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Se Pirandello è stato il maestro di Savinio per elezione volontaria, un caso ha voluto che Cesare Zavattini sia stato uno scrittore con molti allievi. Nei primi anni Venti, infatti, diventerà istitutore al Collegio Maria Luigia di Parma che, tra i suoi allievi, annoverava a quell’epoca Guareschi e Attilio Bertolucci300. La piccola differenza di età lo renderà un amico dei suoi

studenti, ma allo stesso tempo gli darà il ruolo di tramite con l’agitata cultura parmigiana di quel periodo. In città infatti avevano un grandissimo

299 Cfr. ALESSANDRO TINTERRI, Savinio e l’”Altro”, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1999. 300 Cfr. GUIDO CONTI, Giovannino Guareschi. Un umorista nel Lager, Rizzoli, Milano,

130 seguito il futurismo e il movimentismo operaio, con i tafferugli che queste due organizzazioni riuscivano a destare, ma anche con le loro nuove idee e visioni di arte e società. I suoi contatti301 e l’affetto da cui era circondato lo portarono anche a coinvolgere molti di questi talenti nella redazione delle sue riviste, come il «Bertoldo» – che organizzerà ma non dirigerà (e in cui conobbe anche Carlo Manzoni, un altro che si riconoscerà suo allievo e amico) – e il «Settebello» – che inaugurò un rapporto problematico, fatto di competizione e disistima, con Achille Campanile. All’epoca la testata più popolare era il «Marc’Aurelio», che aveva avuto il merito di raccogliere nella sua redazione una parte di transfughi da molte riviste chiuse dal regime, ma che per sfuggire allo stesso destino tendeva ad allinearsi a molte direttive del fascismo. Il «Bertoldo» entrerà in competizione con questa rivista con uno stile più raffinato e brillante, soprattutto per merito del suo direttore, Giovanni Mosca. Nella sua redazione si rincontreranno molti dei collaboratori del «Marc’Aurelio» e altri verranno inseriti. Guareschi e Manzoni incontreranno Marchesi, Campanile e Fellini e in questa rivista si formerà quella leva autoriale che sarà la base del neo-realismo e soprattutto della commedia all’italiana. Riferimento di tutto questo ambiente sarà proprio Zavattini.

L’autore di Luzzara ha avuto dunque un grande valore come organizzatore di riviste e come collettore e coltivatore di talenti, forse di gran lunga maggiore rispetto a quello di scrittore umoristico. Infatti, per quanto il successo arrise alle sue opere302 nel periodo in cui furono pubblicate, ora difficilmente riescono a colpire il lettore. La questione non tocca tanto un discorso prettamente umoristico, assai sbiadito se non per il nonsense, ma anche come mera fruizione. Il suo intento di fuggire il romanzesco, di asciugare all’estremo la scrittura, di puntare verso il fantastico e il nonsense, sono scelte che, debitrici verso le avanguardie, allontanano il gusto della lettura. Non c’è quel gioco che si vedrà in Guareschi, non c’è una capacità divagante e dialogica come in Savinio, non c’è quel tipico barocchismo linguistico di Gadda che fa sperdere il lettore e,

301 Cfr. Attilio Bertolucci-Cesare Zavattini. Un'amicizia lunga una vita. Carteggio 1929-

1984, a cura di Guido Conti e Manuela Cacchioli, Monte Università Parma, Parma, 2004.

302 Parlo in special modo di Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo e

131 fatta esclusioni di alcuni brani di Io sono il diavolo, non c’è neppure quel gioco con il contesto socio-culturale del fascismo che si è riscontrato in Brancati. I toni surreali, fantastici e fiabesci, che tanto successo gli fecero guadagnare con i soggetti cinematografici, nella narrativa diventano tanto preponderanti da non destare né la risata né la curiosità, ma solo un vago disorientamento. La difficoltà critica e la scarsa valutazione che viene citata da alcuni studiosi303 deriva proprio da questa fisionomia: non si capisce come definire i suoi lavori che non vogliono mostrare chiaramente il loro intento.

Nello stretto discorso della risata, gli sketch e le peripezie di alcuni personaggi assomigliano a freddure, come in Parliamo tanto di me, oppure a scenette assurde e illogiche, come in I poveri sono matti. Questo modo narrativo perde con il tempo la sua carica innovativa e rimane solo un gioco mentale “geometrico” e “spontaneo304” che viene apprezzato da pochi. Zavattini se ne allontanerà negli anni Quaranta con il tramonto del regime, a tutto favore di un maggiore impegno sociale e di una analisi di coscienza. È in quegli anni che la sua scrittura arriva ai migliori risultati, quando nei racconti di Io sono il diavolo il surreale si fonde con il mondo “borghese”. Ciò che sembra essere rappresentato è un accumulo di energie nervose, pulsioni allo stato libero. La sua volontà sperimentale, smorzata ma non cancellata, si lega a qualcosa di più concreto divenendo – non sempre e non totalmente – di più diretta intellegibilità e apprezzabilità. La volontà di perseguire una concezione artistica simile, che si stacca dall’uso di idee di riferimento in funzione destrutturante o di sistemi di pregiudizi condivisi per giocarci su, ha il risultato di costringere il lettore a costruirsi ogni volta il proprio mondo di riferimento, non sempre riuscendoci.

Un esperimento così ambizioso di rinnovamento umoristico, andò a cozzare con un’altra esperienza umoristica, intelligente e allo stesso tempo popolare: quella di Achille Campanile. Le accuse di Zavattini a quest’ultimo sono di copiare alcuni modi comici, in special modo quello di Petrolini, di

303 Cfr. GUALTIERO DE SANTI, il capitolo Zavattini versus Campanile, in Ritratto di

Zavattini scrittore, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015.

304 Sono due parole che usa lui stesso in una lettera a Bompiani riportata da SILVANA

CIRILLO nell’introduzione a CESARE ZAVATTINI, Io sono il diavolo – Ipocrita 1943, Bompiani, Milano, 2014.

132 essere ripetitivo e di appoggiarsi troppo ai luoghi comuni per destrutturarli, fino a far diventare questa stessa operazione un luogo comune305. Altra critica puntuta che Zavattini muove allo scrittore laziale è contro il modo vacuo di alcuni suoi brani, una leggerezza che lascia i codici dello humor per allargarsi troppo al comico superficiale. Le accuse di plagio, seppur rielaborato, e di ripetitività non sono del tutto infondate. Allo stesso tempo, si riscontra una viva competizione nell’ambito degli scrittori umoristi, a quell’epoca davvero tanti. I due sono dei maestri riconosciuti e non hanno reale necessità di gareggiare tra loro. Non c’è vera invidia se non un malcelato fastidio di Zavattini per un più ampio riconoscimento conquistato da Campanile che sarà sempre “l’uomo del giorno”. D’altronde i testi zavattiniani sono meno umoristici e forse più accostabili a brani di semi- avanguardia, pezzi d’arte che non sempre arrivano al pubblico, apprezzabili, ma non con l’espressione di un riso seppur pensoso.