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Nel 2005 ha destato un vivace dibattito la pubblicazione di Laughter and Ridicule: Towards a Social Critique of Humour di Michael Billig71. Lo studioso inglese riprende, storicizzandole, le teorie di Hobbes, Bergson e Freud, dando risalto alle prospettive di umorismo oppressivo o meglio di controllo sociale. Pur ammettendo che alcune di esse sono derivate da situazioni storiche particolari – come il Seicento delle rivoluzioni per Hobbes – le reputa maggiormente convincenti rispetto all’approccio maggioritario di questi ultimi anni, ovvero quello che pone al centro la percezione psicologica di un’incongruenza. Le maggiori affilature polemiche sono dirette contro le risate da gentleman, ovvero la base filosofica ottocentesca di questa impostazione – nata in reazione a quella hobbesiana –, una base chiusa nel piccolo mondo borghese che non aveva reali contatti con la totalità delle funzioni umoristiche, che si concentrava sui meccanismi interni all’uomo e, in generale, aveva abbandonato l’interesse sociale: «Instead of seeking the origins of laughter within the

70 Ibidem.

71 MICHAEL BILLIG, Laughter and Ridicule: Towards a Social Critique of Humour, Sage,

32 motives of the person who laughs, incongruity theories have sought to identify those incongruos features of the world that provoke laughter»72. Da questo convincimento deriva l’errore di universalizzare questi aspetti, che sono, all’opposto, suscettibili di variazioni decisive da cultura a cultura e da individuo ad individuo73.

Il testo di Billig sembra un tentativo di riappropriarsi di una dimensione sociologica del riso a discapito di una corrente – rappresentata dalla rivista Humor – in cui la psicologia ha preso il sopravvento, e anche di rompere il coro quasi unanime di valutazione positiva del riso. L’obiettivo non è cercare una singola causa come non è quello di ridefinire il fenomeno come unitario e generalizzabile74. Eppure anche lui ritaglia un certo primato alla sua visione, non limitandosi a una rivendicazione e a una riapertura dei confini disciplinari. In Laughter and Ridicule lo studioso afferma infatti che per ogni cosa esistono delle funzioni necessarie e universali (quindi riscontrabili in ogni cultura) e quelle specifiche e non necessarie75. Tra le

prime c’è di sicuro l’uso della derisione e del ridicolo come strumento di controllo sociale e mantenimento di gerarchie e mentalità, le altre tipologie di humour sono secondarie. Billig si appoggia ai lavori di Erving Goffman e il già citato Scheff per individuare come l’imbarazzo e la vergogna siano dei metodi della società per far sentire inappropriato, goffo e inadatto chiunque si discosti dal modello di vita predominante76. Sia nella “metafora drammaturgica” di Goffman, sia nei pilastri emotivi della socialità di Scheff, è presente un lato oscuro che si rifarebbe proprio alla derisione come controllo sociale. L’imbarazzo di Goffman d’altronde è un sentimento più blando rispetto alla vergogna che, come diceva Kafka nell’epilogo del Processo, può sopravvivere anche dopo la morte. Quest’ultima è un ridicolo pubblico in cui il riso diventa la sua attestazione e che, a differenza della colpa, è irredimibile. La paura di essere derisi è una spinta emotiva così

72 «Invece di cercare le origini della risata nelle motivazioni di chi ride, le teorie

dell’incongruenza hanno cercato di identificarle negli aspetti incongruenti del mondo che provocano il riso» trad. mia, Ivi, p. 57.

73 Ivi, pp.183-184.

74 «The present approach does not seek to reduce laughter to a single cause. Indeed, humour

is not to be considered as a unitary entity.» Ivi, p. 175.

75 «Joking relationships are not presumed to be necessary for the continuation of social life

in general, but they emerge in particular types of social arrangement, which marks some social relationships with structural tension.» Ivi, pp. 125-126.

33 potente da far maturare anche delle patologie psichiatriche come la gelatofobia77. Entrambe le sensazioni però sono precedute dal timore che si insinua intimamente nel soggetto e lo guida nell’evitare momenti di pubblico ridicolo. Anche perché le battute possono andare oltre la volontà di chi le pronuncia e, pur nascendo da ottime intenzioni, si possono fare portatrici di un giogo sociale; ma possono essere, fedelmente a Freud, anche tendenziose e mirate a ferire nella dissimulazione goffmaniana. Billig, oltre che rigettare l’idea di una funzione rivoluzionaria dello humour, constata un fatto storico individuato anche da Minois: il carnevale ha valicato il recinto stretto della sua parentesi sociale, ed è diventato predominante nella società contemporanea. Come porsi allora rispetto all’umorismo diventato ormai prodotto di consumo e retorica pubblica abusata?

Per Billig Bergson è il primo sociologo dello humor, dopo l’ondata “intimista” dei gentleman78, ma interpretato nella maniera errata, perché si è dato eccessivo risalto alla sua idea di comico come meccanizzazione del gesto e dell’umano e non alla sua concezione sociologica. Henri Bergson nel 1901 dà alle stampe il suo saggio sul riso79 e, a distanza di un secolo, Billig mostra di ispirarsi profondamente ad esso. Nella prospettiva del filosofo francese «il comico è il negativo, la deviazione dal valore, ciò che deve essere punito, mentre il riso è l’arma gioiosa di questa punizione, il reinserimento nel positivo, l’atto del ritorno all’ordine»80. Comico che secondo Billig è piuttosto prossimo al suo concetto di ridicolo. Un fenomeno gioioso che però si dirige solo alla pura intelligenza81, dato che la parte emotiva deve essere il più possibile anestetizzata, non ci deve essere compartecipazione altrimenti l’atto inibitorio del vizio non potrebbe esplicarsi in tutta la sua efficacia. L’evento comico deve essere guardato, quindi, con un distacco di tipo teatrale, «come fosse una scena costruita a

77 MARTIN FÜHR, TRACEY PLATT e RENÉ T. PROYER, Testing the relations of gelotophobia

with humour as a coping strategy, self-ascribed loneliness, reflectivity, attractiveness, self- acceptance, and life expectations, in «European Journal of Humour Research», 2015, vol.

3, n° 1, pp. 84-97.

78 «Laughter represents the first real social theory of laughter.» Ivi, p. 111.

79 HENRI BERGSON, Il riso: saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari, 1993. 80 GIULIO FERRONI, Il comico nelle teorie contemporanee, Bulzoni, Roma, 1974, p. 27. 81 «Il comico esige, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un’anestesia

momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza», HENRI BERGSON, Il riso: saggio sul

34 bella posta per farci divertire»82, non come una scena che riguarda in prima persona lo spettatore, evitando dunque ogni tipo di immedesimazione, e ricercando piuttosto una sorta di straniamento. Non c’è alcuna traccia quindi né di compassione né del sentimento del contrario accennato da Pirandello: solo fredda superiorità e una punta di sadismo. Non c’è però concordanza tra il sociologo inglese e alcuni commentatori italiani. Secondo Billig Bergson parla di una società vera e reale, mentre per Carchia il vizio posto alla berlina non è meramente morale, bensì metafisico: non si punisce il cattivo, ma lo sgraziato e l’abbassato, il ridicolo appunto. La dicotomia che si pone è tra la vita, armonica e libera, e il meccanismo, ovvero quando il primo elemento si abbassa e si costringe in una ripetizione ottusa (come in codici di comportamento o schemi professionali), come in una successione reiterata di azioni senza scopo, che crea un distacco dalla socialità. Un’idea che non deriva quindi «da un’istanza etica, bensì dall’ideale estetico della grazia, ideale della fluidità e di un’armonia che rimandano ad aspirazioni settecentesche e neoclassiche»83. Carchia deduce che quella teorizzata da Bergson non sia una società storicamente data, ma più un ideale, un nomos a cui l’uomo dovrebbe tendere per la sua completa espressione. La radice prima della colpa del ridicolo sarebbe, seguendo il sentiero tracciato da Carchia, dovuta quindi ad una disattenzione, «un allentamento del lavoro spirituale, ad un divagare a un intorbidarsi della coscienza»84: è da questo processo di allontanamento che deriverebbe l’abbassamento dello spirito verso il corpo, della persona alla cosa, del contenuto alla forma. La versione di Civita, da parte sua, non coincide con la visione di Carchia. Lo studioso milanese propenderà più per «una teoria sociale a base biologica, una rappresentazione biologica della società»85 a causa dell’insistenza del pensatore francese su una vita come entità dalla volontà specifica, che pone teleologicamente un orizzonte, quello della piena evoluzione. Il comico sarebbe quindi – in questa prospettiva – un’interferenza a questa marcia, una regressione dell’essere umano che cede ad un comportamento dettato dall’inconscio, ovvero il «sovrapporre alla propria personalità spezzata ma

82 ALFREDO CIVITA, Teorie del comico, cit., p. 15.

83 GIANNI CARCHIA, Retorica del sublime, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 162. 84 Ivi, p. 163.

35 autentica una falsa unità che inganna solo se stessi»86. Tre imperativi sociali dunque: uno relativo alle gerarchie e allo status quo, uno estetico e infine uno biologico e positivista; insomma sono perseguiti il divergente, lo sgraziato e il retrivo.