• Non ci sono risultati.

Charles R. Gruner, discostandosi da Billig e Bergson, ma rimanendo nell’alveo di una visione conflittuale dell’umorismo, osserva il riso da una prospettiva di un’umanità fortemente legata ai suoi bisogni primari e quasi atavici. Lo studioso statunitense individua la fonte di qualsiasi divertimento nel gioco competitivo: in esso esiste un giusto apporto di tensione e attenzione che può, nella conseguente vittoria, far avvenire un forte rilascio di energia psichica che altro non sarebbe che divertimento. Una gara fortemente sbilanciata in cui la vittoria di una parte non è mai posta in discussione, ma che si fa anzi sempre più schiacciante, perde la sua carica di diletto tramutandosi in uno stillicidio umiliante. In questa prospettiva il comico non sarebbe altro che una forma di vittoria subitanea e sorprendente avvenuta in un gioco mentale contro qualcuno che subisce la disfatta. Lo sconfitto non è necessariamente l’agente comico o l’individuo che ride, ma anche un soggetto per cui si prova una tensione inconscia – anche culturale e non personale – inserito in una situazione ridicola e umiliante. Gruner afferma infatti che «Removal from a humorous situation (joke, etc.) what is won or lost, or the suddenness with which it is won or lost, removes the essential elements of the situation and renders it humorless»87. Se per esempio l’oggetto di ironia è un individuo inserito in una gerarchia di potere (clero, forze dell’ordine, politici, etc.) il dare spessore ad una supposta caratteristica negativa (lussuria del clero, stupidità dei carabinieri o, per finire, disonestà dei politici) attraverso una storiella umoristica o una battuta sferzante può essere liberatoria di una tensione che si nutre verso la

86 Ivi, p. 26.

87 «Rimuovendo da una situazione umoristica ciò che si vince o perde, o la rapidità con cui

è vinto o perso, si rimuoveranno gli elementi essenziali della situazione e la si renderà non umoristica.» trad. mia e corsivi del testo, CHARLES R. GRUNER, The Game of Humor. A

Comprehensive Theory of Why We Laugh, Transaction Publishers, New Brunswick-

36 categoria. I vincitori in questo caso sarebbero i fruitori del comico, mentre la categoria irrisa farebbe parte di quella dei perdenti. Ma lo stesso meccanismo sarebbe attuabile in un contesto con attori molto più prossimi: un gioco di parole, un rebus a sfondo umoristico, o un doppio senso piccante altro non sarebbero che gare, «duel of wits», tra concorrenti per delle risorse o per la supremazia di un gruppo o di un contesto. La dipendenza del riso dalla competizione vittoriosa sarebbe da ascrivere al processo evolutivo dell’essere umano che, per superare tutte le difficoltà, ha maturato una incisiva volontà di dominio e supremazia sulle variabili che determinavano la sua esistenza. Il percorso di adattamento però ha avuto uno sbocco nella socialità e per questo ha dovuto elidere le sue punte più aggressive e sanguinose a tutto favore di un gioco mentale, quasi una traduzione intellettuale e simbolica dello scontro fisico non più accettabile. Una concezione dell’essere umano che – a mio parere – è fortemente influenzata dalla visione americana della vita:

Man is curious, aggressive and competitive creature who is constantly “thinking of Number One”, forever asking “What’s in it for me?”; a primate who will strive to “get what we whants”, even (maybe especially) by beating someone else out of it88

Ogni risata sarebbe un’eco di quella che l’uomo delle origini propagava nella natura dopo una caccia insospettabilmente fruttuosa, dopo un’inaspettata vittoria di una battaglia tanto temuta o dell’urlo di una persona che ha sotto il proprio tallone il proprio potentissimo nemico. Non sarebbe allora casuale che chi soffre di gelatofobia provi, oltre che profonda vergogna, una viscerale paura dell’umiliazione attraverso la derisione89. Tutto questo deriverebbe – attraverso la visione di Gruner – da una paura di sottomissione dell’altro, da un eccesso di istinto di sopravvivenza e salvezza.

88 «L’uomo è una creatura curiosa, aggressiva e competitiva che sta costantemente

pensando “come essere il numero uno”, che si chiede sempre “che vantaggio ne ricavo?”; un primate che si adopererà per “ottenere ciò che vuole”, magari (anzi soprattutto) conquistandolo a scapito di qualcuno» trad. mia, Ibidem, p. 25.

89 JUDIT BODA-UJLAKY e LÁSZLÓ SÉRA, The relationship between gelotophobia, shame,

and humiliation, in «European Journal of Humour Research», 2016, vol. 4, n° 1, pp. 93–

37 D’altronde il dominio umano del mondo è stato determinato «Simply by the most successful combination of aggression, competitiveness, curiosity, and resourcefulness of any of the planet’s living species»90. Fin dalla più tenera età l’attitudine allo scontro per le risorse determina alleanze e sospetti: il sorriso infantile, infatti, sarebbe il frutto di un riconoscimento di un possibile mezzo per sopravvivere, di un utile aiuto in questa dura guerra. I conflitti che hanno conformato la mente dell’essere umano a questo tipo di propensione predatoria sono stati contro tre entità: gli altri, la natura e sé stessi. Con tre possibili risultati: la vittoria, la sconfitta e una situazione ambigua e frustrante. I successi sorprendenti e magari subitanei creano un entusiasmo che può determinare il riso, cosa che ovviamente non capita con un risultato di segno diverso.

Se ogni risata, battuta, scherzo o barzelletta fossero un’espressione aggressiva, non innocente e denigratoria, frutto di una volontà di potenza, i comportamenti delle persone che ci circondano si ammanterebbero di un velo cupo di crudeltà e falsità. La società sarebbe formata da una moltitudine di passivi aggressivi pronti a boicottare il proprio concorrente e umiliare le persone per cui provano della tensione; come se l’evoluzione personale del riso91 potesse portare come massimo risultato solo ad una capacità di occultare la rabbia dietro un sorriso sardonico. Queste sarebbero le conseguenze estreme di una visione radicale dello humor come esercizio di supremazia, ma Gruner non parla scientemente di guerra o dominio, ma piuttosto di gioco e di competizione sportiva. Perché il gioco, è vero che può avere come nucleo nemmeno troppo occulto la volontà di vittoria, ma non necessariamente quella di dominio e umiliazione dell’altro, che anzi – come detto dallo stesso autore – deve essere in una condizione paritaria, deve essere un avversario capace di contrastare e produrre della tensione psichica. Credo, a questo proposito, che la dimensione ludica vada approfondita in funzione dell’idea proposta da Stefano Ballerio nel suo Mettere in gioco

90 «Semplicemente dalla più efficace combinazione di aggressività, competizione, curiosità

e intraprendenza di qualsiasi altra specie vivente del pianeta» trad. mia, CHARLES R. GRUNER, The Game of Humor, cit., p. 16.

91 «Nello sviluppo psicologico del bambino si ha una progressione graduale dal sorriso

primario al sorriso di imbarazzo, alla risata gioiosa, al ridere per una situazione comica, al riso collettivo, a quello aggressivo verso un estraneo, e infine [...] al riso di Schadenfreude, la gioia maligna», PETER L. BERGER, Homo ridens, cit., p. 87.

38 l’esperienza che accosta nella sua parte finale la letteratura al gioco. In questa sfaccettatura l’attività ludica non è vista come mera competizione, ma come strumento di apprendimento – solitario o in compagnia – di sé e del mondo. Alcuni aspetti che accomunano le due occupazioni sono una dimensione rituale con un tempo dedicato che è fuori dalla quotidianità e un’adesione ad esse libera e non costrittiva; entrambe sono occasioni di diletto che si fondono alla possibilità di apprendere. Su questo punto Ballerio insiste dicendo che sia nella letteratura che nel gioco «si intrecciano autocoscienza, espressione ed esplorazione»92: caratteristiche certo estendibili all’oggetto di questa ricerca. I due atti quindi sono utili all’essere umano perché permettono di reinterpretare le proprie azioni precedenti, rifletterci e provare a trasformarle – sia nella fruizione che nella produzione – in maniera creativa e piacevole. Il punto di vista di Ballerio parte da un approfondimento sulle teorie letterarie alla luce delle neuroscienze e delle ultime acquisizioni in psicologia cognitiva: in entrambi i campi si è portato alla superficie la fusione intima tra corpo e mente, e soprattutto tra conoscenza e corporeità.

Integrando le due prospettive avremmo un umorismo che è, certo, competizione e volontà di vittoria, ma non in funzione dell’umiliazione dell’altro, ma piuttosto per un atto cognitivo che con il confronto con l’altro si amplifica e si approfondisce. L’essere umano d’altra parte ha avuto successo in natura soprattutto per la sua capacità adattiva, che non è altro che osservare il mondo con uno sguardo capace di carpire nuove possibilità e nuove risorse. Inoltre l’ambito competitivo è già presente sottotraccia anche in altre teorie: se per esempio analizziamo il carnevalesco bachtiniano, noteremo come le due forme sociali e morali – quella gerarchica e quella egalitaria – siano impegnate in una lotta disarmata e ridanciana. Del resto, come non individuare anche uno scontro tra differenti moralità, magari tutto interiore, nei soggetti comici individuati da Berger e ancora maggiormente nei fool di corte o negli jurodiviy?

92 STEFANO BALLERIO, Mettere in gioco l’esperienza. Teoria letteraria e neuroscienze,

39

Conclusioni

Come mostrato nelle pagine precedenti, l’umorismo all’interno delle interazioni sociali ha un ruolo molto differente a seconda del contesto e dell’intenzione del parlante. Di per sé pare avere una conformazione etica neutra, uno strumento come tanti all’interno dei registri della parola e della socialità. Alcune teorie per facilità di analisi hanno voluto approfondire un uso specifico tra i tanti possibili del riso: questo, come detto in precedenza, non è il mio approccio che invece vuole lasciare in evidenza le contraddizioni, convinto del fatto che possano essere loro stesse degli strumenti di conoscenza. Voglio individuare quindi alcuni concetti utili per la successiva trattazione.

Credo sia molto interessante l’accostamento dello humor ad un codice linguistico, che necessita di competenze peculiari a seconda del contesto. Ogni piccolo gruppo ha un suo carico di riferimenti culturali e di costume, e questo è vero dalla cellula familiare fino alla collettività nazionale. Per poter apprezzare battute e facezie su un argomento – e comprendere quindi le motivazioni del riso – è necessario maturare quel tipo di competenze che non solo facciano capire il contenuto del messaggio, ma anche il sottotesto non detto e, allo stesso tempo, tutto il carico emotivo che quel dato contenuto si porta dietro. Doppiezza di significato ed emotività che fanno parte di una struttura identitaria e di appartenenza che agglutina le persone in un legame di affinità e di complicità per sorreggere l’urto – dolce o veemente – dell’alterità. Ci si potrebbe chiedere quindi, davanti ad una battuta o ad un testo umoristico, quale sia il codice e in quale contesto possa essere efficace, in quale misura sia legato alla contingenza spazio-temporale e quanto invece venga tratto dalla tradizione. Ma anche, ridestando la domanda nata attraverso l’idea di Dupréel, che “rapporto intersoggettivo” si instaura tra lettore e testo umoristico e in quale “contesto sociale” si viene ad inserire.

In stretto rapporto con la funzione identitaria dell’umorismo ci sono ruoli più generalmente relativi alla socialità, che sono prevalentemente due: creare coesione o rafforzare le gerarchie. Le due propensioni non sono in opposizione, ma sono una il risvolto dell’altra: dove c’è identità c’è anche

40 differenza, dove c’è famiglia c’è anche l’estraneo. Maggiore sarà il contrasto tra due parti o l’oppressione di una sull’altra, maggiore sarà la forza della risata. Come mostrerò nel prossimo capitolo, nei regimi totalitari, la qualità dello humor e la sua reazione sarà molto migliore e intensa. Da questa dicotomia di unione ed esclusione si sono tratte due prospettive antitetiche: quella legata al carnevale e quella di Billig che vede lo humor come mezzo di riaffermazione – attraverso il ridicolo – delle gerarchie. Della prima abbiamo discusso una necessaria presenza: per l’unione della società è obbligatorio creare, anche qui, un’alterità che in questo caso non può non essere che l’individuo, impersonato dal re buffone. Soggetto che può essere collegabile alla coscienza moderna radice dell’umorismo. Attraverso Billig – grazie a una contestualizzazione di Bergson – ho tratto tre possibili campi di ridicolo sociale: il porsi fuori dalle regole comunitarie, il violare le regole estetiche e infine il mantenersi legato al passato. È notevole come il risibile sia legato a categorie tematiche sensibili, tra esse quelle più diffuse nel mondo sono razionalità, difformità e modernità, ma anche fatti traumatici e capaci di destare timore. Come si può notare la distanza tra gli argomenti e i campi citati non è significativa.

Rifacendomi al dibattito sul carnevalesco è da sottolineare il ruolo centrale di un agente del comico o un oggetto del ridicolo – volontario o meno. In entrambi i casi la sua funzione di catalizzatore serve a concentrare l’attenzione emotiva e cognitiva su uno specifico obiettivo e quindi facilitare la risata. Alle volte esso si auto investe di un simile ruolo come i fool di corte o come gli attori comici, altre volte accetta suo malgrado questa investitura. Nel primo caso abbiamo a che fare con un personaggio – reale o di fantasia – che può prendersi la responsabilità di farsi portatore di una visione del mondo scomoda, socialmente poco o mal accettata, ma che ha parti più o meno consistenti di verità. L’umorismo, con il suo ingente carico di soggettivismo, ha come sostrato anche una simile figura che si fa tramite di un modo di sentire e vedere ulteriore, e che lo vivifica attraverso un sorprendente uso della parola e del pensiero.

Proprio in conseguenza di questo ultimo assunto possiamo ammettere che – come affermato da Berger – l’umorismo può essere anche una sorta di epifania verso un mondo ulteriore. Una realtà che riesce ad innalzarsi al di

41 là dei drammi quotidiani, che riesce a valicare le convenzioni sociali – e le ansie da esse conseguenti – e le finzioni che ci costringono in una maschera sempre più stretta e opprimente. Si percepisce già in queste parole un’eco pirandelliana. Ma non è solo lo scrittore di Girgenti ad aver avvertito questo tipo di possibilità metafisica del riso, e se un simile moto è stato condiviso da più autori, credo sia lecito e valido porlo tra i possibili strumenti da annoverare nella mia analisi, domandandomi di conseguenza anche quale sia la prospettiva che l’autore vuole aprire e quale quella che vuol rifuggire.

Davanti a questo catalogo di questioni, trovo adatta anche la prospettiva di Gruner giustamente modificata attraverso Ballerio. Se lo humor è un gioco, con risvolti cognitivi necessari per una propensione creativa e con un risvolto di competizione tra soggetti, potrebbe anche essere una gara tra visioni della realtà, quasi una lotta ideologica portata avanti coi mezzi della risata. E non intendo ideologie meramente politiche, ma visioni del mondo più radicate nell’essere umano e nella sua natura. D’altro canto la sfida cognitiva che pone una performance comica, può aprire alla conoscenza di un differente modo di esistenza e quindi schiudere la possibilità di comprensione e inaugurare nuove possibilità interiori. Insomma, può l’umorismo essere un contrasto morale fatto con ragionamenti assurdi e laterali? Nella battuta forbita che pone in ridicolo un intero nucleo di convinzioni e di abitudini non c’è anche una volontà di critica sociale che può mirare persino ad superamento di esse ponendole in un agone in cui possano mostrare tutte le loro vulnerabilità? L’umorismo dunque può essere visto come un conflitto filosofico paradossale e pacifico?

42

Umorismo nella psiche individuale