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6.1.4) – OLTRE LA FAMIGLIA

2) – LE AZIONI COLLETTIVE

Un’altra importante esperienza che accade in fabbrica è quella del gruppo di donne, che inizialmente nasce come gruppo di autodifesa. Il gruppo crea uno spazio discorsivo all’interno del quale si scherza sui superiori e sui colleghi maschi. L’esperienza del gruppo permette di creare degli spazi autonomi, che sebbene inscrivibili all’interno del concetto di “mondi separati”, danno alle donne la possibilità di allargare il loro campo di esperienza. L’esperienza di gruppo serve anche a creare delle reti di conoscenze e di amicizie, che non si fermano alla fabbrica, ma si sviluppano anche al suo esterno, nel vicinato e nella società più estesa. Queste reti, basate su relazioni personali, sono importanti per ricevere un aiuto ad esempio nella ricerca di un luogo dove vivere in città e per il mantenimento della sicurezza all’interno ed all’esterno della fabbrica. E’ da queste reti che possono poi svilupparsi delle azioni collettive all’interno della fabbrica, ad esempio contro un supervisore maschio che picchia le aiutanti o all’esterno, contro un proprietario di case che richiede un affitto troppo alto. Le reti collegano i vari aspetti del mondo della vita delle donne lavoratrici, la casa, il vicinato, le colleghe di fabbrica, con altre immigrate, con le vicine, ecc. Le esperienze di unità, di lotta per la propria indipendenza o per il riconoscimento della propria dignità all’interno della fabbrica, influenzano i processi di negoziazione sia a casa che sul lavoro e viceversa. Il potere contrattuale acquisito durante i conflitti, sia in fabbrica che a casa, viene esportato nei vari aspetti del mondo della vita delle donne lavoratrici, aumentando così il loro spazio di manovra. Le reti, rappresentano il fondamento sul quale lo scontento individuale delle donne può convertirsi in azioni collettive. Ma nonostante la creazione delle reti, la partecipazione delle donne lavoratrici alle azioni collettive è individualizzata e frammentata ed anche polarizzata fra diversi gruppi di età e di posizione sociale. Le azioni collettive, ad esempio per ottenere un aumento di salario, sono difficili da organizzare, ma non sono nemmeno percepite e concepite dalle donne come obiettivo di un’azione di gruppo. La strategia più diffusa è quella individualistica di lasciare il posto di lavoro attuale per cercare una nuova fabbrica dove si può ricevere un salario più alto. Questo è il risultato di una strategia del tipo “divide et impera”, scelta dal management aziendale proprio per impedire lo svilupparsi di azioni collettive. Ne nasce un’atmosfera di sospetto, nella quale le lavoratrici non si fidano l’una dell’altra, visto che alcune donne guadagnano di più per svolgere le stesse mansioni. Le donne si accusano l’un l’altra di flirtare con il supervisore per farsi aumentare lo stipendio. Le azioni collettive che si sono sviluppate, sono state di breve termine e sporadiche e

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dirette contro degli specifici incidenti (proteste contro il ritardato pagamento dei salari, sfociate poi nel blocco delle macchine da cucire). In queste occasioni, sono le donne più anziane a prendere l’iniziativa, a condurre la lotta ed a discutere poi con il management. Legami di origine geografica possono avere un ruolo nel crearsi di affinità tra lavoratrici e datori di lavoro, legami che sono più forti dello spirito di gruppo, di “classe”. Anche la situazione generale, con l’altro tasso di disoccupazione del Bangladesh e la forte concorrenza di forza lavoro femminile, scoraggiano l’intrapresa di forme di lotta che potrebbero poi portare al licenziamento di chi le ha praticate. Quando avvengono le azioni collettive, il management cerca di sottoscrivere degli accordi separati con le leaders, dividendo il movimento, o cerca di licenziarle. Una minaccia usata spesso è quella di chiudere la fabbrica. In queste condizioni è oggettivamente difficile costruire unità e solidarietà, le basi dell’azione collettiva. E’ difficile evidenziare le ragioni per le quali gli individui acquisiscono delle identità collettive che li legano ad altri nel luogo di lavoro. Possiamo comunque affermare che per quanto ritenute docili, le donne lavoratrici sanno protestare, sia individualmente che collettivamente contro le diverse forme di sfruttamento, sia in casa che in fabbrica. In generale, nella storia del movimento operaio, le donne hanno svolto un ruolo importante, ma i rapporti tra donne e sindacati istituzionali sono stati sempre problematici. In Bangladesh, i sindacati hanno iniziato sa poco a scoprire le lavoratrici tessili, ma la partecipazione delle donne è stata molto bassa. Se i sindacati accusavano di ciò la mancanza di istruzione delle donne e la loro provenienza rurale, possiamo invece affermare che la ragione principale è il tipo di approccio che i sindacati ufficiali hanno avuto nei confronti delle donne. I sindacati bangladese sono collegati a dei partiti politici e gli interessi delle loro alleanze politiche sono spesso più importanti di quelli dei lavoratori. I sindacalisti si aspettano che le donne lavoratrici prestino attenzione alle richieste di politica generale fatte dai sindacati, anche se queste non sono sempre finalizzate ad esprimere le richieste reali, collegate alle condizioni lavorative, delle stesse donne lavoratrici. Problemi tipici delle lavoratrici sono ad esempio la difficoltà nel tornare a casa la sera tardi, oppure l’essere maltrattate in fabbrica e questi problemi, non appaiono mai nelle liste di richieste fatte dai sindacati istituzionali. La loro realtà lavorativa e le loro esperienze quotidiane in fabbrica non sono mai state realmente espresse nelle riunioni e nei discorsi dei rappresentanti sindacali. Un altro elemento che distanzia le donne dai sindacati è che questi lavorano principalmente con operatori maschili, che spesso non hanno esperienza del lavoro in fabbrica e che sono lontani dalla realtà di vita delle donne lavoratrici. Le donne che hanno avuto contatti con i sindacati, non potevano contattare gli organizzatori e non riuscivano a trovare degli interessi comuni con gli uomini del sindacato

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che le rappresentava. Nelle fabbriche poi, gli uomini con cui le donne erano in contatto, erano spesso di una condizione gerarchica superiore, in genere dei supervisori. I rappresentanti sindacali le trattavano nello stesso modo in cui venivano trattate dai superiori maschi in fabbrica, disincentivando così ogni interesse delle donne per un’attività, quella sindacale, che oltretutto non era né obbligatoria, come il lavoro, né remunerata.

Nel 1994, quattro lavoratrici tessili che lavoravano assieme ed avevano avuto delle esperienze negative con diverse federazioni sindacali, fondarono il “Bangladesh Independent Garment Workers Union Federation” (BIGUF) (Federazione delle Unioni Indipendenti delle Lavoratrici Tessili del Bangladesh). Ciò avveniva con l’aiuto di un’agenzia internazionale, un sindacato degli USA, l’Asian American Free Labor Institute (oggi American Center for International Labor Solidarity), che operava a livello internazionale. Venne poi convocata, sempre nel 1994, una Convenzione Generale, che elesse un Comitato Esecutivo, composto da 15 lavoratrici. Per statuto, le posizioni di Presidente e di Segretario Generale dovevano essere occupate da donne (ricordiamo che le donne rappresentano l’85% della forza lavoro del settore tessile). Scopi dell’organizzazione erano quelli di migliorare i termini e le condizioni di impiego delle donne lavoratrici e di offrire varie forme di sostegno alle richieste immediate delle associate. Questa organizzazione infatti, voleva prendersi cura anche dei bisogni quotidiani delle lavoratrici. Per questo, vennero assunte due donne avvocato e vennero istituite delle scuole serali per lavoratrici, oltre che a delle scuole per i bambini che lavoravano nelle fabbriche. Vennero istituite anche delle cliniche mediche, per ovviare alla mancanza di assistenza sanitaria. Inizialmente il trattamento sanitario era limitato alle lavoratrici, ma poi venne esteso anche ai loro familiari. Nell’area industriale di Dhaka, l’unione gestiva tre centri, aperti di sera e di venerdì (il giorno festivo settimanale nei paesi di religione musulmana). Gli incontri del venerdì erano utilizzati per delle riunioni molto affollate, con la presenza di canti, danze e piccole rappresentazioni teatrali, che generavano tra i presenti un sentimento di partecipazione collettiva, di identificazione. Le donne intervistate dalla Dannecker, mostravano di apprezzare il programma culturale del sindacato BIGUF, che secondo loro permetteva il costituirsi ed il conservarsi di un senso di dignità umana e di creatività culturale, esperienze difficili da vivere nelle fabbriche moderne, a causa del tipo di organizzazione dei processi lavorativi e del modo in cui veniva trattata l’esperienza delle donne lavoratrici. Le operatrici sindacali del BIGUF non erano esterne alla fabbrica, ma vi si erano formate ed avevano quindi presenti quali erano i problemi dell’attività quotidiana delle donne lavoratrici. Gli incontri nelle sedi

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sindacali, oltre che alla discussione dei problemi lavorativi, servivano anche da collante culturale ed anche da luogo di scambio di informazioni utili ad esempio a trovare un lavoro meglio pagato o una fabbrica con un ambiente lavorativo più piacevole. n questi centri, le reti informali confluivano in un’organizzazione più formale che forniva uno spazio per il riconoscimento ufficiale dei problemi discussi dalle lavoratrici. Il tipo di interazione che avveniva tra queste donne ricorda il “gruppo in fusione” di Sartre : si va oltre la relazione di tipo seriale, anche se di tipo faccia a faccia e si va verso un’integrazione degli scopi individuali con quelli collettivi, verso un’identificazione di gruppo. Non c’è ancora il “patto” di gruppo, il giuramento che lega i membri del gruppo in fusione in un legame di vita e di morte in comune, perché non sono queste le finalità di un’organizzazione sindacale, ma vediamo il costituirsi di un gruppo scelto, anche se esteso, al di fuori della famiglia e del suo ambito. Questo, è un fenomeno nuovo per un paese come il Bangladesh, dove le donne non hanno voce al di fuori della famiglia e dove le interazioni in ambito extra-familiare sono dettate dalle norme della segregazione di genere o da un’integrazione di genere rigidamente guidata. Spesso, per queste donne, le sedi sindacali erano gli unici spazi dove potevano iniziare a parlare con altre donne delle loro esperienze e dei loro problemi specifici.

Ovviamente anche qui non tutto era armonioso, anche qui lotte, chiacchiere, liti e discussioni accompagnavano le interazioni quotidiane. Spesso le donne più anziane accusavano quelle più giovani di flirtare dentro e fuori la fabbrica o addirittura, nelle stesse sedi sindacali. Ma questi conflitti, riflettevano l’ambivalenza dell’esperienza delle donne e sono una testimonianza del cambiamento sociale che stava avvenendo.

Al momento dell’indagine della Dannecker, il BIGUF contava circa 16.000 membri, anche se un’alta percentuale di donne non era attivamente coinvolta nel lavoro sindacale, oppure frequentava le sedi solo per fruire dell’assistenza sanitaria o legale. Il BIGUF non era a quel momento ancora registrato (venne registrato nel 1997) come federazione sindacale ufficiale, perché l’ente predisposto a questo compito, ogniqualvolta veniva presentata una richiesta di registrazione, scovava dei pretesti per escludere questo scomodo concorrente dei sindacati ufficiali. Nel 1995 il BIGUF è stato anche vittima di un grave episodio di attacco, con l’incendio di una sede e la minaccia di uccidere alcuni membri del sindacato, quale ritorsione per una causa di lavoro vinta in tribunale contro la sospensione illegale di alcune lavoratrici. Il sindacato BIGUF si dichiara “apolitico”, ma è indubbio che con la sua azione crei delle risposte “politiche” da parte degli imprenditori e degli altri sindacati. E’ necessario probabilmente che la dirigenza del BIGUF affronti questo tema legato alla sua

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“politicizzazione” non partitica ed alle necessità organizzative per riuscire a creare una base organizzata strutturalmente più forte e diffusa, per le donne lavoratrici.

Importante è comunque l’altro ruolo svolto da questo sindacato, il suo ruolo sociale : le sue sedi, come abbiamo già visto rendono possibile alle donne creare degli spazi per sé stesse. Incontrare degli uomini, ad esempio, è un caso di utilizzo di questi spazi non previsto dall’organizzazione. Le donne poi possono incontrarsi per bere il tè e sedersi a chiacchierare senza essere sotto sorveglianza. Ciò può sembrare banale, ma in una società a segregazione di genere qual è quella del Bangladesh, ciò veniva visto da alcune delle donne intervistate dalla Dannecker come l’incentivo più importante che le spingeva a frequentare regolarmente le sedi del sindacato. Difficilmente a Dhaka le donne avevano e hanno tuttora altri luoghi nei quali potevano incontrarsi. I teashops ed i ristoranti non erano posti adatti per le donne e passeggiare o incontrarsi in un parco non era né buono per la loro reputazione, né sicuro. A casa, la gran parte delle lavoratrici non aveva e non ha tuttora abbastanza spazio per sé stesse e nessuna privacy, poiché gli altri membri della famiglia erano sempre presenti ed inoltre potevano arrivare anche i vicini, a far visita. In questo modo, le sedi sindacali sono diventate anche dei luoghi di incontro per potersi scambiare delle informazioni, per costruire delle relazioni sociali, per chiacchierare e per rilassarsi, diventando così dei nuovi spazi sociali aperti alle donne.

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