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Capitolo V: La politica estera nel periodo 1965-

6.1 Il contesto sociale e politico

A partire dalla metà degli anni Sessanta la società romena conobbe una fase di distensione, contrassegnata dal visibile allentamento del dogmatismo ideologico e dal superamento dell’indiscriminata coercizione di massa, largamente applicata dalle autorità comuniste nel corso del precedente quindicennio. Del nuovo corso liberale avviato dalla dirigenza del PCR trasse beneficio la società romena nel suo insieme, nonostante tale corso si dispiegasse entro limiti e contraddizioni. Il processo di distensione e liberalizzazione conobbe, almeno fino al 1968, particolare slancio e ampiezza in riferimento al mondo della cultura, con ripercussioni nella produzione poetica e letteraria e nello stesso mondo accademico ed universitario, coinvolgendo globalmente un segmento non trascurabile delle giovani generazioni. Si pervenne alla creazione di un dibattito intellettuale abbastanza riccamente articolato che parve assicurare il definitivo superamento degli stilemi, dei condizionamenti e dell’uniformità culturale imposti dall’ideologia del regime fino a poco tempo prima.

La politica di distensione perseguita durante la “fase liberale” del regime si inscrisse all’interno dell’obiettivo di accrescere e consolidare la legittimazione popolare del gruppo dirigente associato al nuovo leader del partito. Indiscutibilmente, la genesi del processo di liberalizzazione riporta a decisioni politiche assunte in una fase anteriore – seppure di poco – all’insediamento al potere di Nicolae Ceauşescu. Soltanto durante un segmento cronologicamente assai limitato

dell’ ‘epoca Gheorghiu-Dej’ la popolazione godette effettivamente dei benefici dell’allentamento della repressione. Questa circostanza permise a Ceauşescu di accreditarsi dinanzi ai differenti settori della società come artefice del nuovo corso liberale e nazionale, denunciando in tal modo un distanziamento – divenuto, dal 1968, esplicito - nei confronti dell’itinerario politico compiuto dal suo predecessore. Secondo Dennis Deletant, nonostante alcuni limitati segnali di apertura manifestatisi durante il biennio 1962-63, fino alla promulgazione dell’amnistia generale del 1964 Gheorghiu-Dej si attenne a un modello di controllo sociale di natura schiettamente coercitiva. In base alla periodizzazione proposta dallo stesso Deletant, la repressione attuata dall’apparato politico e poliziesco nella Romania comunista trovò espressione in due fasi differenti1, connotate da metodi e finalità tra loro distinte. Queste due fasi corrispondono rispettivamente agli anni tra il 1948-1964 e a quelli tra

il 1964-1989. La prima fase della repressione ebbe come obiettivo la liquidazione degli oppositori; la seconda si compendiò in misure volte ad assicurare – e, di fatto, a confermare – la sottomissione dei cittadini di fronte a un regime già consolidato. Fino ai primi anni Sessanta, il terrore poliziesco coinvolse tutti i settori della società romena, nell’implacabile ricerca di avversari reali o potenziali del regime. Dopo il 1964, il comportamento dei romeni subì il condizionamento esercitato dal timore della repressione piuttosto che dal reale esercizio di essa. La repressione indiscriminatamente esercitata verso interi gruppi sociali cessò dunque di manifestarsi. Malgrado la vistosa regressione autoritaria del regime romeno verificatasi a partire dagli anni Settanta – che si sarebbe in misura crescente accompagnata a un grossolano disprezzo per i diritti dell’uomo e alle ferite inferte alla dignità e libertà dei cittadini romeni - la coercizione di massa non fu nuovamente attuata (perlomeno non nelle modalità tipiche degli anni Cinquanta) neppure durante la fasi più buia del ceausismo. Non ve ne sarebbe del resto stato bisogno, dal momento che Gheorghiu-Dej e l’ex ministro degli Interni Alexandru Drăghici avevano adempiuto in modo ‘esemplare’ all’opera di liquidazione degli avversari politici e dei “nemici di classe” del regime.

Lo stalinismo romeno aveva dato prova di particolare efficienza nel pervadere ogni ganglio della società per circa un quindicennio. Uno dei banchi di prova con il quale era misurata la sua capacità repressiva fu rappresentato dal processo di collettivizzazione delle terre avviato nel 1949. Il conflitto delineatosi con il mondo contadino, nel suo complesso decisamente ostile agli obiettivi perseguiti dalle autorità comuniste, si era ufficialmente concluso nel 1962, quando venne sanzionato il compimento del processo di collettivizzazione e statizzazione della generalità dei terreni coltivabili. I fermenti di ribellione emersi in opposizione al processo di collettivizzazione contribuirono a ingrossare le fila di alcune formazioni anticomuniste le quali, verso la fine degli anni Quaranta, scelsero la strada della resistenza armata al nascente regime: è questa una pagina poco conosciuta dell’opposizione popolare al regime comunista. Tra queste formazioni in particolare va menzionata quella guidata da Gheorghe Arsenescu e Toma Arnăuţoiu, entrambi ex ufficiali dell’armata regia2. L’importanza di tali gruppi armati - operanti principalmente nel territorio dei monti Făgăraş, nella Romania centrale - non deve essere sopravvalutata, dal momento che essi contarono su poche migliaia di aderenti nel momento di massima espansione, al principio degli anni Cinquanta. Da un altro punto di vista, tuttavia, tali movimenti costituirono l’epifenomeno di più ampie sacche di resistenza presenti nel mondo rurale. In ogni caso, gli ultimi segnali di

2 Un’opera specificamente focalizzata sul fenomenodella resistenza armata anticomunista durante il primo

ventennio di vita del regime è G. Diener, L’autre communisme in Romania. Résistance populaire et maquis,

ribellione si estinsero dopo il 1956: a tale esito concorse l’efficienza della repressione ma anche il venir meno – dinanzi alla drammatica conclusione della rivoluzione ungherese - delle speranze di aiuto da parte dell’Occidente, speranze in precedenza accarezzate da numerosi ‘insorti’.

Verso la metà degli anni Sessanta, il quadro generale appariva sotto diversi aspetti sensibilmente mutato rispetto agli anni dello stalinismo. Il consolidamento politico del nuovo regime trovava riscontro in alcune importanti trasformazioni sociali. Lungo il cammino dell’industrializzazione a tappe forzate - processo confermato e rafforzato nei suoi presupposti teorici dall’emergente linea ideologica ‘nazionale’ - la Romania aveva in parte perduto la propria vocazione di Paese a caratterizzazione socio-economica eminentemente agricola, trasformandosi in una società connotata da un’articolazione piuttosto complessa. A tale fenomeno si legava l’ascesa di un classe operaia numericamente consistente ma anche l’apparizione di un’embrionale ‘classe media’ formata da tecnici, ricercatori, ingegneri e direttori di impresa, la quale era nel suo insieme orientata a favorire una modernizzazione di segno tecnocratico della società romena. Aspetto paradigmatico delle trasformazioni sociali in corso fu il sostenuto incremento della popolazione residente nelle aree urbane e suburbane: essa raggiunse, nel 1966, un’incidenza pari al 38,2% della popolazione totale, a fronte del 23,4% registrato nel 1948.

L’insieme delle trasformazioni poc’anzi segnalate costituivano per i dirigenti del PCR il conseguimento di importanti traguardi di natura ideologico-programmatica; tali cambiamentii furono ben accetti ad una parte considerevole degli stessi cittadini romeni, i quali da essi ricavarono alcuni tangibili benefici di ordine materiale. Vivere in città divenne – in misura ancora maggiore rispetto a quanto verificatosi in passato - l’aspirazione di numerosi romeni, sulla base di motivazioni di natura sociale ed economica. La divaricazione storicamente esistente tra città e campagna in termini di livelli retributivi ed opportunità di lavoro conobbe un significativo accrescimento a causa della convergenza tra industrializzazione accelerata e contestuale stagnazione nel settore agricolo. Nel 1965, il salario mensile percepito da un lavoratore di un’azienda agricola - collettiva o statizzata - ascendeva ad appena la metà del reddito di un lavoratore del settore industriale3. Questo dato conferma la crescente svalutazione dello status degli occupati nel settore agricolo durante l’epoca comunista: coloro che rimanevano nelle campagne disponevano conseguentemente di possibilità di ascesa sociale estremamente ridotte. I benefici di carattere materiale di cui

godevano le persone insediatesi nei centri cittadini apparivano evidenti: i blocuri – ossia i grigi complessi abitativi in cemento armato che divennero la cifra distintiva del paesaggio urbano in Romania come in altri Paesi del socialismo reale - disponevano di alcuni comforts (acqua calda, elettricità) che erano sovente sconosciuti o comunque ancora difficilmente accessibili nelle aree rurali. Attraverso queste dinamiche di trasformazione, quella che era inizialmente la componente sociale più irriducibilmente avversa all’ordinamento politico e sociale comunista venne gradualmente cooptata all’interno del regime, il quale verso la metà degli anni Sessanta sembrava aver brillantemente superato la propria fase di start up, confortato in questo senso da positivi riscontri sia sul piano interno sia quello internazionale. Come osservava nel 1966 Enzo Bettiza4, terminata la buia e sinistra fase storica contrassegnata dallo stalinismo ideologico e dal terrore poliziesco, si delineava un nuovo quadro nel quale la maggioranza dei romeni aveva verosimilmente pochi motivi per rimpiangere l’incerto regime parlamentare del periodo interbellico, da cui aveva ricavato piuttosto modesti benefici in termini materiali o di altra natura.

Nel determinare l’emergere del consenso di ampi strati della popolazione nei confronti del regime fu dunque fondamentale il miglioramento complessivo delle condizioni di vita e l’allentamento della pressione repressiva. Sul piano economico, la situazione fu influenzata in termini positivi dalla congiuntura internazionale e dal crescente sviluppo multidirezionale del commercio estero romeno. Gli indici positivi della congiuntura economica riscontrati sul piano interno vanno tuttavia riportati a fattori che non si ricollegano - se non in misura molto limitata - a istanze di ‘liberalizzazione’ o a un’agenda riformatrice in questo settore. I successi riportati sul piano economico costituirono piuttosto, per i dirigenti romeni, la conferma della validità di quel modello di sviluppo comunista – tradizionale, dirigistico e relativamente autarchico nelle prospettive di fondo - rispetto al quale si era determinata una collisione dell’Urss e nel cui ambito aveva avuto la propria genesi il comunismo nazionale romeno. Nel corso degli anni Sessanta, il tasso di incremento annuo della produzione industriale rimase stabilmente al di sopra del 10% ; gli indici di produzione agricola furono comparativamente stagnanti (con un incremento annuale inferiore al 5%). Il divario esistente in termini di sviluppo tra agricoltura e industria non va annoverato nell’ambito dei fattori accidentali, ma si ricollega piuttosto a una politica economica nella quale l’agricoltura era in larga misura sacrificata come strumento di accumulazione primitiva a vantaggio dello sviluppo industriale.

Le politiche economiche promosse dalla dirigenza romena continuarono dunque ad essere improntate a un approccio dirigistico poco flessibile, nonostante vada menzionato un parziale tentativo di riforma adottato dalla conferenza del PCR nel dicembre del 19675. Le misure approvate in tale occasione prevedevano la creazione di organismi decisionali ‘intermedi’, destinati a fungere da ‘cinghia di trasmissione’ tra le misure di programmazione economica adottate dal partito e dall’esecutivo e la loro concreta applicazione a livello aziendale. L’attuazione di queste disposizioni si rivelò tuttavia effimera ed inefficace. In questo campo, ancor più che in altri ambiti, non si intervenne su elementi ‘sistemici’ inerenti al funzionamento del regime. La Romania non conobbe nulla di simile al processo di decentramento economico e di responsabilizzazione nella conduzione delle imprese che ebbe luogo nell’Ungheria kadariana tramite il “nuovo meccanismo economico”, approvato nel 1966 e polemicamente definito in Jugoslavia come ‘socialismo dei managers’, per i discreti margini di profitto che conferiva a costoro6; né si registrò alcuna inversione di tendenza nel settore dell’agricoltura, in relazione al quale – a differenza di quanto avveniva, ad esempio, in Polonia – non venne scalfito l’assioma ideologico centrato sulla necessità di una integrale collettivizzazione dei terreni produttivi. Come in precedenza ricordato, le ragioni di questo atteggiamento vanno ricondotte nella sostanziale coerenza logica che univa, negli intendimenti dei dirigenti del PCR, la scelta dell’ampliamento dell’autonomia nel proscenio delle relazioni internazionali con il consolidamento sul piano interno del ruolo direttivo del partito e – in coerenza con ciò - con il mantenimento di un approccio dirigistico rispetto alle politiche sociali ed economiche.

In conseguenza dell’approccio segnalato, gli aumenti retributivi registratisi durante questa fase furono più contenuti rispetto a quanto sarebbe lecito supporre analizzando gli indicatori di crescita economica: la ferrea legge del dirigismo impose infatti che gli incrementi produttivi comportassero elevati, crescenti tassi di reinvestimento, agendo in maniera soltanto residuale sui salari. Malgrado ciò, durante la seconda metà degli anni Sessanta i cittadini romeni sperimentarono, in termini generali, un tenore di vita relativamente soddisfacente, in ogni caso superiore a quello conosciuto sia durante la fase anteriore sia a quella posteriore del regime comunista. In questo contesto, la solidità del regime fu probabilmente rafforzata dall’emergente ruolo svolto dai numerosi homines novi i quali, nell’ambito dei processi di inurbamento e industrializzazione, avevano conosciuto una significativa promozione sociale. Egualmente importante fu la capacità del partito e della leadership di indicare alle giovani generazioni e ad un’intelligencija in trasformazione una nuova ideologia ‘nazionale’ che si

5 M. Shafir, Romania: politics, economy and society..., cit., pp.120-121 6 A. Biagini, F. Guida Mezzo secolo di socialismo reale... cit., p.92

allontanava dagli impopolari e desueti strumenti del dogmatismo ideologico e dell’esercizio indiscriminato della repressione.