – che testimoniava l’interessamento dei comunisti romeni, nel loro emergente “corso nazionale” alla questione del “tesoro romeno” a Mosca. Pochi mesi dopo la pubblicazione di

Însemnari despre Români da parte dell’Editura Politică, avvenuta nell’ottobre del 1964, era stato dato alle stampe un altro volume intitolato Lenin despre România che includeva un telegramma leader sovietico nel quale si riconosceva l’esistenza del menzionato “tesoro romeno” in Urss.

7 Il “tesoro romeno”a Mosca è costituito dalle riserve auree giunte nella capitale russa da Iaşi ai tempi

dell’occupazione austro-tedesca su larga parte del territorio romeno, avvenuta nel corso della prima guera mondiale. La decisione di inviare le riservee auree nazionali a Mosca venne assunta dal governo romeno verso la fine del 1916, quando sussisteva il fondato timore che le forze armate tedesche, austriache o turche giungessero ad occupare la Moldavia , ossia l’unica porzione territoriale del Regat all’epoca non occupata dagli austro- tedeschi. Al fine di preservare il Paese dalla spoliazione finanziaria operata da parte di un eventuale regime di occupazione operante sull’intero territorio nazionale, al principio del 1917 venne deciso l’invio del “tesoro” a Mosca, dacché la Russia era all’epoca l’unica Potenza dell’Intesa con la quale la Romania disponesse di un confine territoriale. Le circostanze politiche posteriori alla rivoluzione bolscevica e alla fondazione dell’Urss conferivano al governo romeno ben modesti margini di intervento presso il Cremlino, stante l’inesistenza di relazioni diplomatiche ufficiali tra i due Paesi. In seguito al ripristino delle relazioni bilaterali, avvenuto nel 1933, una delegazione romena guidata dal ministro degli Esteri Nicolae Titulescu si recò a Mosca per sollevare, tra gli altri, argomenti, la questione del “tesoro”, ricevendo tuttavia una risposta sostanzialmente

dell’indisponibilità da parte romena a prendere in considerazione i piani di integrazione economica sovranazionale del Comecon.8.

Il 1966 fu un anno contrassegnato da avvenimenti che posero nuovamente in evidenza l’orientamento autonomo della politica estera romena, con particolare riferimento alla posizione assunta da Bucarest nei confronti dei propositi di ristrutturazione organizzativa del Patto di Varsavia. In febbraio, surante l’incontro svoltosi tra le delegazioni degli Stati aderenti al Patto, la delegazione romena avanzò alcune proposte che andavano in direzione di un riconoscimento del primato degli interessi nazionali rispetto a istanze di carattere sovranazionale: tra queste proposte, vi era l’attribuzione al Comando interstatale delle Forze del Patto di Varsavia di un ruolo di coordinamento anzichè di una reale potestà decisionale.

Nel luglio del 1966, durante l’incontro svoltosi a Bucarest tra i ministri della Difesa degli Stati del Patto di Varsavia, la parte romena depose un progetto di statuto le cui previsioni disponevano - in base a quanto dichiarato dal ministro della Difesa Leontin Sălăjan - l’eliminazione degli articoli nei quali erano ammesse misure potenzialmente lesive nei confronti della sovranità e dell’indipendenza degli Stati membri del Trattato; nel progetto romeno era altresì previsto un più efficace coordinamento delle forze militari comuni nell’eventualità di un’ ”aggressione imperialista”. In sintesi, riprendendo e sviluppando alcuni degli intendimenti espressi in febbraio, le proposte avanzate da Bucarest prevedevano che l’operatività delle decisioni formulate dal Comitato politico consultivo del Patto – come pure la definizione dell’ammontare del contributo dei singoli Stati rispetto al budget finanziario del Comando delle Forze Armate Unite – rientrasse pienamente nelle competenze dei governi nazionali. Al termine di questo consesso, venne deciso di posticipare la discussione in merito alle proposte avanzate da parte romena, le quali avrebbero trovato soltanto parziale riconoscimento nella nuova regolamentazione delle strutture direttive del Patto adottata nel 1969.

Il 1967, al pari del biennio precedente, non produsse sviluppi distensivi per quanto attiene alle relazioni romeno-sovietiche. I dissidi furono provocati dalla decisione del governo di Bucarest di normalizzare compiutamente le proprie relazioni diplomatiche con la Repubblica Federale Tedesca e con la posizione assunta dalla Romania nei riguardi del

interlocutoria.Al principio del 2000, il “tesoro” costituì uno degli ostacoli disseminati nelle relazioni romeno- russe in vista della firma di un trattato di buon vicinato tra i due Paesi. Nello stesso periodo, fonti giornalistiche romene – di attendibilità controversa – stimavano il valore ‘tesoro romeno’ a 1,2 miliardi di dollari, ossia a circa un terzo delle riserve monetarie russe del momento. Cfr. http://www.evenimentul.ro/articol/tezaurul-romanesc- mar-al.html

8 Questo aspetto è segnalato da Paul Niculescu-Mizil, membro della delegazione recatasi a Mosca, in O istoria

contenzioso arabo-israeliano deflagrato nel corso della „guerra dei sei giorni”. Entrambe queste prese di posizione detennero un’eccezionale valenza simbolica, carica di durature ripercussioni.

Fino al gennaio del 1967 le relazioni intattenute dal governo romeno con la RFT si erano prevalentemente limitate all’ambito economico, avvalendosi a tale scopo di un ufficio di rappresentanza a Bonn. Questo fatto era riconducibile alle tesi di politica estera fino ad allora professate dal governo tedesco-occidentale, le quali erano incarnate dalla cosiddetta dottrina Hallstein9, ma anche al rifiuto da parte romena di riconoscere l’appartenenza alla Repubblica Federale del land di Berlino Ovest. In queste condizioni, nel settembre 1966, il ministero degli Esteri della Bundesrepublik avanzò alla controparte romena una proposta che costituiva un significativo passo in avanti nel rafforzamento dei rapporti bilaterali: tale proposta prevedeva che nel breve periodo non sarebbe stato siglato alcun accordo tra i due governi, ma che questi, nel medesimo tempo, si sarebbero espressi - per mezzo di una dichiarazione comune - a favore dello stabilirsi di relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Per quanto riguardava gli aspetti ancora irrisolti nelle relazioni bilaterali, il piano tedesco prevedeva che le parti in causa avrebbero espresso separatamente i loro intendimenti per mezzo di dichiarazioni ufficiali rilasciate da parte dei rispettivi governi. Gli intendimenti del governo di Bonn ricevettero un’accoglienza positiva a Bucarest. Alcuni mesi più tardi, nel dicembre 1966, in concomitanza con un significativo cambiamento a livello politico nella RFT - con la formazione di una Grosse Koaliton guidata dal cancelliere democristiano Kurt Kiesinger – prese l’abbrivio il superamento della dottrina Hallstein, sostituita dall’emergente

Ostpolitik, la quale si proponeva di consentire un complessivo miglioramento delle relazioni intrattenute dal governo di Bonn con la RDT e con gli altri Stati del blocco sovietico.

In conseguenza di questi cambiamenti, nel gennaio 1967, una delegazione tedesco – occidentale si recò a Bucarest per porre le premesse per la prevista visita a Bonn del ministro degli Esteri romeno, Corneliu Mănescu. Negli stessi giorni, altre due delegazioni del ministero degli Esteri tedesco si recarono a Praga e Budapest. Contestualmente agli sviluppi appena menzionati, il governo tedesco-orientale avanzò la proposta di un incontro dei ministri degli Esteri del Patto di Varsavia al fine di definire una posizione comune rispetto al problema dei rapporti diplomatici con la RFT. Il governo di Bucarest, intuendo come tale proposta fosse indirizzata contro la Romania e la sua politica di avvicinamento alla Germania occidentale,

9 L’applicazione di questa dottrina – che trae il proprio nome dal giurista Walter Hallstein - prevedeva che la

Repubblica Federale non intrattenesse relazioni con gli Stati – ad eccezione dell’Unione Sovietica – che riconoscevano da un punto di vista diplomatico la Repubblica Democratica Tedesca.

decise di accelerare i tempi. Il 31 gennaio Mănescu e Willy Brandt, al termine dell’incontro svoltosi a Bonn, dichiararono, a nome dei rispettivi governi, la decisione di stabilire compiute relazioni diplomatiche tra i due Paesi attraverso la nomina di ambasciatori straordinari e plenipotenziari. La Romania fu in tal modo il primo tra gli “Stati satelliti” del blocco sovietico a ripristinare relazioni diplomatiche con la Bundesrepublik10. Un ulteriore ‘strappo’ nella coesione del blocco sovietico fu rappresentato dalla decisione assunta dal governo romeno di non inviare propri delegati alla riunione del Patto di Varsavia tenutasi a Karlovy Vary tra il 24 e il 26 aprile. A Bucarest si riteneva infatti, con fondate ragioni, che tale consesso sarebbe stato il luogo deputato a muovere attacchi e pressioni contro la politica di apertura attuata dal governo romeno nei confronti della Germania Federale.

L’originalità della posizione romena in politica estera conobbe ulteriori, clamorosi esiti due mesi più tardi, in concomitanza con gli sviluppi correlati alla Guerra dei Sei Giorni. In occasione della conferenza di Mosca (9 giugno 1967, cui parteciparono rappresentanti dei Paesi aderenti al trattato di Varsavia) la delegazione romena rifiutò di firmare la dichiarazione finale nella quale si dichiarava Israele Stato ‘aggressore’ e si stigmatizzava la posizione di maggioranza emersa in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La dichiarazione affermava che, qualora Israele non avesse interrotto la propria azione militare e le sue truppe non si fossero ritirate oltre la linea dell’armistizio, i Paesi del blocco socialista si sarebbero adoperati per fornire tutto il sostegno necessario ai Paesi arabi. Il primo passo per dare concreta applicazione a queste minacce fu costituito dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, iniziativa alla quale, dopo l’Unione Sovietica, si associarono i governi di Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia e Ungheria. La Romania fu l’unico Paese del blocco sovietico a rifiutarsi di aderire a questa decisione11. La posizione assunta dal governo di Bucarest fu improntata a un atteggiamento di rigorosa neutralità e di mediazione tra le parti belligeranti. Questa presa di posizione venne ulteriormente precisata in una deliberazione adottata dal CC del PCR,12 e, con riverberi più clamorosi, in un discorso che Ion Gheorghe Maurer tenne il 19 giugno presso l’Assemblea generale dell’ONU. Maurer affermò in tale

10

In un dossier dell’epoca approntato dal ministero degli Esteri della RFT la Romania veniva considerata l’unico Stato appartenente al blocco sovietico che perseguisse una politica “seria” e “intelligente”. Nello stesso dossier, la Polonia gomulkiana veniva giudicata “ambigua”, la Cecoslovacchia “fossilizzata”, la Bulgaria “interessante” e l’URSS “convenzionale”. Albania e Ungheria venivano considerate “négligeables quantités” in termini di impatto nella politica estera del Blocco sovietico. Né la “scismatica” Albania né la Repubblica Democratica Tedesca venivano menzionate dagli estensori del documento. Cfr. Mizei unei dizidenţe...cit., pp.12- 13

11 I. Calafeteanu, România si razboiul de şase zile in I. Calafeteanu, A.Cornescu-Coren, România si criza din

orientul mijlociu, Bucuresti, Editura SEMPRE, 2002, pp.7-50

12 ‘Declaratia CC al PCR şi a guvernului RSR cu privire la situaţia din Orientul Apropiat”, publicata

occasione – in coerenza con i principi direttivi del nuovo “corso nazionale” romeno – che la ricerca di una soluzione diplomatica per il Medio Oriente implicava la rinuncia all’ingerenza da parte delle grandi potenze ed il rispetto degli interessi fondamentali di ciascuno Stato sulla base del riconoscimento del principio dell’indipendenza e della sovranità nazionale13.

La visibilità pubblica sul proscenio internazionale in tal modo acquisita dal “dissenso romeno” accrebbe sconcerto e irritazione tra i dirigenti sovietici. La gravità della ‘defezione’ romena appare ancora maggiore qualora si consideri che la stessa Jugoslavia si era in tale occasione allineata alle posizioni dell’URSS. La posizione jugoslava era attribuibile sia al ruolo direttivo assunta da Tito nel blocco dei Paesi “non allineati” – posizione che aveva reso Belgrado un partner strategico per il mondo arabo e in particolare per l’Egitto di Nasser - sia al tentativo (condotto sinergicamente da Mosca e Belgrado) di avvalersi della crisi del Medio Oriente come strumento per aprire uno spazio di manovra nelle relazioni jugoslavo- sovietiche. Alla luce di tali eventi, al governo e alla diplomazia romena apparve chiaro come il conflitto arabo-israeliano si fosse risolto per l’URSS in uno scacco sia dal punto di vista militare sia da quello politico-diplomatico: unico risultato positivo per Mosca, accanto alla ribadita sintonia con i Paesi arabi, era il rafforzamento della flotta sovietica nel Mediterraneo14.

La politica condotta da Bucarest nelle menzionate circostanze aveva tra i propri obiettivi strategici quello di accrescere il capitale politico e d’immagine del governo romeno presso l’Occidente. Sotto questo profilo, i risultati ottenuti possono essere considerati più che soddisfacenti. Secondo la testimonianza di Mircea Malita, dopo la crisi del Medio Oriente il dipartimento di Stato americano annunciò “nuovi gesti di buona volontà di fronte alla Romania”, nell’intento di avvalersi della collaborazione di Bucarest nell’ambito dei negoziati per la pace in Vietnam15. In termini ancora più incisivi, Egitto e Israele ricorsero al contributo della diplomazia romena nel tentativo di pervenire a una soluzione della crisi.

In un ambito più specifico, la posizione assunta dal governo romeno in relazione alla crisi medio-orientale permise a Bucarest di giungere alla piena normalizzazione delle relazioni con lo Stato di Israele. Tali relazioni al principio del 1967 apparivano ancora contrassegnate da forti incomprensioni. A questo proposito, negli ambienti israeliani pesava il ricordo non esattamente favorevole dell’atteggiamento assunto tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta dalle autorità comuniste romene. Sebbene il governo di Bucarest fosse stato tra i primi nel blocco orientale a riconoscere lo Stato di Israele, la campagna antisionista promossa

13

E. Marin, Originea şi evoluţia cultului personalităţii lui Nicolae Ceauşescu...cit., pp.502-504

14 I. Calafeteanu, România si razboiul de şase zile...cit. 15 Ivi

da Stalin a partire dal 1948 ebbe importanti ripercussioni in Romania, nel cui territorio risiedeva una delle comunità ebraiche numericamente più rilevanti in Europa ( poco meno di 800.000 persone negli anni Trenta). Gli strumenti attraverso cui venne posta in essere questa politica discriminatoria furono, da un lato, il divieto di emigrare in Israele – o i pesanti limiti frapposti a tale opzione – e, dall’altro, l’epurazione dei “sionisti” presenti nei quadri e tra i dirigenti del partito.

Nel 1949 si giunse a un delicato punto di crisi quando rappresentanti dello Stato ebraico si rivolsero Vizinskij. luogotenente di Stalin in Europa orientale , affinchè si adoperasse per indurre i dirigenti romeni a recedere dalla loro posizione intransigente nei confronti della comunità ebraica, soprattutto in tema di emigrazione. Tale passo non diede gli esiti sperati. La situazione non migliorò affatto – e tese anzi a peggiorare – dopo la purga che colpì nel 1952 la ‘trojka’ dirigenziale della quale faceva parte l’ebrea Ana Pauker. La politica discriminatoria fu abbandonata soltanto nella fase conclusiva dell‘ ‘epoca Gheorghiu-Dej’; in tale fase – secondo la studiosa Annele Ute Gabanyi - l’intransigenza “antisionista” dei dirigenti romeni si stemperò in ragione dell’effettivo conseguimento di una efficiente “nazionalizzazione” (nel senso di “romenizzazione”) dei quadri del PCR16.

Nel quadro di una valutazione generale, il capitale d’immagine acquisito dal governo romeno presso i governi occidentali ebbe come contrappasso un considerevole irrigidimento nelle relazioni bilaterali romeno-sovietiche, cui si unì una condizione di sostanziale isolamento della Romania all’interno del blocco sovietico. Alla fine del 1967 si era dunque in attesa di una chiarimento nei rapporti tra URSS e Romania che però non arrivò, dacchè incomprensioni e divergenze continuarono a manifestarsi nel corso del 1968, avendo come

climax la nota e più volte ricordata condanna espressa da Ceauşescu nei confronti dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia.

Un banco di prova nel quale si confermò il punto morto cui sembravano essere giunte le relazioni romeno-sovietiche vi fu al principio del 1968. In tale periodo scadeva infatti il ventennale trattato di amicizia, collaborazione e mutua assistenza siglato da Romania e Unione Sovietica nel 1948. In conseguenza di ciò, tra il 4 e il 12 gennaio 1968 si svolsero a Bucarest trattative bilaterali per la firma di un nuovo accordo, le quali non pervennero ad alcun concreto risultato a causa del permanere di divergenze tra le parti interessate17. Tali divergenze riguardavano diverse questioni: le modifiche da apportare all’impostazione dei

16

Cfr. A.U. Gabanyi, Revoluţia neterminată, Bucureşti, Editura Fundaţiei Culturale Române, 1999

rapporti bilaterali quali erano stati definiti nel trattato del 1948, le modalità di collaborazione in ambito economico, il problema della mutua assistenza, della sicurezza europea e la definizione degli impegni riguardanti il rispetto delle obbligazioni inderogabili che derivavano dall’appartenenza della Romania al Patto di Varsavia18.

La posizione autonoma del PCR emerse nuovamente nel febbraio 1968 durante lo svolgimento a Budapest della conferenza consultiva dei partiti comunisti. Tale conferenza si concluse senza la partecipazione della delegazione romena. Il motivo fu rappresentato dal fatto che, durante i lavori, alcuni rappresentati dei partiti presenti lanciarono duri attacchi nei confronti del partito comunista cinese. Inoltre, il rappresentante del partito comunista siriano stigmatizzò la posizione del PCR nei riguardi del conflitto arabo-israeliano, definendola come espressione di una mancanza di solidarietà verso il popolo arabo. La delegazione romena non ottenne da parte dei delegati convenuti l’assunzione di un impegno ufficiale affinchè si evitassero in future analoghe intromissioni rispetto alle posizione dei differenti partiti comunisti; l’abbandono della conferenza appariva in questo contesto una scelta quasi inevitabile, rispetto alla quale intervenne la piena ’approvazione di Nicolae Ceauşescu19. Dopo il ritorno a Bucarest della delegazione romena, la posizione del PCR nei riguardi della conferenza di Budapest fu ufficialmente suggellata da una decisione adottata dal Comitato Centrale20.

E’ interessante notare come, in questa agitata fase, non mancarono degli sforzi di ricomposizione che coinvolsero partiti comunisti non appartenenti al blocco sovietico, tra i quali lo stesso partito comunista italiano. Su invito della direzione del PCI, all’inizio dell’ aprile del 1968 Mihai Dalea fu invitato a Roma, dove incontrò Enrico Berlinguer, all’epoca vicesegretario del partito comunista italiano. Il PCI, pur ancora lontano dall’itinerario ‘eurocomunista’ che lo avrebbe associato nel 1975 a George Marchais e Santiago Carrillo – rispettivamente a capo dei partiti comunisti francese e spagnolo – stava allora attraversando un’evoluzione in senso ‘liberale’: tale percorso avrebbe indotto il segretario Luigi Longo a differenziarsi dall’interpretazione sovietica in merito all’invasione della Cecoslovacchia, diversamente da quanto era avvenuto dodici anni prima in riferimento alla rivoluzione