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Trattando di umorismo potrebbe sembrare un collegamento spontaneo quello tra Luigi Pirandello – riferimento poetico e cronologico di questo studio – e Vitaliano Brancati, anche se quest’ultimo non si iscrive interamente nel genere, ma ne sposa, solo per un periodo, caratteristiche e tecniche. Ad unirli ci sono anche la provenienza comune dalla Sicilia (anche se, significativamente, da zone diverse) e la loro lunga residenza a Roma, eppure le differenze sono profonde. Si può anzi dire che Brancati si volesse in qualche modo distaccare dal suo conterraneo essendo estimatore prima di D’Annunzo e poi di Croce, due antitesi stilistiche e filosofiche del girgentino272. Inoltre il premio Nobel fu di simpatie fasciste, mentre il catanese staccatosi dal regime dopo i furori giovanili, si alimentò alle fonti democratiche di un altro grande siciliano, Giuseppe Antonio Borgese. Brancati sembra quindi porsi in volontaria antitesi rispetto al suo illustre conterraneo. Eppure è chiaro come la loro sicilitudine ponga degli inevitabili tramiti, come Verga e De Roberto273, e che alcune soluzioni stilistiche siano chiaramente di influsso pirandelliano274. Si consideri ad esempio l’uso del ritratto grottesco che entrambi fanno nelle loro opere: il girgentino ha un particolare gusto nel deformare i volti dei suoi personaggi, quasi al limite del sadismo; il catanese invece, ha un tocco più lieve e meno

272 Cfr. GIUSEPPE AMOROSO, Vitaliano Brancati, La Nuova Italia, Firenze, 1978.

273 Sui legami tra Brancati e la letteratura siciliana cfr. MASSIMO ONOFRI, Il silenzio

dell’Ottocento: appunti sul primo e l’ultimo Brancati, in La modernità infelice, Avagliano,

Cava de’ tirreni, 2003, pp. 83-94.

274 Per i rapporti tra Brancati e Pirandello, cfr. DOMENICA PERRONE, Vitaliano Brancati. Le

120 macchiettistico, compassionevole forse, eppure anche lui grottesco. Come scrisse Geno Pampaloni: «lo scrittore condanna il peccato e ha simpatia per il peccatore, ha rispetto per l’umanità dei suoi personaggi anche nel pieno infuriare della caricatura»275. Un altro elemento che in ambito umoristico crea una comunanza è la dicotomia tra possibilità e azione (o identità). I raisonneurs pirandelliani sembrano aver acquistato un corpo nei personaggi “infoiati” di Brancati, ma mantenendo la loro forza cogitante. Una «divaricazione tra la mediocrità e precarietà del fare rispetto alla ricchezza e pienezza dell’immaginare»276, un piacere che è condiviso da entrambi gli scrittori. Ma se nel catanese tutto ruota intorno ad un realismo di sguardo che si concretizza in un oggetto del desiderio, in Pirandello, così spaventato dalla dimensione corporale, l’immaginazione diventa uno strumento speculativo che fugge dal concreto. In Brancati si ritrova un’attenzione per i piccoli oggetti nella loro datità e per le questioni pratiche e quotidiane, che in Pirandello manca. Si incontrano ambienti di lavoro, anche di umili uffici comunali277, oppure piccole questioni di economia quotidiana, come odori di cucina, letti, riscaldamento, etc. Le questioni di principio passano da questa dimensione, non da un’epifania concettuale.

D’altronde è proprio questo passaggio dalla concretezza che rende l’umorismo di Brancati davvero capace di destare divertimento, cosa che invece manca al premio Nobel. La risata e l’autorionia è valutata non come banalmente liberatoria, ma come esercizio di pulizia contro la retorica e l’oppressione di ogni regime oppressivo. (Chissà, magari si sarebbe trovato d’accordo con Alastair Clarke e l’idea che l’umorismo serva per contrastare e ripulirsi dai memi nocivi). La sua posizione non è però da valutare prettamente come un discorso politico, ma anche poetico: l’obiettivo era il profondismo che tanto aveva contagiato anche lo scrittore di Girgenti:

Qualunque gruppo umano, che almeno una volta la settimana non si sottoponga alla prova del ridicolo, acquista un’aria di scarsa pulizia, come una persona che non pratichi il bagno nella vasca. La gravità, indossata di

275 GENO PAMPALONI, Introduzione a Il vecchio con gli stivali e i racconti, Bompiani,

Milano, 1971, p. XI.

276 GIAN CARLO FERRETTI, L’infelicità della ragione nella vita e nell’opera di Vitaliano

Brancati, Guerini e Associati, Milano, 1998, p. 31.

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notte e di giorno, la sicurezza di sé meccanicamente esercitata, la stupidità difesa con argomenti filosofici e ordinanze di polizia, lasciano impronte nere e grasse su qualunque cervello, anche il meglio provvisto dalla natura278

La gioventù fascista di Brancati lo vaccina da altri furori ideologici successivi, e non solo dal punto di vista politico, ma anche culturale. Nella sua lucida autocritica prende coscienza che il fascismo è nato da «ideologie atavistiche e vitalistiche» che pretendono di essere «dalla parte della storia»279 le stesse che hanno portato molti a cambiare casacca senza prendere coscienza delle ragioni intime dei loro errori. Da questo punto di vista è interessante notare come ci sia stata una inversione dei temi delle sue opere giovanili tutte votate al vitalismo e all’azione. L’umorismo mira infatti a deridere proprio quell’impianto mitologico, con una particolare attenzione al machismo e all’attivismo. Ma c’è anche una coscienza nuova che spunta nei suoi scritti, una consapevolezza di una mutazione già in atto che conferma ancora di più la sua scelta di genere: «Quando una società diventa al più alto grado materialista, con tutti gli stupidi vanti, i falsi idoli, ecc. che ne seguono, gli artisti che vogliono rappresentarla devono necessariamente essere comici»280.

Alcuni di questi temi possono sembrare in strana consonanza con la “società umoristica” analizzata in precedenza. Si è parlato infatti di una società edonistica e nichilista poco incline alla fatica, dove una protratta gioventù, fatta di irresponsabilità e gioco, annichilisce la dimensione adulta. Nel Don Giovanni in Sicilia la dimensione edonistica è però una rivendicazione contro l’efficentismo, il dinamismo e il vitalismo del regime fascista. Lo scontro di queste due prospettive è tutto in un ambito moderno e non contemporaneo: da una parte l’ethos della produzione e dell’operosità, che non è esclusivo patrimonio mussoliniano ma anche americano e sovietico; dall’altra il modus vivendi dell’italiano del Sud placido e contemplativo. Il piacere ha un che di religioso, una dedizione intellettuale e di immaginazione che alimenta una spiritualità fatta di aneliti e desideri:

278 VITALIANO BRANCATI, Società, in «Il Tempo» del 13 marzo 1947, ID., Il borghese e

l’immensità, Bompiani, Milano, 1973, p. 203.

279 GIULIO FERRONI, Introduzione a Vitaliano Brancati, Romanzi e saggi, Mondadori,

Milano, 2003, p. XIX.

280 VITALIANO BRANCATI, Diario B 2, in «Il Selvaggio», 15 ottobre 1936, cit. in MASSIMO

122 un’estasi per sottrazione simile al misticismo del periodo barocco piuttosto che al consumismo. Non c’è né il profondismo serioso pirandelliano, ma neppure la superficialità nichilista contemporanea: è una strana soluzione intermedia in cui non c’è azione ma contemplazione, non c’è alienazione ma innalzamento, non c’è piacere se non nella continenza. Non si parla quindi di un bulimico consumo della capacità di desiderare, ma l’esatto opposto. Un non agire per poter godere di un ampio spettro del possibile esperito nell’intimo della propria mente. Come in Pirandello, si rifugge dall’azione che identifica e ferma l’essere della persona con uno spillone e un’etichetta. L’indifferenziazione d’altronde è ricercata nel Don Giovanni in Sicilia anche nell’ambito delle frequentazioni: inserendosi nei modi espressivi dei ragazzi della comunità degli scapoli, oppure nell’altro gruppo catanese degli “innamorati”. Percolla non vuole essere individuo riconoscibile, ma parte di un gruppo indistinto che gli consenta di affinare il suo spirito intimo. Non è un caso che il successo arrida come una megera che dona le gioie carnali per carpire qualcosa di ben più importante: la soddisfazione delle proprie fantasie; l’azione nel mondo spegne il piacere, perché il cervello «non essendo alimentato dalla fantasia e dalle letture»281 perde i ricordi e non riesce a intensificare la spinta verso un oggetto. L’incongruenza umoristica si nasconde proprio qui: nell’inazione densa di attività, nel piacere senza soddisfazione, nel racconto bugiardo di gesta senza esperienza. Eppure nella contraddizione c’è un salto oltre la retorica, una critica a quei miti proto- fascisti. Il suo umorismo ha quindi a che fare con l’ironia illuminista, con quel metodo di lavorio razionale che poneva sotto una luce ridicola le più ottuse convinzioni.

Questo è quello che capita solo nel Don Giovanni in Sicilia, perché già nel Bell’Antonio e ancora di più in Paolo il caldo mutano molti aspetti. Nel romanzo del 1949 la continenza diventa assenza colpevole, mentre nel romanzo postumo il piacere si va sempre più venando di una declinazione ossessiva. Il gallismo è d’altronde il contrario del maschilismo di stampo dannunziano e più accostabile ad una forma moderna di petrarchismo282. Con lo scorrere del tempo quel particolare don giovannismo si perde,

281 VITALIANO BRANCATI, Don Giovanni in Sicilia, in Romanzi e saggi, cit., p. 507. 282 GIULIO FERRONI, Introduzione, cit., pp. XXXIX-XL.

123 dissolvendo quella terza possibilità da lui proposta in maniera divertita. Ciò che cambia è l’Italia, con l’imporsi dell’ideale molto attrattivo del benessere diffuso frutto di una generale operosità, è insomma il boom economico e la rinascita. L’esperienza autoriale di Brancati sembra fare da ponte proprio tra il fascismo e l’ideologia conseguente segnalando però le continuità ideologiche tra le due. Brancati non sorride, come il vecchio di un suo racconto283, ai rivolgimenti del secolo: non si fida perché nota immutate le radici che hanno portato al disastro. È anche per quello che Brancati smorza sempre più la sua vena umoristica, lasciando spazio ad una serietà accorata e forse arresa.

La scelta di inserire il Don Giovanni in Sicilia nell’ambito umoristico potrebbe sembrare eccessiva o forzata, eppure sono riscontrabili alcuni riferimenti a opere di genere a lui coeve. Il legame forse più evidente si riscontra nella situazione del maschio fascinoso inserito in un contesto di tre donne più grandi e non sposate, che riporta alla mente Le sorelle Materassi di Palazzeschi che è a sua volta una parodia di Canne al vento di Grazia Deledda. Alcune figure sembrano caricate apposta per un discorso intertestuale. Si pensi soprattutto al personaggio del servitore Paolo, all’inizio disciplinatissimo e nel giro di poco tempo capace di terribili contumelie e continue intemperanze. Totalmente inaffidabile e indisponibile a molte faccende domestiche all’opposto dell’Efix deleddiano. Figura che non sembra poi avere alcun ruolo specifico nello svolgimento narrativo se non una caratterizzazione di sé stesso e della nuova situazione dello scapolo, oppure come riferimento intertestuale. La fascinazione di Giovanni Percolla per il suo ambiente familiare, perde quell’estraneità che invece era tipica sia del Giacinto deleddiano sia del Remo palazzeschiano, non c’è un interesse economico nel rapporto con le tre sorelle: tutto perde di morbosità per smorzarsi nella placidità dell’abitudine. Un altro velato riferimento al genere è il trasferimento a Milano, che si rifà ad un romanzo guareschiano uscito proprio nello stesso anno in volume, La scoperta di Milano284, ma che aveva avuto più di una parte pubblicata precedentemente nel

283 VITALIANO BRANCATI, Storia di un uomo che per due volte non rise, in Il vecchio con

gli stivali, Mondadori, Milano, 1971.

124 «Bertoldo». Il riferimento che non può essere occasionale è la frase che la sorella Barbara rivolge a Giovanni Percolla all’inizio dell’XI capitolo in preda al pianto: «Mio caro Giovannino! Mio caro Giovannino! »285. La frase è piuttosto simile al refrain di chiusura dei capitoli del romanzo di Guareschi286, anche se qui, significativamente, chi la proferisce è la sorella, tutrice del protagonista fino a quel momento. Non sembrerebbe un caso quindi che la nuova famiglia si trasferisca proprio a Milano dove Ninetta si prenderà il ruolo di donna forte, organizzatrice ma allo stesso tempo comprensiva che era proprio anche della Margherita dello scrittore emiliano. Un’epopea quella milanese del protagonista siciliano che ricalca lo sforzo di adattamento ai ritmi metropolitani tratteggiata nell’opera guareschiana, ma senza quell’ambientazione da dolce piccola borghesia. La vellutata quotidianità si trasforma in Brancati in un giardino di tentazioni e di prove sociali che in Guareschi manca totalmente.

Un aspetto dell’esperienza artistica di Vitaliano Brancati che ritornerà spesso in molti altri autori è la sua collaborazione alle sceneggiature di alcuni film. Alcuni sono dei rifacimenti di testi pirandelliani come L’uomo, la bestia e la virtù (1953) di Steno e la parte tratta da La patente nel film ad episodi Questa è la vita (1954), mentre altre sono soggetti più o meno originali. Non si nota un suo impegno esclusivo nel genere umoristico cinematografico, ma è importante come già dai primi anni Quaranta Brancati si avvicini a questo ambito. Un connubio questo tra cinema e umoristi che si rinsalderà con il passare del tempo e che anzi si allargherà.

Molto più importante per la trattazione è la collaborazione del catanese ad alcune riviste, soprattutto quella ad «Omnibus» di Longanesi. La rivista, che durò poco meno di due anni, ebbe un’importanza riconosciuta da molti intellettuali287, e molte grandi firme vi parteciparono. Tra di esse, solo per rendere la ricchezza, Moravia, Alvaro, Malaparte, Landolfi, Mario Praz, Cecchi, Savinio e appunto Brancati con le sue Lettere

285 VITALIANO BRANCATI, Don Giovanni in Sicilia, in ID., Romanzi e saggi, cit., p. 483. 286 «... i suoi grandi occhi neri mi dicevano: “Giovannino, Giovannino!...”» con molte

variazioni, dalle lacrime «... i suoi grandi occhi neri inondati di lagrime mi dicevano: “Giovannino! Giovannino!...” (p.57) a gli occhi chiusi: «... i suoi occhi chiusi non dicono: “Giovannino! Giovannino!...”» (p. 244).

287 Cfr. INDRO MONTANELLI e MARCELLO STAGLIENO, Leo Longanesi, Rizzoli, Milano,

125 al direttore. Testi che mostrano la loro qualità nel momento stesso in cui svelano la loro ambiguità. Lo stesso Brancati lo rivela nei suoi Diari romani288, gli articoli erano davvero apprezzabili solo da chi aveva rabbia e bile contro il regime, agli altri non arrivavano, come se il malessere fosse un reagente per mostrare parole invisibili. La satira di costume, in un finissimo umorismo, si faceva tramite di un messaggio proprio in quanto ambigua e contraddittoria. Esempio massimo di come un regime oppressivo affini e innalzi i mezzi dell’umorismo per adattarsi a una situazione che non permette una comunicazione libera. Un esercizio che richiede perizia nello scrittore e intelligenza da parte del lettore.