Come altre popolazioni dell’Asia del Sud, i bangladesi hanno iniziato ad emigrare in Gran Bretagna, da qualche centinaio d’anni. I Lascars, i marinai originari del subcontinente indiano, erano presenti fin dall’inizio sulle navi dell’East India Company. Una gran parte di questi proveniva dall’attuale Bangladesh e più precisamente dai distretti di Chittagong, Noakhali e Sylhet.
Alcuni di questi marinai, attorno agli anni ’30 del ventesimo secolo, abbandonarono le navi all’arrivo nel porto di Londra e diedero così origine alla locale comunità bangladese. Dalla metà del ventesimo secolo, la gran parte del flusso migratorio bangladese nel Regno Unito proveniva dal distretto di Sylhet e ne rappresentava circa il 95%. Per quale motivo l’immigrazione bangladese nel Regno Unito proviene quasi esclusivamente da questo distretto ? Sono tre le ragioni principali:
1) - gli abitanti dello Sylhet ritengono di discendere dai primi missionari islamici arabi che raggiunsero quelle terre e ritengono inopportuna una loro occupazione quali salariati nel settore agricolo;
2) - il processo di impoverimento generale e di frammentazione della proprietà fondiaria, sebbene generale nel Bangladesh, è stato più accentuato in questa zona. Ciò ha favorito l’emigrazione di molte persone impoverite e rimaste praticamente senza terra;
3) - il particolare sistema di proprietà del terreno nel distretto di Sylhet. Nel 1874, lo Sylhet venne staccato dal Bengala e trasferito allo stato dell’Assam. Se nel resto del Bengala la terra veniva suddivisa in grandi aziende, assegnate ai proprietari latifondisti, i Zamindars, che a loro volta le subconcedevano ad altri affittuari e mezzadri, nello Sylhet si formò una classe di piccoli proprietari coltivatori indipendenti. Quando la frammentazione fondiaria, come abbiamo visto al punto 2, rese impossibile la sussistenza basata sulla sola coltivazione dei fondi agricoli, molti preferirono emigrare piuttosto che lavorare come salariati, ruolo sociale che sarebbe stato troppo in contrasto con quello loro precedente di coltivatori indipendenti ed autonomi. Come abbiamo già visto, attorno al 1930 aveva cominciato a formarsi nell’East End londinese una prima comunità di marinai bangladesi che avevano abbandonato le navi sulle quali si erano imbarcati. Quali cittadini del Commonwealth, non avevano problemi legali ad insediarsi in Gran Bretagna, l’unico loro problema era che per un periodo di due anni avrebbero potuto essere rintracciati dalle compagnie navali per le quali avevano lavorato ed essere costretti a ritornare sulle navi. Il numero di questi immigrati era comunque relativamente ridotto e si trattava di uomini che
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mantenevano nel Bangladesh le loro famiglie. Un grosso cambiamento avvenne con il Commonwealth Immigration Bill (Legge di Immigrazione dal Commonwealth), del 1962. In risposta all’aumentata attenzione sociale al problema razziale, la legge introduceva un sistema di permessi (Vouchers), in base al quale solo quei cittadini del Commonwealth che erano in possesso di permessi rilasciati dal Ministero del Lavoro potevano entrare nel Regno Unito in cerca di lavoro. Sebbene la misura intendesse porre un freno all’immigrazione, ebbe invece l’effetto opposto, poiché la prospettiva di buoni salari, unita al timore di più severe restrizioni future, portò ad un alto numero di permessi. Paradossalmente, il “problema razziale” si acutizzò e vide il sorgere di profeti di sventura, come il razzista Enoch Powell. Nel 1965 il governo abbassò il numero di permessi da rilasciare ogni anno da 30.100 a 8.500. Nel 1968, una seconda legge sull’immigrazione introdusse ulteriori restrizioni, per cui nel corso degli anni ’70 le nuove immigrazioni cessarono e vennero permessi solo i ricongiungimenti con i già residenti. Il sistema dei permessi, facilitò l’immigrazione bangladese dallo Sylhet, poiché coloro che provenivano da quel distretto, avevano maggiori possibilità di essere sponsorizzati dai parenti e dai conoscenti che già risiedevano in Gran Bretagna. Questi, che provenivano da quelle aree dello Sylhet chiamate “Londoni”, per la loro alta percentuale di emigranti, svolsero un ruolo di mediatori, facilitando l’ottenimento dei permessi da parte di parenti e di conoscenti provenienti dalle loro stesse aree di origine nel Bangladesh ed aiutandoli a sistemarsi una volta arrivati in Gran Bretagna. I bangladesi emigrati tra gli anni ’50 e ’60, avevano accettato qualsiasi tipo di lavoro venisse loro offerto e per la gran parte, avevano trovato residenza nel rione di Spitalfields, nel quartiere di Tower Hamlets, vicino alla Torre di Londra, nell’east End londinese, non lontano dalle zone del porto dove si erano sistemati i primi immigrati bangladesi, i lascars. Altri invece si recarono a nord, nelle città industriali di Oldham (fabbriche tessili), Sheffield e Scunthorpe (acciaierie) e Leeds (industria meccanica e fonderie). Inizialmente, come nel caso dei pakistani, i bangladesi si insediarono come comunità di visitatori, piuttosto che come comunità di permanenti, sperando di fare fortuna in Gran Bretagna e di poter tornare a casa come ricchi signori di status sociale elevato. Ma alla fine degli anni ’60 queste speranze cominciarono ad affievolirsi. Potevano trovare solo lavori non-qualificati, le cui retribuzioni non permettevano di finanziare il favoloso ritorno sognato. Cominciarono quindi i ricongiungimenti familiari, con l’arrivo nel Regno Unito di mogli e figli. Il processo fu comunque lungo, a causa di diversi fattori, tra i quali l’alto costo del viaggio, la difficoltà di trovare una sistemazione abitativa dignitosa, la crescita delle minacce di tipo razzista ed il timore degli uomini per quanto riguardava l’esposizione delle loro donne ai valori ed
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all’influenza dell’occidente. La gran parte dei ricongiungimenti avvenne nel corso degli anni ’80. Secondo i dati del censimento del 1981, nella comunità bangladese di Tower Hamlets, c’erano 2 uomini per ogni donna, a differenza di ciò che avveniva nel resto del quartiere, dove c’era 1 donna ogni 0.98 uomini. Nel 1985, in Gran Bretagna, c’erano 100.000 bangladesi, secondo il governo britannico e 160.000 secondo quello del Bangladesh. Nel 1991, erano 162.835, di cui almeno 50.000 nell’East London. Circa 26.000 di questi vivevano nel quartiere di Tower Hamlets e rappresentavano circa il 9% della popolazione del quartiere, mentre in altri quartieri, raramente superavano l’1.5%. Nel quartiere di Tower Hamlets, nell’area attorno a Brick Lane, Cannon Street Road e Hessel Street, si era sviluppata una notevole infrastruttura di servizi quali drogherie, macellerie halal, negozi di vestiario, agenzie di viaggi e di compagnie di taxi, finalizzata a rispondere ai bisogni della comunità. La gran parte degli uomini bangladesi si impiegò comunque in tre settori : catering, vendita e manifattura, specialmente nel settore tessile, degli abiti già pronti. La gran parte dei ristoranti “indiani” del Regno Unito, sono gestiti da bangladesi, abilità che sembrano aver appreso quando erano impiegati sulle navi e che poi hanno trasmesso a figli e nipoti.
6.2.2) – L’INDUSTRIA TESSILE BRITANNICA E L’IMMIGRAZIONE
BANGLADESE.
Fin dai tempi della Rivoluzione Industriale, l’industria tessile britannica si specializzò nel settore degli abiti già pronti. Questo settore, per le sue particolari caratteristiche (bassi salari, orario di lavoro prolungato e condizioni di lavoro non igieniche), venne affidato quasi interamente a manodopera femminile, in condizioni di lavoro parcellizzato e sub-appaltato in laboratori di dimensione familiare. Le lavoratrici che svolgevano queste attività non avevano alcun potere contrattuale e dovevano quindi accettare le paghe offerte da chi commissionava il lavoro. In questo ambiente sociale, la controparte all’ideologia bangladese che vede l’uomo procacciatore di reddito contrapporsi la donna da lui dipendente, era rappresentata dalla realtà della maggiore responsabilità delle donne per il lavoro domestico e per la cura dei figli, realtà che serviva a differenziare le modalità di entrata della donna nel mercato del lavoro. Le donne, sebbene dal 27% dei lavoratori totali del 1881, fossero passate al 34% del 1984 ed al 42% del 1980, rimangono, in Gran Bretagna, ma anche nel resto del mondo occidentale, concentrate in settori specifici del mercato del lavoro e nei settori di lavoro meno pagati. Anche qui, è l’uomo a portare a casa il “salario familiare”, mentre il lavoro delle donne può solo integrarlo. Anche qui i sindacati hanno svolto un ruolo negativo nei confronti delle donne, privilegiando il
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lavoratore maschio qualificato e di fatto escludendo dalla fabbrica i lavori femminili meno qualificati e meno pagati. Questi lavori, vennero svolti dalle mogli degli operai meno qualificati, dalle donne sole, dalle donne giovani, poiché l’azione sindacale tendeva ad accrescere i salari degli operai qualificati, in modo che le loro mogli non dovessero lavorare. Ciò riflette in parte la situazione del Bangladesh, dove abbiamo visto come le donne che dovevano andare a lavorare, per sostenere la famiglia erano le mogli degli agricoltori con poca terra o dei braccianti.
Dopo la II Guerra Mondiale, le più grandi fabbriche tessili si erano trasferite nel Galles del Sud, ma l’industria tessile che produceva abiti per donne, rimase nell’area londinese, sia nel settore di lusso che in quello delle produzioni di massa. Per rimanere competitive però, queste industrie dovevano disporre di una manodopera malleabile, che potesse affrontare dei rapidi cambiamenti relativi ai carichi di lavoro, che poteva passare dal bisogno dello straordinario, fino a momenti di quasi assenza di attività.
Si svilupparono così dei settori produttivi che sezionavano il processo produttivo in gruppi di mansioni semplificate : Cut-make-and-trim (CMT) (taglia-rifinisci e cuci-e-rifinisci). Queste lavorazioni venivano sub-appaltate a piccole manifatture, che a loro volta passavano il lavoro a delle lavoratrici domestiche, che lavoravano a casa, in base alle ordinazioni delle ditte CMT. Negli anni ’60, molte di queste lavorazioni passarono dal resto del Regno Unito a paesi asiatici (Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong), ma l’industria londinese rimase estranea a questi processi di dislocazione del lavoro. Ciò che accadde invece, fu l’assunzione in gestione di molte ditte CMT da parte di imprenditori appartenenti minoranze etniche, che si servivano anche di manodopera di origine etnica omogenea. Sin dagli anni ’60, gli immigrati bangladesi costituiscono la gran parte della forza lavoro dell’industria tessile dell’East End londinese. Le manifatture più grandi erano di proprietà di imprenditori Ebrei e Ciprioti, mentre quelle più piccole erano di imprenditori Indiani e Pakistani. I lavoratori bangladesi erano concentrati nei settori più informali di questa industria, ma negli anni ’80 molti di questi lavori vennero tagliati e gli imprenditori cominciarono a trasferire le loro attività alle lavoratrici domestiche. L’effetto fu devastante per la comunità bangladese, dove tra gli uomini, la disoccupazione salì a livelli del 60-70%. Con l’aumentare del lavoro in casa, molte donne bangladesi, ebbero sia il bisogno economico che l’opportunità, di aumentare la loro attività nei laboratori casalinghi. Molte, diventarono le principali fornitrici di reddito delle loro famiglie. Gran parte di questa attività rimase spesso confinata nel settore informale, nel lavoro nero e quasi sconosciuta a livello sindacale. Il risultato paradossale delle ricerche del settore che mostravano come, sebbene gli investimenti ufficiali nell’industria tessile fossero diminuiti significativamente
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dal 1974 al 1982, non ci fosse stato un significativo declino della crescita produttiva del settore, venne spiegato con il presupposto aumento della produttività del lavoro, dovuta alla diminuzione degli occupati ed alla maggiore efficienza delle nuove tecnologie produttive. Invece, uno studio su piccola scala sulla comunità cipriota di Londra (Bitter, 1986), mostrava come nel settore tessile la forza lavoro delle lavoratrici domestiche fosse aumentata dal 40% del 1979 al 60% del 1984.
Solo dopo il 1985 il Business Statistic Office cominciò a rilevare le ditte con meno di 20 dipendenti ed il numero di queste passò da 1707 a 3172, con meno di 10 dipendenti. Se le fabbriche durante questa trasformazione produttiva avevano perso 13.100 posti di lavoro, nel settore dei laboratori domestici, questi erano stati rimpiazzati da 17.030 nuovi posti di lavoro. Sebbene le statistiche ufficiali stimassero nel 1977 la percentuale di occupazione delle donne bangladesi e pakistane al 17%, Anwar (1979) trovò che in quel periodo la maggioranza delle donne della comunità pakistana erano occupate nel settore del lavoro tessile ed escluse dalle statistiche ufficiali. Perché questi settori produttivi, oltre che alle erronee metodologie di rilevazione degli enti statistici sono rimaste così nascoste anche alla pubblica opinione ed alle linee d’azione delle organizzazioni sindacali del settore ? Per molti, il lavoro domestico era visto come una scelta culturale logica per le donne asiatiche musulmane e quindi non necessariamente un argomento di interesse pubblico. Sia i sindacalisti che gli imprenditori del settore tessile, intervistati nel 1985 da Naila Kabeer e da Nick Chisolm, non riuscivano a collegare la concentrazione della comunità bangladese in nicchie ristrette e specifiche del mercato del lavoro, alla loro marginalizzazione economica. La consideravano invece una conferma della diversità culturale degli immigrati, del loro desiderio di rimanere uniti e delle loro preferenza per quel tipo di lavoro. Kabeer riflette su un aspetto del lato londinese della sua ricerca sulle lavoratrici del settore tessile, legato all’apparire di una rappresentazione contrastante della coppia cultura/economia, nei discorsi dei lavoratori britannici. Il concetto di cultura compariva raramente nella discussione sul comportamento, sul mercato del lavoro dei lavoratori bianchi, fossero essi uomini o donne. Piuttosto, la discussione verteva su argomenti quali le abilità lavorative, le differenze salariali, i costi della custodia dei figli, la partecipazione al sindacato e al potere della contrattazione collettiva. Quando invece la conversazione verte sui lavoratori bangladesi o di altre comunità asiatiche, si insinua sempre nella conversazione un discorso altamente qualificato in modo razzista : “loro stanno sempre insieme”, “loro non pagano le tasse”; “loro tengono a casa le loro donne”. Gli imprenditori bianchi si lamentavano di non poter competere con gli imprenditori asiatici che impiegavano membri delle loro comunità di appartenenza e che sfruttavano con varie
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pratiche feudali, pagando un salario singolo per marito e moglie, oppure utilizzando manodopera familiare non remunerata. Per i sindacalisti, i lavoratori asiatici mancavano di coscienza di classe. In questo modo, le condizioni di sfruttamento nell’industria tessile dell’East End londinese, venivano equiparate, nella mentalità pubblica, con le attitudini e le pratiche culturali degli immigrati. Una visione più realistica è quella di Shah (1981) :
“L’immigrato ….. non può concedersi il lusso della scelta di un lavoro, né oltretutto è nella posizione da potersi permettere di preoccuparsi per l’“immagine” di un settore industriale. Lei o lui, sono semplicemente entrati in un settore produttivo dove c’era richiesta di manodopera e perché a causa del tipo di abilità richieste, persone con scarse abilità e con difficoltà linguistiche potevano essere facilmente accettate …….. Indubbiamente i lavoratori immigrati sono preparati a tollerare delle condizioni lavorative non buone più degli altri, più perché sono costretti a farlo che non perché essi abbiano delle affinità con queste condizioni.
Queste condizioni, sono parte del tessuto urbano dell’east End e questo tipo di industria necessita di essere lì localizzata. Suggerire che gli immigrati abbiano generato queste condizioni è falso adesso come lo era quando questo criterio di giudizio veniva applicato agli ebrei del diciannovesimo secolo”.
Le poche analisi compiute sulle donne della comunità bangladese di Londra, tendono a riprodurre una rappresentazione di queste donne asiatiche come fossero delle stupide culturali (cultural dopes), le cui azioni possono essere interamente spiegate nei termini della loro religione e della loro cultura. Un’indagine sull’industria tessile dell’East End londinese attribuisce ad esempio la predominanza del lavoro casalingo tra le donne bangladesi, alle forti aspettative familiari ed ai legami religiosi e sociali che le vincolano alla casa, oltre che alle necessità richieste dalla cura dei figli. Secondo il rapporto sulla popolazione bangladese di Tower Hamlets, della Commission for Racial Equality (Commissione per l’Uguaglianza Razziale) del 1981, il libero incontrarsi dei sessi è usualmente disapprovato dall’Islam ed il ruolo della donna al di fuori della casa è severamente limitato. Queste limitazioni alle donne bangladesi contribuiscono al loro isolamento e limitano le loro opportunità di apprendere la lingua inglese. Questo tipo di analisi è stato criticato perché permette il riprodursi degli stereotipi di senso comune sulla “passività” delle donne asiatiche, sulla struttura patriarcale delle loro famiglie e sul potere della religione.
Secondo Parmar (1982), diventa così facile poi :
“accusare i fattori culturali, religiosi e comunitari, per la posizione subordinata che le donne asiatiche occupano nella struttura sociale britannica”.
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Sempre secondo la Parmar, anche se la cultura e la religione avessero avuto un ruolo nello spiegare l’alta percentuale di lavoro in casa tra le donne musulmane, l’ignorare altri fattori strutturali, quali la presenza di figli piccoli, la mancanza di accesso a strutture per la cura dei figli o di forme alternative di impiego, ha dato luogo ad una spiegazione rozza e monocausale, che nasconde la complessità che ha permeato la vita di queste donne. Un approccio diverso si nota nella letteratura degli ultimi anni ’80 e dei primi anni ’90, dove ci si allontana da una semplicistica prospettiva culturalista, prendendo in esame i fattori citati dalla Parmar e dove si comincia ad intravedere un ruolo non solo restrittivo,ma anche positivo della cultura, che viene percepita come un capitale e non solo come un limite. Secondo la Phizacklea (1990), un alto tasso di imprenditorialità in particolari comunità etniche è dovuto ad una combinazione di razzismo e di pratiche di esclusione che confinano la gran parte dei gruppi etnici verso settori limitati del mercato del lavoro, oltre che a modelli migratori che hanno dato a questi gruppi particolari, la possibilità di ricongiungersi con la famiglia ed i membri della loro comunità, dando origine ad una forza lavoro femminile. Gli imprenditori appartenenti alle minoranze etniche hanno così potuto creare dei legami di parentela e di appartenenza comunitaria, che hanno permesso loro di avviare una forma particolare di attività economica, l’impresa a manodopera intensiva, grazie alla quale hanno un vantaggio nei confronti di altri tipi di impresa. Ladbury (1984) e Mitter (1986), hanno suggerito che le imprese “etniche” possano avere un’attrazione particolare per le comunità che sono profondamente legate al concetto di onore (izzat o filotimo) delle loro donne, siano esse del Sud dell’Asia o cipriote. La creazione di imprese a base comunitaria nell’industria tessile ha dato alle donne la possibilità di lavorare a casa o in un ambiente esterno “sicuro”. Legami etnici e familiari mantengono i salari bassi e le lavoratrici non-sindacalizzate e circondate da un mondo bianco ostile e molte donne immigrate temono di incorrere nell’ira dei loro mariti. Ma la crescita degli sweatshops (laboratori di sfruttamento) e del lavoro in casa in queste comunità non possono essere attribuiti soltanto ai valori patriarcali. Il razzismo nel mercato del lavoro, che confina i lavoratori delle minoranze etniche ai lavori meno desiderati e peggio pagati, ha reso un’opzione attraente la possibilità di lavorare all’interno della propria comunità. In molti casi, le donne così occupate erano il supporto economico delle loro famiglie. Questo tipo di studi ha superato le semplificazioni dei modelli strettamente culturalisti, con il loro approccio statico alla realtà delle minoranze etniche, per porsi delle domande più vitali su come ad esempio, le caratteristiche interne di una comunità interagiscano con il contesto sociale più ampio in cui la comunità stessa esiste. E’ a questo tipo di relazioni, tra interno ed esterno al gruppo, tra preferenza e bisogno, che dobbiamo indirizzarci se vogliamo