• Non ci sono risultati.

La questione che si pone è quindi questa: dopo Pirandello, una sorta di climax tra tensione valoriale e nichilismo del periodo primo novecentesco, cosa accade? C’è una trasformazione o una continuità fino ad oggi? Qualcosa è successo – ad iniziare dal contesto più laico della Francia, terra d’origine di Minois e di Lipovetsky – sia nella società che nella cultura. Prima di tutto tra le macerie del secondo conflitto mondiale si mescolano i frammenti della fede nazionalista – origine del conflitto – infranta dall’immane carneficina. Pochi anni dopo, anche i regimi comunisti mostreranno il loro volto totalitario e oppressivo (si considerino i fatti di Budapest e Praga), parallelamente inizia ad essere sempre più capillare l’influenza del consumismo e di una nuova modernità.

Una parentesi di pace che vedrà ai suoi inizi una “rivoluzione culturale” che nelle sue dichiarazioni di principio è anti-autoritaria, creativa

100 e libertaria. Valori, spesso utopici e minoritari, che si andranno paradossalmente ad incanalare negli anni Ottanta del trionfo del mercato e del consumo. Se gli anni Settanta sono stati l’ultimo periodo di grandi ideali furono anche latori di un terreno di coltura favorevole al nichilismo diffuso. Concetti come la distruzione dell’autorità, il potere all’immaginazione, e una morale libera e lontana dalla tradizione, avevano una radice comune con le battaglie delle avanguardie storiche contro la tradizione, la razionalità e l’etica borghese. La cultura e la società degli anni Ottanta sono quindi figli diretti delle rivoluzioni dei due decenni precedenti. Il proporre dei controvalori non bastò a farli radicare nella mentalità europea, ciò che rimase fu infatti la fase distruttiva, mentre la nuova ideologia fu quella più popolare del benessere e del mercato. È anche dal ’68 che nasce la “società umoristica”, definita anche “dell’umorismo di massa” ultimissima fase della storia del riso individuata da Minois, Lipovetsky e altri. Nel Novecento infatti si ha l’ultima evoluzione dell’umorismo: da quello moderno a quello contemporaneo o post-moderno.

È proprio negli anni Settanta e Ottanta che il nichilismo non è più appannaggio esclusivo dell’ambito degli artisti, ma si diffonde anche nel sentire comune. I valori si relativizzano a tutto favore del piacere, della proprietà, dell’informale.

Proprio il boom dei bisogni, con la cultura edonistica che lo accompagna, ha reso possibile sia l’espansione umoristica sia il declassamento delle forme cerimoniose della comunicazione. La società, il cui valore cardine diventa la felicità di massa, è indotta inesorabilmente a produrre e consumare su grande scala segni adatti a questo nuovo ethos, ossia messaggi gai, felici, atti a procurare in qualsiasi momento, al maggior numero di persone, un premio di soddisfazione diretta. Il codice umoristico è davvero il complemento, l’«aroma spirituale» dell’edonismo di massa233.

L’assenza di riferimenti ideali, mescolata al dominio del consumo, sceglie come suo mezzo di comunicazione preferito proprio l’umorismo – e per Minois anche l’ironia – che ha in sé un potere corrosivo che è stato usato all’inizio del secolo proprio per destrutturare i valori tradizionali: il nichilismo si perpetua usando il genere a lui più affine. Questa forma mentis

101 acquista i lineamenti di una “disperazione educata”, nella definizione di Chris Marker, e ancora meglio della “disperazione calma” di Caproni e del suo Viaggiatore cerimonioso. Caproni non a caso, se ci si pensa, unisce i due elementi di questo discorso: raffinato umorismo e nichilismo sereno. «Il mondo deve ridere per camuffare la perdita di senso»234.

Ciò che viene reso sconveniente non è solo il credere in qualche ideale, ma la serietà che sosterrebbe una simile fede. Si è nella società liquida di Bauman che permette e incoraggia il cambiamento costante, la presenza sempre attiva di possibilità inesauribili. Se però ogni convinzione è temporanea è anche debole e vulnerabile. Ecco quindi il nascere di concetti come “morte del dovere” e “pensiero debole”235.

L’umorismo – inteso come derisione di un sistema – è anche il tono espressivo della moda, dell’arte e della pubblicità. Uno humor che non è più critico, ma ludico e freddo, senza oggetto e anelito alla verità. Far ridere è un modo per legare emotivamente un prodotto ad un affetto positivo in cui la contraddizione è di facile risoluzione e senza carichi negativi, un riso vuoto insomma. La pubblicità rinuncia sempre più spesso a formulare illusioni e «lungi dal mistificare celando i propri moventi, si presenta come “mistificazione”, enunciando tesi che annullano di per sé il loro indice di verità»236. Se d’altronde il non credere a nulla è sistematico, non ha senso postulare qualcosa, tutto si distanzia e perde di importanza: l’umorismo è quindi divenuto un modo per smuovere qualcosa nel fruitore, risvegliare la sua attenzione con una stimolazione intellettuale. La società dell’ultimo quarto di secolo, ormai coinvolta in questa assenza valoriale, usa massicciamente il registro della risata, e anzi ormai esso la domina: «ridere è obbligatorio, gli animi tristi vengono esclusi, la festa deve essere permanente»237. Un gruppo che ride infatti ha un’indole dispotica che accetta difficilmente una persona seria al suo interno, tramutandolo in fretta nel suo oggetto di comico. Se non si gioca, se non si è in qualche modo capaci di far ridere o scherzare su di sé, la possibilità di essere ridicolizzati ed esclusi è molto alta. Ciò è rischioso perché, lenito il senso di colpa, la

234 GEORGES MINOIS, Storia del riso e della derisione, cit., p. 680.

235 La prima legata ancora a Lipovetsky, mentre la seconda è di Vattimo e Rovatti. 236 GILLES LIPOVETSKY, La società umoristica, cit., p.164.

102 vergogna è un onta irredimibile. Questo però crea un appiattimento delle singolarità, incoraggiando il gregarismo. «Ridere di tutto significa adattarsi a tutto, abolire il bene e il male per essere cool»238. L’umorismo è quindi usato nella sua funzione di aggregante sociale, ma al contempo di forte inibizione individuale. Se il riso è però un obbligo sociale, spesso vuoto e distanziante, perde la sua dimensione gioiosa e liberatoria. Un paradossale mondo triste che è circondato da risate, in una coazione al riso che diventa psicotica e nevrotica.

In questo panorama l’idea di festa e divertimento è centrale. La festa non si vuole più come parentesi in un procedere quotidiano grigio e monotono, ma come regola in cui non esiste più – se non in contesti non rappresentati – la serietà e la formalità: tutto deve essere eccitante e sciolto. Il divertimento è ormai un ethos diffuso: il sacrificio, la sobria pacatezza o il risparmio vengono percepiti con un forte odore di stantio e visti con sufficienza, se non proprio derisi. Ciò che conta è sentirsi vivi nel senso più ostentato e riconoscibile. D’altronde le ricorrenze di festa si moltiplicano, con al centro i più disparati pretesti spesso smaccatamente commerciali. La festa senza un riferimento mitico, o una ragione che smuova un investimento emotivo profondo, è povera, scipita e, per assurdo, frustrante. Prendendo in prestito Girard239, senza un riferimento vittimario capace di spegnere la violenza la festa acquista un tono aggressivo. Ecco quindi che in presenza di manifestazioni pubbliche, magari investite di un’importanza pratica o identitaria (manifestazioni di protesta o sportive), rinasce lo scompiglio e la brutalità. E il critico francese, paradossalmente, vede come possa nascondersi nella festa laica uno degli ultimi scampoli di tragedia nella nostra società.

A proposito di festività, sia Minois sia Lipovetsky notano come si sia diffusa una rinnovata fascinazione verso il carnevale. Un carnevale privo di qualsiasi riferimento all’idea originale, quella bachtiniana per intenderci, e piuttosto trasformato in un modo per esorcizzare, in un rito millenario, la paura della propria caducità in un modo, però, che esalti l’individualità con costumi personalizzati e un’ostentata unicità. Del sentire antico nulla è

238 Ivi, p. 730.

103 sopravvissuto, se non in alcuni riti minoritari anche loro, però, minacciati da spettacolarizzazione e mediatizzazione. In realtà il carnevale non può esistere in una società che è già di per sé priva di gerarchie rigide, di ruoli strutturati e di ideali forti: in una società già liquida ha ben poco senso, se non quello di una delle rare feste a base mitica e svolgimento rituale. Siamo, dunque, in una società che è capillarmente carnevalizzata e la politica ne è il più limpido esempio.

Nel dibattito politico di tutto l’Occidente si è sempre più visto il massiccio uso di un registro informale. Se fino agli anni Settanta il potere era rappresentato, nella stragrande maggioranza delle occasioni, nella sfera pubblica e istituzionale, e solo raramente in quella della vita privata dei suoi protagonisti – e in maniera mediata e formale –; ora il privato e il pubblico si confondono in un unico registro ammiccante e sapido, più simile al gossip che all’informazione. Anche la comunicazione politica usa con sempre maggiore impatto la battuta, lo scherzo e lo scherno dell’avversario. Il politico in precedenza era meramente un oggetto di riso, ne produceva ben poco e con una salacia misuratissima; dagli anni Ottanta in poi è divenuto oggetto attivo e complice per poi arrivare a prendere direttamente lui stesso in mano il ruolo comico. La capacità di ridere di sé, di comunicare con il sorriso è un elemento centrale della nuova classe politica: chi deride il potere ha sempre di più il ruolo del buffone di corte che accusa ma che nessuno prende sul serio. La derisione massiccia ben lungi dal nutrire la sovversione, ha «contribuito a banalizzare le pratiche che si diverte a denunciare»240. I cittadini si sono lentamente trasformati in spettatori, anche perché privi di quegli strumenti che si facevano veicolo di critica seria. «Il candidato deve interpretare una commedia davanti agli elettori cui nulla ripugna di più della tragedia, e i suoi sostenitori devono scandire “slogan dallo schematismo stupido”»241, come i refrain di alcuni comici televisivi o come un motto pubblicitario. Il riso si tramuta in oppio dei popoli perché sostituisce il dibattito sulle idee, «diviene un sostituto del ragionamento e della prova»242. D’altronde «più la demotivazione politica aumenta, più la

240 GEORGES MINOIS, Storia del riso e della derisione, cit., p. 732. 241 Ivi, p. 737.

104 scena politica assomiglia a uno strip-tease di buone intenzioni, di onestà, di responsabilità e si trasforma in una buffonata in maschera»243. Se le ideologie cessano di avere vera presa non solo nel voto popolare, ma anche nelle scelte dei rappresentanti pubblici, la spinta di appartenenza si perde: la discussione seria dei problemi e delle loro rispettive soluzioni diviene pesante e noiosa. È per quello che, nella società della festa, del divertimento e dell’edonismo, la politica cerca di porsi in maniera informale, sfruttando il meccanismo economico della fidelizzazione al marchio più che la profondità di argomentazione. Ho voluto concentrarmi su questo aspetto della società umoristica perché, se è capace di investire il dibattito sui destini del paese, si può immaginare che influenza abbia in ambiti meno palesemente decisivi come l’arte e la letteratura.

I tre elementi fondanti dell’umorismo hanno dunque subito una trasformazione: se la funzione critica è diventata cinismo e la razionalità distacco e volubilità calcolata, l’individualismo è mutato in narcisismo. Da questo punto di vista Lipovetsky parla di due rivoluzioni dell’individualismo: la prima avvenuta nell’interiorizzazione degli ideali dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese; la seconda con la società dei consumi e la diffusione dell’edonismo. Il modello umano di riferimento oggi è ipercompetitivo ma distaccato, come gli eroi dei film d’azione americani – capaci di ironia prima di uccidere a sangue freddo. Concentrato nell’auto-miglioramento e nell’edificazione di un sé solido, autotelico e slegato da rapporti significativi con gli altri. L’Io è l’ultimo scampolo di sacro e per questo uno dei campi in cui si esercita maggiormente la derisione attuale. Il riso collettivo, e in genere la società umoristica finora descritta, è in contrasto con l’individualismo: esalta il gregarismo, la standardizzazione dello humor, l’assenza del soggetto in favore di un esternazione della personalità, una sua spettacolarizzazione nella moda e nella tecnologia. Questo ha come conseguenza che «la festa obbligatoria e perpetua, come soluzione collettiva all’angoscia di un mondo che ha perduto il suo significato, rende impossibile la forma individuale del riso che è l’umorismo»244. Si crea quindi una situazione paradossale: una società

243 GILLES LIPOVETSCKY, La società umoristica, cit., p.179. 244 GEORGES MINOIS, Storia del riso e della derisione, cit., p. 745.

105 dell’umorismo e del riso che nella sua intimità non riesce più né a ridere né a fruire del suo genere di riferimento. Il rapporto con gli altri è basato su una sostanziale accettazione di qualsiasi cosa, non esiste più scandalo. Niente è serio, tutto è rispettabile e allo stesso tempo investito di autoironia: «l’indifferenza ha preso il posto dello scontro»245. C’è una forte tabuizzazione dell’aggressività, della satira salace e della critica beffarda, si preferisce sfumare l’oggetto del riso in una esaltazione, spesso retorica, del rispetto verso categorie deboli e intoccabili. Un politically correct che crea riserve speciali che rafforzano la separazione e non fanno esprimere le pulsioni più recondite in maniera positiva. In parallelo l’auto-ironia ha una grande importanza: la coscienza di sé è l’ultimo baluardo che rimane integro nella società globale in cui il singolo ha una importanza minima. Se niente importa, se ogni postulato deve essere relativizzato, l’ambito sociale diviene uno strano luogo in cui l’espressione di sé è fittizia, ma in cui l’individuo non riesce ad esprimersi davvero e rimane chiuso in sé in preda alle sue pulsioni psichiche. «Con l’inconscio, l’ego perde il controllo e la verità su sé stesso; con il processo umoristico, l’Io si degrada a fantoccio ectoplasmatico»246, un fantasma ossessivamente rievocato e ostentato, ma che sempre di più acquista i lineamenti di una finzione.