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5.2.4.1) – INTRODUZIONE.

Nella tradizione islamica, se all’uomo corrisponde il ruolo di tramite attivo tra la famiglia e la società, alla donna corrisponde la virtù della modestia (Hijiab). All’uomo corrisponde la virtù dell’orgoglio, della messa in mostra di sé e dei risultati sociali raggiunti. La donna

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invece, vive all’ombra dell’uomo, nel mondo della casa. Abbiamo visto però che anch’essa serve a veicolare una virtù dell’uomo : l’onore, Izzat, che travalica l’orizzonte familiare per riflettersi sull’intero campo sociale. Se la modestia è il corrispettivo della condizione femminile in generale nel mondo islamico, nel sub-continente indiano, dal Pakistan al Bangladesh, passando attraverso l’India, il corollario della modestia è il sistema del Purdah, termine di origine persiana, che possiamo tradurre con tenda, velo, schermo. Il purdah è una pratica che prevede la segregazione delle donne dalla pubblica osservazione, con l’utilizzo di abiti che nascondono la donna dal capo ai piedi e con l’uso di alte mura, tende e schermi eretti all’interno della casa. Il purdah è adottato dai Musulmani e da molti Hindu, in gran parte del sub-continente indiano, ma trova una maggiore adesione nelle pianure del nord, tra gli Hindu di casta elevata e tra i Musulmani in generale e tra le loro famiglie più ricche in particolare. L’isolamento dei membri femminili dalle forme pubbliche di attività economica o il loro ritiro da queste forme di lavoro, quando ciò sia possibile, sono dei mezzi importanti per segnalare lo status sociale all’interno di queste comunità. Nel periodo pre-islamico, il velo era indossato dalle donne arabe di classe superiore, al tempo degli Imperi Bizantino e Persiano, quando coprire il capo era considerato un simbolo di status. Sembra che la pratica della segregazione femminile fiorisse nell’antica Babilonia, dove le donne potevano uscire di casa solo se velate e guidate da un maschio della famiglia. Anche diverse parti della casa erano separate, quale pratica dell’isolamento. Le donne Assire dell’antichità, dovevano rimanere in casa, nascoste dietro delle tende, in stanze dove regnavano l’oscurità ed una lieve brezza. Nel settimo secolo D.C., durante la conquista araba dell’attuale Iran, sembra che i Musulmani incorporassero la pratica del purdah nella loro religione. Ma in questo caso, si tratta più propriamente dell’Hijiab, perché come vedremo, il purdah non è semplicemente la pratica della segregazione femminile, ma una sua particolare declinazione sud-asiatica. Sebbene il Corano non obblighi all’uso del velo per coprire il viso ed al purdah come viene praticato nel sub-continente indiano, incoraggiava le mogli del Profeta Maometto a coprirsi il capo, per evidenziare la loro separazione dal resto della comunità. Il Corano parla eventualmente di coprire il seno delle donne, non il capo o il viso. Col passare del tempo, le leggi associate al purdah sono diventate sempre più severe. Durante il dominio britannico dell’India (che ricordiamo, comprendeva oltre all’attuale India, anche il Pakistan,il Bangladesh e lo Sri Lanka), l’osservanza del purdah era molto diffusa tra i Musulmani, anche come modo per distinguersi dai dominatori inglesi. Nell’analisi di Naila Kabeer (“The Power To Choose”, London, 2000), il concetto di purdah è importante per la sua associazione empirica con ragioni di disuguaglianza di genere e per i limiti reali che

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pone alle scelte di vita delle donne. La sua origine è collegata alla logica di regole di discendenza patrilineare e per questo, il nome della famiglia e le sue proprietà sono trasmessi in gran parte, come abbiamo già visto trattando il diritto musulmano, attraverso i figli maschi. In questo contesto, la paternità dei figli diventa una questione sociale cruciale e per il suo controllo, si rende necessario attivare un rigido controllo della sessualità e della capacità riproduttiva femminile. Il sistema del purdah è centrale per l’emanazione delle disposizioni con cui questo controllo viene esercitato. Cardine centrale del sistema del purdah è, come abbiamo già visto, l’Izzat, l’onore, l’onore familiare, veicolato principalmente nella virtù e nella modestia delle donne del gruppo familiare. E’ necessaria una costante sorveglianza per assicurarsi che le donne non commettano azioni che possano portare Sharam (vergogna), sui loro familiari. Il purdah, esprime la demarcazione simbolica, fisica ed economica, dell’universo, lungo linee di genere. Opera ad un livello fisico e spaziale, dividendo la sfera nascosta e domestica delle donne da quella pubblica e visibile degli uomini. E’ anche un principio comportamentale, che regola il comportamento femminile, definendo le norme di modestia e di virtù. Ad esempio, la voce femminile non deve raggiungere orecchie maschili al di fuori della casa; la donna deve parlare a bassa voce; le ragazze vengono ammonite dalle loro madri a parlare con voce dolce; alle ragazze, vengono inculcate le virtù della dolcezza e della sottomissione. Corollario del purdah sono i vestiti che nascondono e che le donne indossano per proteggersi dagli sguardi degli uomini estranei al loro nucleo familiare, quando escono di casa. Tutto ciò, ha delle ripercussioni a livello economico per le donne, poiché il purdah limita le opportunità lavorative e quindi, permette alle donne il reperimento di reddito solo attraverso le attività che possono essere svolte all’interno della casa. Nei paesi in cui il legame ideologico tra il mantenimento della purezza femminile e l’onore familiare richiede l’isolamento delle donne, la partecipazione di queste alle attività remunerate al di fuori della casa è rimasta molto bassa e la loro dipendenza dai maschi che provvedono al mantenimento della famiglia è invece corrispondentemente molto alta. Secondo Fatema Mernissi (1975), la visione islamica della sessualità femminile è quella di una forza attiva e pericolosa, che minaccia il caos morale ed il disordine (Fitna), se non è propriamente regolata. Di conseguenza, l’universo musulmano è costruito lungo linee di segregazione sessuale, in cui gli uomini appartengono alla Umma, il dominio pubblico della religione, del credo e dell’ordine morale, mentre le donne appartengono alla sfera domestica, al regno della famiglia, della sessualità legittima e della riproduzione. Riducendo al minimo l’interazione tra i sessi, il principio di segregazione cerca di proteggere gli uomini dalla tentazione sessuale. Una donna che trasgredisce questi confini ed entra nello spazio

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tradizionalmente maschile, è colpevole di provocare negli uomini pensieri di Zina (rapporti sessuali illeciti), mettendo in pericolo la loro tranquillità mentale, il loro prestigio sociale e la loro fedeltà all’ordine morale. E’ da qui che deriva l’enfasi dell’isolamento e dell’utilizzo del velo da parte delle donne e l’ammonizione alle stesse, a nascondere tutte quelle parti della loro persona che possano provocare pensieri di zina in un uomo che non sia il loro marito. Come vedremo più avanti, in questo modo si ratifica come lecito, un solo desiderio sessuale, quello dell’uomo. Quello della donna non esiste, essa esiste solo come mezzo di eccitazione propria od impropria per l’uomo, uomo tra l’altro, che deve essere protetto da sollecitazioni inaspettate e quindi, perturbanti. In questo modo, si origina anche l’enfasi del potere dello sguardo : l’occhio ha il potere di provocare e le donne devono abbassare il loro sguardo in presenza di maschi estranei. Anche lo sguardo degli uomini è pericoloso, poiché essi con il loro sguardo possono disonorare le donne, tanto quanto attraverso forme di contatto fisico. La risposta degli uomini alle donne non velate nello spazio pubblico può essere interpretata come una risposta logica alla provocazione che ciò per essi può rappresentare :

“..seguire la donna per ore, pizzicarla se l’occasione è propizia, infine, assalirla verbalmente, tutto nella speranza di convincerla a compiere fino alla fine implicita, i suoi propositi esibizionistici” (Mernissi).

Sempre secondo Mernissi, il purdah è quindi molto di più della semplice imposizione del velo alle donne. Esso è centrale al radicamento del potere patriarcale, collegando la regolazione territoriale della sessualità femminile all’istituzionalizzazione del potere maschile nelle società in cui viene praticato. E’ interessante notare come in questa visione ideologica della società, una parte importante la svolga una modalità sensoriale, quella della visione, seguita, seppure in modo minore, da quella dell’udito. Il dettame ideologico entra prepotentemente nello stesso atto percettivo, quando ci si trova al di fuori dell’ambito strettamente familiare.

All’interno della casa, la percezione segue la sua natura di flusso libero e multiforme, senza intralci di sorta. All’esterno essa viene invece incanalata, per cui diviene impossibile la visione completa di ciò che è femminile. Oltre a segnalare la violenza che ciò compie sull’ordine del soggetto, perlomeno nel modo in cui noi oggi, in “Occidente”, concepiamo il soggetto, ciò c’induce a pensare che la visione stessa sia concettualizzata come una modalità percettiva femminile, che quindi a sua volta va regolata e controllata. Involontariamente, il legislatore culturale “inconscio” riconosce anche nell’uomo una parte femminile, che in quanto tale va controllata e dominata : la visione, il vedere. Ciò vale in misura minore anche per l’udito, che però si limita a non sentire o a sentire in modo

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limitato, ciò che è femminile, ma in un luogo improprio. E’ vero che nel guardare la donna velata il soggetto maschile possa sentire l’efficacia del proprio dominio, ma è anche vero che l’universo della visione è ricondotto all’universo della divisione di genere e che la visione diventa quindi un altro da sé, un fenomeno regolato dall’ordinamento sociale. In fondo ciò avviene in tutte le culture, ma se in alcune il soggetto può in qualche modo de-condizionare il proprio sguardo, “liberarlo”, in questa situazione ciò sembra praticamente impossibile, se non visitando un’altra società, ma ciò genererà sicuramente un qualche scompenso. Un altro elemento interessante da notare è come ogni “malizia” sia attribuita alla sessualità femminile. In questo caso, il legislatore culturale “inconscio” si serve di due meccanismi di difesa : la proiezione e l’identificazione proiettiva.

Proiezione Identificazione proiettiva In senso generale, in

psicologia, denota l’operazione con cui un fatto neurologico o psicologico è spostato e localizzato all’esterno, passando dal centro alla periferia, o dal soggetto all’oggetto;

- in senso propriamente psicoanalitico, indica l’operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e perfino degli “oggetti”, che egli non riconosce o rifiuta in sé. Si tratta di una difesa di origine molto arcaica che è in azione particolarmente nella paranoia, ma anche in modi di pensiero “normali come la superstizione.

E’ un termine introdotto da Melanie Klein per designare un meccanismo che si traduce in fantasmi in cui il soggetto introduce la propria persona (his self) totalmente o parzialmente all’interno dell’oggetto per danneggiarlo, possederlo e controllarlo);

- è comunque una modalità della proiezione, la Klein parla di identificazione solo perché è la persona propria che viene proiettata.

L’identificazione proiettiva presuppone anche il meccanismo difensivo della scissione e l’incapacità di integrare gli aspetti buoni e cattivi dell’oggetto.

Ciò che differenzia principalmente l’identificazione proiettiva dalla proiezione è che mentre la proiezione può essere “fredda”, ciò può non crearsi un legame affettivo tra il soggetto che proietta e l’oggetto che riceve la proiezione, nel caso dell’identificazione proiettiva, proprio per la sua origine arcaica di tentativo di “inserimento” aggressivo nel corpo materno, si crea un legame emozionale tra il soggetto e l’oggetto dell’identificazione, legame nel quale il soggetto che proietta trasferisce anche la sua aggressività, che non desidera riconoscere al proprio interno.

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