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Attività motorie e disabilità intellettive e mental

G. Battaglia, A Palma, C Mammina

insite non poche controversie, ad alcune delle quali, ancora oggi non si è del tutto riusciti a venire a capo, sia in merito all’inclusione/esclusione delle diverse condizioni psicopatolo- giche, sia al selezionamento dei più adeguati strumenti diagnostici utilizzabili per una loro individuazione.

Le psicosi infantili, considerate un gruppo eterogeneo di disturbi che esordiscono nel periodo compreso tra la prima infanzia e la pubertà, con intaccamento quindi, di una per- sonalità in via di sviluppo e di strutturazione, vengono considerate dal Diagnostic and Sta- tistical Manual of Mental Disorder (DSM IV TR) e dall’International Classification of Disease (ICD 10) facenti parte della categoria definita “Disturbi Generalizzati dello Sviluppo” (12). In tale condizione si rende necessario evidenziare un coinvolgimento, una compromissione, globale e generalizzata, delle diverse aree dello sviluppo, uno stato di disequilibrio tra le linee evolutive il cui manifestarsi è collocabile, ma non necessariamente evidenziabile, già al momento della nascita del bambino.

Le alterazioni più rilevanti, che incidono sia sugli aspetti del funzionamento cognitivo, che su quello affettivo, sono comunque riconducibili alla sintomatologia centrata sulla di- sfunzionalità comunicativa, verbale e non, e dell’attività immaginaria, e sulle limitazioni di interessi ed attività, il cui repertorio può risultare particolarmente ristretto, oltre che stereotipato (7).

Una recentissima revisione sistematica di Elsabbagh e coll. (2012) mostra, sulla base di campioni di popolazione europea compresi tra 826 e 490.000 soggetti, che il Disturbo Au- tistico, uno dei principali disturbi pervasivi dello sviluppo, ha tassi di prevalenza compresi nell’intervallo 1,9-72,6/10.000 con un valore mediano pari a 10/10.000. Se si considerano solo gli studi pubblicati a partire dal 2000, il valore mediano sale a 18,8/10.000 con un in- tervallo di variazione da 7 a 39/10.000. Stime comparabili sono state osservate negli studi effettuati a partire dal 2000 nell’area asiatica del Pacifico Occidentale e in America. Il tasso mediano di prevalenza osservato nel Pacifico Occidentale è pari a 12/10.000, con un inter- vallo di variazione da 2,8 a 94/10.000, e in America è pari a 22/10.000, con un intervallo di variazione da 11 a 40/10.000. Gli studi effettuati dal 2000 al 2012, su campioni europei di dimensioni molto variabili (comprese tra 2.536 e 134.661 partecipanti) hanno mostrato una variabilità meno drammatica, anche se sempre rilevante, da 30 fino a 116,1/10.000, con una prevalenza mediana di 61,9/10.000. Non vi è dunque evidenza di variazioni di rilievo nella prevalenza dei disturbi pervasivi dello sviluppo per area geografica, né gli studi hanno documentato un forte impatto di fattori etnici, culturali, o socioeconomici (10).

Gli individui con una diagnosi di disturbo pervasivo dello sviluppo sono soliti presentare ritardi e deficit di sviluppo delle capacità motorie (13). In particolare, gli individui con di- sordini dello spettro autistico risultano avere ridotte capacità locomotorie, scarsa stabilità posturale e flessibilità (13), condizioni che possono aggravarsi nel tempo anche a causa di una pratica motoria limitata o assente durante le fasi dello sviluppo. La pratica sportiva sembra determinare un benessere psicofisico in tali soggetti riducendo le stereotipie (18) per stanchezza muscolare o perché l’esercizio fisico produce sensazioni piacevoli interne fungendo da rinforzi automatici simili a quelli innescati dai movimenti stereotipati (19). Un recente studio condotto da Fragala-Pinkham MA e coll. (2011) ha evidenziato un miglio- ramento delle capacità di nuoto in bambini con disordini dello spettro autistico dopo 14 settimane di un programma di esercizio fisico svolto in acqua (11). Nella stessa maniera lo studio condotto da Yilmaz e coll. (2004) ha mostrato come un programma di idroterapia di 10 settimane sia in grado di ridurre le stereotipie e migliorare la capacità prestativa e di orientamento in acqua di bambini con disturbo autistico (23).

In accordo con gli studi di Fragala-Pinkhamecoll. (2011) e Yilmaz e coll. (2004) un gruppo di studiosi italiani negli ultimi anni utilizzano la “terapia multisistemica in acqua” (TMA), che si avvale degli ambienti strutturati delle piscine pubbliche presenti sul territorio per promuovere lo stato di salute di bambini con disturbo autistico (8). La TMA attraverso la “pianificazione” di un intervento individualizzato e interpersonale cerca di ridurre i sintomi

e migliorare le capacità comunicative e relazionali del bambino. Questa metodologia di lavoro è finalizzata alla rieducazione e alla modificazione degli schemi cognitivi, comporta- mentali, comunicativi, emotivi e d’interazione sociale reciproca. Gli obiettivi a breve, me- dio e lungo termine sono: l’aumento dello sguardo diretto, l’aumento dell’espressione emo- tiva, il miglioramento del controllo posturale, il riconoscimento della figura del terapeuta, l’aumento della condivisione del gioco, l’aumento della reciprocità sociale, lo sviluppo dei rapporti con coetanei, la riduzione dei comportamenti auto- ed etero-aggressivi, l’aumento delle capacità imitative, l’aumento dei tempi di attesa, l’aumento dell’autostima, il mi- glioramento della comunicazione verbale e non verbale, l’incremento dei contatti corporei, il miglioramento dell’autonomia personale, la stimolazione delle capacità psicomotorie e la diminuzione delle stereotipie. L’ipotesi teorica su cui si basa la TMA è l’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento che permette agli operatori di diventare la base sicura in situazioni di stress e di pericolo (8). La TMA nasce come intervento strutturato sud- diviso in 4 fasi: la fase valutativa, emotiva-relazionale, senso-natatoria e dell’integrazione sociale. Da una valutazione iniziale, che verifica quali benefici psicomotori l’acqua può ap- portare si procede nel tempo verso l’integrazione del bambino in attività ludico-natatorie di gruppo volte alla promozione dell’integrazione sociale (8).

Le psicosi e l’attività fisica adattata

Diversi studi in letteratura riportano come i soggetti con gravi malattie mentali sono a più alto rischio di mortalità precoce e muoiono da 10 a 15 anni prima rispetto alla popola- zione generale (6). Anche se la mortalità in eccesso è dovuta a morte fortuita e suicidio, l’ischemia cardiaca è una causa comune di eccesso di mortalità in questa popolazione (15). Il tasso di comorbidità di malattie, come diabete, patologie respiratorie, ipertensione e malattie cardiovascolari è di circa il 60% in soggetti con disabilità mentale (5). In uno studio condotto da Sernyakecoll. (2002) su più di 38.000 persone il 19% di pazienti con schizo- frenia, aveva una diagnosi di diabete (20). La prevalenza di depressione nei pazienti con diabete è circa doppia rispetto alla popolazione generale, con una prevalenza tra il 15 e il 30% secondo le stime basate sui criteri DSM o sulla presenza di livelli elevati di sintomi depressivi misurati con scale standardizzate (16).

Le persone con malattie mentali sono solite vivere uno stile di vita non salutare e as- sumere farmaci che determinano le sindromi metaboliche (4). È noto, infatti, che l’assun- zione di farmaci antipsicotici induca un incremento di peso e stimoli l’appetito. Diverse strategie terapeutiche e risocializzanti includenti programmi di attività fisica e interventi psicoeducativi e comportamentali sono stati elaborati per contenere l’obesità correlata all’assunzione di farmaci antipsicotici di seconda generazione. Wirshing e coll. (2006) han- no mostrato che i pazienti psicotici possono beneficiare di interventi educativi che preve- dano lezioni frontali sullo stile di vita attivo e sul comportamento alimentare da seguire per ridurre il rischio di obesità (22). Nella stessa maniera Poulin e coll. (2007) hanno trovato che programmi educativi che includano la pratica di attività fisica siano in grado di ridurre l’incremento ponderale in soggetti con una diagnosi di schizofrenia (17). Sono, tuttavia, pochi gli studi in letteratura che hanno investigato gli aspetti metodologici che possono promuovere la pratica dell’esercizio fisico da parte di soggetti psicotici.

L’attività fisica è un importante fattore di promozione dello stato di salute in ogni sog- getto, e risulta essere ancora più importante per i pazienti psichiatrici, che di solito condu- cono una vita sedentaria e uno stile di vita non salutare (4). Di recente, uno studio condotto da Battaglia e coll. (2013) ha evidenziato che la pratica regolare del gioco del calcio risulta essere in grado di ridurre il peso corporeo e migliorare la prestazione fisica e la qualità di vita in soggetti con una diagnosi di schizofrenia. In particolare lo studio ha evidenziato come

dopo 12 settimane, il gruppo di soggetti psicotici che praticava 2 volte a settimana il gioco del calcio riduceva del 4.6% il peso corporeo e il BMI e migliorava rispettivamente del 10.5% e del 10.8% gli indici sintetici per lo stato di salute fisica (PCS) e mentale (MCS) rispetto al gruppo controllo, che non svolgeva alcuna attività fisica strutturata. La pratica regolare del gioco del calcio appare, quindi, in grado di promuovere la salute psicofisica in soggetti con una diagnosi di schizofrenia riducendo l’incremento ponderale, correlato all’assunzione di farmaci antipsicotici, e migliorando la prestazione fisica e la qualità di vita (4).

La sindrome di Down e l’attività fisica adattata

Tra le cause cromosomiche di ritardo mentale la sindrome di Down è quella più diffusa. Essa interessa sia soggetti di sesso femminile sia maschile di tutti i gruppi etnici. In uno dei principali testi che trattano l’argomento, è indicata un’incidenza di 1:670 (21). La preva- lenza alla nascita è molto varia, con frequenze che vanno da 1/400-500 a 1/1.500-2.000 e notevoli possono essere le differenze da una nazione a un’altra. Le variabili che sembrano incidere di più sono l’età media della madre e l’interruzione della gravidanza. In Italia si stimano circa 40.000 persone con sindrome di Down. La sindrome di Down comporta diversi rischi sulla salute come ad esempio i difetti cardiaci, che sono presenti in circa un individuo su due. Inoltre, l’ipotonia, il basso metabolismo basale, eventuali anomalie endocrine (ipo- tiroidismo), una dieta non corretta e la scarsa attività fisica che caratterizzano i soggetti con sindrome di Down potrebbero essere alcuni dei fattori determinanti il sovrappeso o l’obesità in un individuo su due. Tipico della sindrome di Down è anche un precoce invec- chiamento e un alto rischio di demenza rispetto alla popolazione generale (21).

Diversi studi in letteratura evidenziano come la pratica regolare dell’attività fisica sia benefica per i soggetti con sindrome di Down perché promuove l’interazione sociale, l’auto- stima, la salute psicofisica e previene il rischio di malattie croniche. Australian Department of Health and Ageing suggerisce che i bambini dovrebbero praticare almeno 60 minuti di attività fisica da moderata ad alta intensità al giorno. Recenti studi, tuttavia, hanno trovato che il 58% di bambini con sindrome di Down non segue queste raccomandazioni. Di contro, invece, solo il 15-25% di bambini con sviluppo tipico non pratica regolarmente 60 minuti di attività fisica giornaliera (3). Queste differenze potrebbero essere legate alla mancanza di programmi ludico-motori accessibili, ridotte capacità fisiche (scarsa coordinazione motoria, anomalie cardiache, ipotonia), mancanza d’interesse, frustrazione e una scarsa collabora- zione da parte dei familiari di bambini con sindrome di Down (3).

Alesi e coll. (2014) hanno mostrato come la pratica regolare di un programma di attività fisica adattata (APA) integrato (famiglia + operatore) sia in grado di migliorare le abilità motorie e cognitive, quali i tempi di reazione e la workingmemory in bambini con sindrome di Down (1). In particolare, 3 bambini (1), di cui 2 maschi (M1 con una età cronologica di 10.3 anni e un’età mentale di 4.7 anni; M2, con un’età cronologica di 10.3 anni e un’età mentale di 4.7 anni) e 1 femmina (F1 con un’età cronologica di 14 anni e un’età mentale inferiore a 4 anni), sono stati sottoposti a un programma APA integrato per un periodo di 2 mesi con una frequenza di sedute bisettimanali. Ogni sessione APA durava circa 60 minu- ti e includeva le seguenti fasi di lavoro: 1) una fase di interazione sociale tra operatore, bambino e genitore (~5 min); 2) una fase di riscaldamento (~5 min); una fase centrale, caratterizzata da filastrocche e giochi finalizzati al miglioramento della capacità di lancio, di corsa, di rotolamento … (~40 min); una fase di defaticamento (~5 min) e una fase finale di feedback (~5 min). Il numero delle serie e delle ripetizioni degli esercizi svolti durante la fase centrale del programma APA incrementava gradualmente durante il periodo di lavoro. I bambini sono stati valutati al pre-test (T1) e al post-test (T2) tramite la somministrazione delle seguenti prove: Test TGM (Ulrich, 2003), per valutare il quoziente di sviluppo grosso- motorio (QSGM); subtests tratti dalla batteria 2 “Prove di Working Memory” (14) e subtests

tratti dalla batteria di valutazione “Attenzione e Concentrazione” (Di Nuovo, 2000). Dalle valutazioni effettuate si è evinto che, dopo il periodo di lavoro, tutti e tre i bambini hanno mostrato un incremento dei punteggi del QSGM e, sulla base del manuale d’istruzioni del TGM è stato rilevato che i soggetti maschi incrementavano le abilità grosso-motorie da un livello medio-basso a uno medio. Il soggetto di sesso femminile, invece, migliorava il suo QSGM da un livello molto basso a uno medio-basso. In particolare, M1, M2 and F1 hanno au- mentato, rispettivamente, i loro QSGM da 85 a 103, da 79 a 109 e da 46 a 88 dopo il periodo di allenamento.

Per quanto riguarda il profilo cognitivo, M1 ha mostrato miglioramenti nella memoria di lavoro verbale e viso-spaziale e nei tempi di reazione, dal pre-test al post-test. M2 ha mo- strato un importante miglioramento nei tempi di reazione e un minor numero di omissioni dopo il periodo di lavoro; un sviluppo meno significativo, invece, è stato riscontrato per quanto concerne la memoria di lavoro viso-spaziale e verbale. Il soggetto di sesso femminile F1, dopo il periodo di allenamento, non ha mostrato alcun cambiamento nella memoria di lavoro verbale e solo un ridotto miglioramento nella componente viso-spaziale della memo- ria di lavoro. I tempi di reazione e le omissioni, invece, si sono ridotti in modo considerevole dopo il programma di lavoro nel soggetto F1.

La pratica ludico-motoria sembra influire positivamente sulla componente viso-spaziale, in accordo con diversi studi presenti in letteratura, che riportano come, in soggetti con sin- drome di Down, il linguaggio risulti essere maggiormente compromesso rispetto alle com- ponenti viso-spaziali della memoria di lavoro (14).

Il programma APA usato sembra aver influito positivamente sui tempi di reazione e sulle abilità di controllo dell’oggetto e locomotorie dei soggetti studiati. Inoltre, in accordo con lo studio di De Falco e coll. (2012), il coinvolgimento dei genitori nelle sedute di lavoro pare abbia influito positivamente sulla gestione delle attività ludico-motorie (9).

L’attività fisica adattata per la persona disabile è l’esaltazione delle sue, anche se pur residue, capacità e di ciò che sa fare, in un mondo che sempre gli ricorda ciò che non è in grado di essere e ciò che gli manca. Carraro (2004), infatti, afferma che «orientarsi verso l’inclusività significa permettere a tutti coloro che si avvicinano alla pratica motoria e sportiva di raggiungere un livello base di abilità tecniche, di provare piacere nell’impegno e nello sforzo prodotti e di non essere esclusi in quanto “meno adatti”». In questo senso, l’avviamento alla pratica motoria e/o sportiva in ambienti pubblici e privati di soggetti con disabilità intellettive e/o mentali ha lo scopo di promuoverne l’integrazione sociale, l’au- tostima, prevenire il rischio di obesità e migliorare la qualità di vita.

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