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Dalla metà degli anni Cinquanta iniziarono i fermenti di cambiamento nelle Lettere italiane. Nel 1955 Pasolini, Roversi e Leonetti fondarono «Officina» e nel ’59 Vittorini e Calvino fondarono il «Menabò». Entrambe riviste che non avevano nulla a che fare con l’umorismo, ma che puntavano ad un rinnovamento della cultura letteraria italiana. Se la prima redazione aveva tra i suoi componenti dei poeti che nella loro attività stavano già rinnovando la poesia, la seconda rivista annoverava dei romanzieri tra i suoi fondatori. «Officina» aveva tra i suoi obiettivi polemici la poetica neo- ermetica e il neo-realismo, puntando invece ad una poesia che si aprisse al mondo e ai nuovi linguaggi, esplorando nuove forme liriche. Il «Menabò» invece portò queste tensioni ad uno stadio successivo accogliendo al suo interno già alcuni esponenti della futura neoavanguardia come Pagliarani, Eco e Sanguineti affiancati ad alcuni autori esemplari nella loro originalità, come Sereni, Giudici e Rosselli. La percezione tra questi letterati era che la letteratura di quegli anni fosse segnata da uno stallo, da una ripetizione

181 pedissequa di alcuni stilemi e modelli passati e sorpassati. Il Gruppo ’63 nacque da questo milieu culturale per portarlo alle estreme conseguenze.

Nel 1961 la neoavanguardia è preceduta da una raccolta di versi, I novissimi, che pose le linee guida della battaglia poetica che un gruppo di autori voleva portare avanti. Ma per la narrativa le linee di fronte del conflitto furono meno nette e i punti di riferimento positivi non erano ancora ben chiari. Pasolini, Calvino e Moravia, per esempio, erano guardati sia con favore che con sospetto. Pirandello era visto come un padre nobile, come un esempio da seguire, ma anche da superare. La narrativa non era un campo in cui la neoavanguardia sembrava pronta a creare manifesti, come nell’ambito lirico, ma piuttosto aprire un dibattito363 per cercare una linea di intenti comune. D’altronde anche l’esperienza fattiva dei romanzieri neoavanguardistici sarà piuttosto varia. Certo è che le esperienze di alcuni umoristi come Campanile e Zavattini assursero il ruolo di possibili modelli ed esempi di un oltre-romanzesco da poter esplorare, che però – pur essendo eredi della prima avanguardia – ai neoavanguardisti potevano «apparire ugualmente prigionieri di un’ipoteca “alta”, bellettristica, e dunque non sembravano prestarsi alle nuove esigenze»364.

Se anche si fondò un gruppo riconoscibile, non si fecero manifesti riconosciuti e programmatici, ma si optò per dare voce ad una generale insoddisfazione per poi lasciare ad ognuno l’iniziativa di esplorare le proprie vie d’uscita. Ciò che creava maggiori malesseri era la stasi di una letteratura che si contorceva ancora sul neorealismo – anche se superato già dai suoi fondatori – e su una comunicazione basata su consuetudini, linguaggi tradizionali e letterari. Quello che creava ulteriori resistenze era anche un permanere di modi narrativi legati all’Io moderno e borghese, come il narratore onnisciente, tecnica percepita – anche da Barilli365 – come crimine e delitto sociale. Il narratore eterodiegetico era, dunque, una sorta di manifesto senso di superiorità e volontà di separazione dell’intellettuale dal

363 AA.VV., Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Palermo 1965, Feltrinelli, Milano, 1966.

Volume che raccoglie il dibattito aperto sul romanzo sperimentale in un incontro successivo di due anni a quello fondativo. Riproposizione che mostra l’eterogeneità delle posizioni in questo ambito artistico.

364 RENATO BARILLI, La neoavanguadia italiana. Dalla nascita del “Verri” alla fine di

“Quindici”, Manni, San Cesario di Lecce, 2007, p. 85.

182 mondo popolare o comune, una finzione che spezzava la società senza classi che si andava edificando nella nuova società del consumo. Una società del consumo che andava ad erodere con sempre maggiore violenza il soggetto e l’Io, quelle che erano anche la basi moderne dell’umorismo. Il modello che veniva indicato giungeva da Oltralpe: il Noveau Roman, nelle sue declinazioni interne. Da una attenzione radicale sulla cosità degli oggetti che riduceva l’Io al minimo, come la narrativa di Robbe-Grillet, fino a soluzioni che moderavano la capacità oggettivante come quelle di Butor, Simon e Pinget dove la coscienza umana era ancora presente, ma priva di quell’imperio rappresentativo tipico della tradizione.

Il problema che si poneva rispetto all’Io era il suo rapporto con il mondo, un rapporto che in letteratura si legava alla cognizione e che si voleva nuovo e privo di riferimenti già posti dalla tradizione e dalla letteratura precedente. Come detto questo rapporto con il mondo e la sua cultura, ma anche con la letteratura precedente, è un’altra base dell’umorismo: la critica e lo sberleffo a queste istituzioni era un dato fondamentale della risata. Perciò l’umorismo poteva fungere da appiglio al nuovo modo letterario, che a sua volta gli conferiva valore attraverso il postularne l’esistenza futura, il discuterne, il riconoscerlo come parte in causa. Se il nuovo problema che si poneva era quello conoscitivo tra soggetto in minore e oggetto prevalente366, la nuova letteratura lo voleva rifondare con una decisa cesura con il passato.

I problemi che si ponevano erano dunque due: il ruolo dell’Io nella conoscenza e il rapporto con la realtà. Le soluzioni che si trovarono – in linea con gli esempi francesi – furono quelle di una netta riduzione del soggetto e quelle di una coscienza scissa e confusa, al limite della follia. Si rifiutavano di conseguenza i racconti lineari e in terza persona, dove ci fosse un distacco narrativo e una voce giudicante. La lingua scelta anche in questo caso era attratta da due opposti: una lingua neutra manipolata e una riscoperta dell’espressionismo gaddiano, ma sempre con un sospetto per il dialetto che era valutato come un limite della lingua italiana, un registro reputato basso e legato al passato367. Si cercava una linea espressionistica,

366 Cfr. Ivi, pp. 113-115. 367 Cfr. Ivi, pp. 97-99; 115-116.

183 ma che evitasse le belle lettere e il dialetto, e si slanciasse verso la lingua moderna trasformandola.

Le esperienze artistiche però saranno molto differenti nella loro concreta esecuzione da queste linee generali. Alcuni come Arbasino si legheranno maggiormente a Gadda; altri invece come Sanguineti porteranno al massimo il grado di sperimentalismo narrativo in Capriccio italiano; altri ancora porranno una certa attenzione al mondo della risata e dell’umorismo. Di questo ultimo gruppo faranno parte, come studiosi, Umberto Eco e Oreste Del Buono, e come autori, Luigi Malerba e Gianni Celati.

Umberto Eco dividerà la sua curiosità verso il genere nelle sue attività principali: la scrittura creativa, la pubblicistica e la saggistica. In tutte approfondirà il tema della scrittura per la risata. Dal punto di vista conoscitivo la sua attenzione si appunta – oltre che su tematiche generali – anche su Achille Campanile, che viene studiato – come si è potuto notare nelle citazioni al capitolo a lui dedicato – in molti aspetti del suo stile, e che viene citato persino in Sei passeggiate nei boschi narrativi368: un’occasione di un certo prestigio, dato che sono il testo di lezioni tenute all’Università di Harvard. Di impianto campaniliano è ancora Come viaggiare con un salmone, raccolta del 2016, che esplora l’assurdo della trattazione e che per molti versi ricorda alcuni brani di Gli asparagi e l’immortalità dell’anima. È nota anche l’attitudine di Eco all’uso dell’ironia nei suoi articoli pubblicati in riviste di ampia diffusione, un tono non costante ma che si presentava come tecnica possibile nelle trattazioni che maggiormente si prestavano al suo uso. D’altronde le tecniche del comico fanno già capolino, con molta cautela, nei suoi interventi del convegno del 1965 sul romanzo: il comico e l’ironia creano, attraverso alcuni stratagemmi, delle aspettative codificate, che possono anche sfuggire dal modo tradizionale della narrazione369. Nei suoi romanzi il comico è un tema che ritorna e che soprattutto ne Il nome della rosa ha un ruolo centrale, dato che la vicenda ruota intorno al ruolo del comico nella conoscenza della verità. Nell’opera lo scontro ideologico sull’umorismo è impersonato da Guglielmo di

368 Due sono le definizioni: «grande scrittore comico» e «sublime scrittore umoristico» in

UMBERTO ECO, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1999, poss. 69 e 1456.

184 Baskerville, assertore di un comico e di una risata utile nella trattazione per sostenere le tesi della fede, e da Jorge da Burgos, che invece sostiene che il riso è sempre dalla parte della distruzione, e della scomposizione istituzionale. Un conflitto che porta all’epilogo tragico e alla distruzione di molti manoscritti sul tema. Da questo punto di vista è particolare la data del romanzo, il 1980, a conclusione degli anni di piombo, e nel preludio del decennio del nuovo benessere e dell’edonismo, epoca in cui l’umorismo si fa massiccio nelle televisioni commerciali e non solo. L’epoca in cui la società dei consumi italiana diventa pienamente umoristica e dello spettacolo. Sempre ne Il nome della rosa c’è un omaggio a tutta la tradizione del comico medievale nel sogno di Adso, la voce narrante, vissuto nell’ora terza del sesto giorno370. La sperimentazione linguistica si unisce qui all’erudizione di Eco che porta il piano della storia in una dimensione carnevalesca e allo stesso tempo – per la distanza temporale con la vicenda – in un ambito di alta cultura letteraria.

La domanda sul ruolo conoscitivo della risata a cui Eco sembra rispondere positivamente, ha una risposta simile anche da parte di Oreste Del Buono. Lo scrittore e studioso infatti fu uno dei maggiori critici di molti umoristi citati in questa trattazione. Del Buono infatti firmò introduzioni a Campanile, Guareschi, Manzoni, Marchesi e Paolo Villaggio concedendo al genere un riconoscimento critico che – insieme a quello di Eco – gli giovò nell’ambito della critica letteraria. L’umorismo, con il neorealismo, era entrato in crisi perché sembrava destituito di valore conoscitivo, e soprattutto era valutato come una fuga dall’impegno; gli anni di piombo faranno pesare ancora maggiormente questi pregiudizi. Inoltre i mass media limitavano sempre di più la possibilità di un umorismo letterario, attraendo molte energie degli artisti legati al genere. Il riconoscimento critico di una tradizione letteraria di valore o da valorizzare, legato ad un approccio nuovo e di rottura, servì anche a rendere appetibile ai nuovi letterati un nuovo approccio al genere, che così poteva uscire dall’aura di vetustà che invece negli anni Cinquanta sembrava averlo colpito.

Tra gli scrittori vicini alla neoavanguardia quelli che si approcciarono allo humor con maggior decisione furono Luigi Malerba e Gianni Celati. In

185 entrambi i casi ci troviamo dinnanzi a scrittori sperimentali che in diverso modo provarono a rinnovare il genere secondo alcune linee individuate dagli incontri del Gruppo ’63, pur non sottoscrivendone totalmente le linee e gli approcci.