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L’idea di Lipovetsky e Minois di una società consumistica che faccia dell’umorismo il suo codice principale di comunicazione è molto efficace, ma credo che abbia necessità di alcune precisazioni e distinguo. La prima pare ovvia: non tutta la società occidentale condivide uniformemente questa caratteristica e non ovunque è maturata nello stesso periodo. Rimangono zone e gruppi in cui l’umorismo di massa fatica ad entrare, ma che comunque ne subiscono l’influenza: si pensi alla Chiesa, che fino a poco tempo fa sembrava restia ad una informalità papale che con Francesco, invece, ha iniziato a sperimentare. Ciò che hanno individuato i due pensatori è un meccanismo estremamente maggioritario, ma non unanime e monolitico.

245 Ivi, p. 765.

106 Ciò che sembra essersi perso è quella salienza che Forabosco ha posto come base per il riso. Se la maggior parte delle credenze sono relative e temporanee, l’investimento emotivo che l’individuo fa è limitato: negare parzialmente, deridere o sorridere di un’idea è più facile, ma allo stesso tempo meno soddisfacente. Dalle parole dei due pensatori sembra più che il processo si sia invertito: è il riso che viene usato per far divenire saliente una merce che sia fisica o ideale. Una sensibilità parziale e transitoria che si accosta a mille altre e che non ha alcuna rilevanza esistenziale.

Il fatto è che il riso gira a vuoto; è diventato ormai solo un fuoco di paglia generalizzato all’interno di un piatto consenso sociale. Un tempo il vigore della comicità era dato dal contrasto con la serietà: serietà dello Stato, della religione, del sacro, della morale, del lavoro e dell’ideologia247.

Quindi è vero che si parla di una società che usa, e persino abusa, del modo umoristico di esprimersi, ma non è di umorismo vero e proprio che si parla. Le due cose sono differenti e distanti: il primo è di massa anche nella fruizione, ludico, facile e con un soggetto molto sfumato, senza un sottotesto significativo e con ammiccamenti di facile presa emotiva; il secondo è più privato sia nella fruizione che nel suo target di lettori, critico, linguisticamente curato e con obiettivi precisi e non generali, con riferimenti culturali e meno scontati. Non solo, oltre a questa dicotomia, ne esiste un’altra: lo humor mainstream e quello underground. Entrambi di larga diffusione, ma se il primo è quello già descritto, il secondo è una reazione ad esso – diffusa per colmare una necessità di mercato opposta – in cui «il tono è cupo, vagamente provocatorio, cade nel volgare, ostenta l’emancipazione del linguaggio, del soggetto e spesso del sesso»248. Un percorso verso la salienza che passa per l’assurdo, per un surplus di violenza verbale e visiva, per l’iperbole del quotidiano e che dà sfogo grottesco alla frustrazione e alla delusione. La difficoltà nell’individuazione risiede nel fatto che queste differenze, come è frequente, non possono inverarsi nettamente, ma piuttosto in uno sfumarsi. Il percorso di instaurazione della “società umoristica”, inoltre, non è stato immediato, ma graduale nel tempo

247 GEORGES MINOIS, Storia del riso e della derisione, cit., p.763. 248 GILLES LIPOVETSCKY, La società umoristica, cit., p.157.

107 e nello spazio: e infatti “che tempistica e che caratteristiche ha avuto in Italia?” sarà proprio ciò che mi chiederò nel prossimo paragrafo.

Lo stesso Minois ammette che il filone dell’umorismo criticamente corrosivo e propedeutico al nichilismo è vissuto in parallelo ad uno di segno opposto, ovvero di edificazione e difesa di qualche valore, o almeno, di una speranza umanistica, per usare le parole di Duvignaud citate da Minois «è un modo di credere all’uomo nonostante l’uomo»249. Un rifiuto della disperazione che punta ad una rivincita su ciò che opprime e immiserisce l’esistenza. Se questa angoscia deriva dal sistema della coazione al piacere, al consumo e al ridere non è detto che non possa scaturire anche una risata che mostri un’altra possibilità, magari anch’essa materialistica ma non disperata. John Marmysz afferma proprio che lo humor sia una risposta, una reazione al nichilismo.

Nel suo studio Laughing at Nothing250 il filosofo americano mostra come nel nichilismo esista una incongruenza presente in tutti i pensatori di questo filone: il postulare l’assenza di senso di ogni valore e dall’altra, di fatto, postularne altri contrari o paralleli. Ciò che si ottiene è un relativismo profondo, ma non avaloriale: «it is not quite correct to claim that nihilism is a doctrine holding that everything is worthless. It is, rather, a doctrine holding that everything that actually exists is relatively worthless in comparison to the highest ideas of perfection»251. Quando esiste una incongruenza, ho già mostrato, può nascere dell’umorismo ed è da questa constatazione che Marmysz parte per aprire uno spiraglio di positività all’umorismo nichilista. Il nichilismo infatti è valutato da molti come una malattia dell’animo che porta alla disperazione e all’angoscia. Ma se si attiva un umorismo positivo, che ponga in primo piano la comunicazione di questa incongruenza individuata dal filosofo, questa prospettiva che umanizza gli ideali senza negarli, allora l’umorismo può essere costruttivo. Un metodo per superare «an irreconcilable disunity between the real-life

249 GEORGES MINOIS, Storia del riso e della derisione, cit., p.719.

250 JOHN MARMYSZ, Laughing at Nothing. Humor as a Response to Nihilism, State

Universty of New York Press, Albany, 2003.

251 «non è del tutto corretto affermare che il nichilismo è una dottrina secondo cui tutto è

privo di valore. È, piuttosto, una dottrina che sostiene che tutto ciò che esiste realmente è relativamente privo di valore rispetto alle più alte idee di perfezione.» Ivi, p.157.

108 abilities of human beings and their most dearly valued final ends»252. Un umanesimo nichilista che possa proporre una valorialità fatta per l’uomo, immanente, senza oppressione da assoluti alienanti. Una spinta ideale umile e priva di radicalismi.

«Ottimismo triste e pessimismo allegro»253 è questo però che si è diffuso nella società attuale. Il contrario di ciò che sembra proporre il filosofo americano, ma che è funzionale al sistema consumistico che droga di desideri fino ad inaridire la persona, come si può constatare nella nuova casistica e incidenza di malattie psichiatriche254. Un desiderare bulimico e senza scopo – che serve a coprire un’assenza come l’umorismo descritto da Minois e Lipovetsky – che inaridisce sé stesso e spegne la spinta vitale.

In parallelo alle ragioni di una lenizione dell’intensità della risata credo si possa inserire anche la dicotomia che nell’umorismo è sottointesa: quella tra identità e possibilità. Nelle incongruenze e nei paradossi che animano la risata si attiva questa duplicità di prospettiva: una parola o un concetto ben distinto che si apre a delle possibilità ulteriori o persino aliene dal suo stretto campo semantico. Questo avviene anche a livello di ruoli e identità personali: un ruolo, una persona che si identifica in una cosa lo fa anche anteticamente rifiutando di essere altro. In Pirandello questa impossibilità era vissuta in maniera traumatica: essere una cosa definita impediva il poter essere altro, era una diminuzione. D’altronde ogni scelta ci identifica sempre maggiormente, escludendo possibilità di esistenza. Questo in passato rendeva ancora più forte la tensione e la capacità umoristica. Nella società liquida però l’identità è divenuta un elemento reversibile: all’aut-aut si è sostituito l’et-et. Non si è il proprio lavoro, che si può cambiare; non si è la propria città in cui si vive, perché ci si può trasferire: molto di quello che si è in un determinato momento della vita può essere stravolto, tutto è precario. Questa reversibilità identitaria – che contiene gioie e dolori – è un altro dei lenitivi della risata.

252 «una separazione inconciliabile tra le abilità della vita reale degli esseri umani e i loro

fini valutati con più affetto.» Ivi, p.158.

253 Definizione tratta da Robert Escarpit, in GILLES LIPOVETSCKY, La società umoristica,

cit., p.175.

254 Cfr. MASSIMO RECALCATI, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica

109 Valutare la “società umoristica” con un giudizio negativo sulla risata è, ancora una volta, una questione mal posta. A livello individuale è vero che può minare le certezze degli individui, ma questo non è detto che sia un qualcosa di negativo, ma anzi il preludio ad un approfondimento e un percorso interiore. Come d’altronde la rassicurazione delle proprie convinzioni – che anche l’umorismo può favorire – può calcificare pregiudizi nocivi per sé e per gli altri. Dal punto di vista socio-politico il problema sembra differente: l’abbassamento del tono comunicativo potrebbe essere valutato come un aiuto alla fruizione di tematiche e ambiti ostici, ma questo non è avvenuto. È evidente che, in parallelo con questa flessione, c’è stato anche un forte depauperamento degli argomenti. Lipovetsky individua questa fase come l’ultima (soprattutto in senso temporale) della democrazia:

Se questa è contraddistinta da un lavoro di sradicamento progressivo di tutte le forme di gerarchia sostanziale nell’intento di produrre una società senza dissomiglianza d’essenza, senza elevatezza né profondità, il processo umoristico, privando definitivamente istituzioni, gruppi e individui della loro maestà, persegue l’intento secolare della modernità democratica, anche se con strumenti diversi dall’ideologia egualitaria.255

Ci possono essere aspetti positivi in questi cambiamenti. Il problema è che il registro umoristico, usato nella modernità per svelare le ipocrisie, nella contemporaneità è usato per l’opposto, ovvero per nascondere: il nulla, la disperazione e le gerarchie di fatto. L’umorismo leggero, ludico e disincantato, serve a mantenere l’ordine e non a scalfirlo come nel passato. Senza sorriso nessun messaggio riesce a superare il cono d’ombra che l’ipertrofia comunicativa ha creato, destinandolo però alla perdita di serietà. La constatazione rassicurante che ho fatto è che comunque non esiste un solo tipo di umorismo dagli effetti univoci.