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Anche Gianni Celati, di una decina d’anni più giovane di Malerba, esplorerà nei suoi lavori di esordio la scrittura per la risata, sempre nella prospettiva di una coscienza alienata e disturbata, patologica. Celati, a differenza di Malerba, però produrrà un importante supporto teorico per le sue scelte stilistiche, forse più interessante del risultato stesso della sua narrativa. Lo scrittore, anche lui dell’Emilia-Romagna, parte da alcuni presupposti che vanno in controtendenza rispetto a tutta la tradizione

379 PAOLO MAURI, Malerba, cit., p. 44.

191 umoristica del Novecento. Innanzitutto è fortemente contrario all’umorismo ed è invece favorevole al comico, puro e slegato dal raziocinio, che si rifà a quello bachtiniano del Carnevale. Questo perché – secondo l’autore – l’umorismo è legato ad una evoluzione borghese e malinconica della risata. Tutto parte da Ben Jonson che tramuta i comici in insegnanti: «L’attore che muove il riso inganna la gente: dunque la comicità si manterrà nei limiti giusti solo quando insegnerà l’inganno del ridicolo, o questo autoinganno che sono le passioni che si esteriorizzano»381. Il testo comico quindi diventa prima uno strumento per istruire, fino a diventare un mezzo di controllo sociale, simile a quello teorizzato da Bergson, per poi arrivare a Breton e il suo umorismo nero, che è un “riso smorzato”. Il riferimento critico, ma mai citato, è anche Pirandello che nel suo umorismo portava alla massima espressione la condanna verso il comico in favore dell’umorismo. Concezione quella del girgentino che «si colloca idealmente agli antipodi della concezione di comico collettivo come unità intatta del corpo sociale grottesco propria della tradizione carnevalesca cara a Celati»382. Un riso collettivo che non è più possibile in una società individualista come quella degli anni Settanta e Celati ne ha consapevolezza. La linea umoristica, secondo l’autore, è sempre favorevole alle strutture della borghesia, e la critica del potere formulata in essa è di frequente superficiale. Siamo all’esatto opposto della distinzione che Umberto Eco porrà tra comico e umoristico e che abbiamo citato nei primi capitoli. Celati, infatti, non prende in considerazione la funzione che ha il comico di sfogo rilassante che fa divenire accettabile il presente e la realtà, anche quella più oppressiva. Il comico diventa per lo scrittore emiliano una possibilità di contestazione perché portatrice di una visione altra e corporea. L’opposto di una esperienza umoristica mentale, spirituale e incorporea «dove c’è solo da pensare, da meravigliarsi, da comprendere»383. Corporeità che Celati vuole riscoprire, ma che la recente tradizione letteraria ha marginalizzato non

381 GIANNI CELATI, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino,

1986, p. 67.

382 ALESSANDRO VITI, Teoria e pratica del comico in Gianni Celati, in «Studying Humour -

International Journal», 2016, vol. 3, pp. 9-10.

192 lasciando esempi a lui davvero graditi – se non per l’eccezione di Beckett384. Di conseguenza l’autore preferisce esplorare un altro mondo espressivo, il cinema muto, quello costruito su gags ed episodi clowneschi. La riscoperta del personaggio liminale, che si fa carico delle virtù anti-borghesi è un elemento legato alla teoria carnevalesca ma anche, come mostrato nella parte introduttiva, un carattere culturale che ritorna in molte comunità. Tra fool e clown però esiste una differenza: il primo ha possibilità di parola e di espressione logica, il secondo è solo corpo, espressione attraverso gesti. Per Celati – su uno spunto di Fellini – «il clown è come il nostro doppio, che porta con sé tutto il nostro infantilismo e insieme la nostra senilità»385. Due epoche della vita che ritornano alle necessità del fisico e verso una limitata possibilità di parola data dalla loro estremità anagrafica. Celati rimarrà convinto che la comicità derivi da una gestualità mentale e che il comico sia un modo espressivo che sfugge alla letteratura, anche negli anni che lo vedranno ormai distante dal genere386. Proprio dai matti Celati prenderà

spunto per costruire i suoi primi romanzi: consulterà infatti i diari di alcuni internati in manicomio e da uno di questi trarrà lo spunto per Comiche, storia di fantasiose persecuzioni più oniriche che reali. «La coscienza infelice evita il delirio, vivendo la frattura che c’è tra un io trascendente che parla il discorso giusto di tutti gli uomini e un io empirico che campa nell’errore»387. Questa frattura però porta alla nevrosi, alla scissione dal consesso umano e quindi fa perdere la possibilità di quella unità comunitaria carnevalesca: «È solo con il modello psicotico o schizofrenico che si salta al di là di tutto questo, al di là della passione della verità-luce»388. Ecco quindi che la scelta di una coscienza mattoide diventa la via privileggiata da Celati: il carnevale si salda con l’alienazione contemporanea, una necessità di ritornare al corpo per ritrovare la propria unità.

384 Ivi, pp. 155-184.

385 GIANNI CELATI, Dialogo sulla comicità intervista con Alessandro Bosco, in ID.,

Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, Macerata, 2011, p. 165.

386 Ivi, p. 167.

387 GIANNI CELATI, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, cit., p. 97. 388 Ibidem.

193 «Liberarsi della letteratura attraverso la letteratura stessa»389 in un percorso di appropriazione esistenziale attraverso la scrittura è d’altronde un elemento caratterizzante della poetica celatiana, come spiega bene Belpoliti nella introduzione al “Meridiano” dedicato all’autore: lo scrittore inoltre rifugge sia la socialità letteraria, sia i paludamenti stilistici dell’istituzione artistica. Ne risentiranno anche i rapporti con il Gruppo 63, che non accoglierà con grande entusiasmo i suo esperimenti comici, e che lui criticherà aspramente in alcune interviste390. Come non voleva scrivere dei testi che andassero a soddisfare i neoavanguardisti, Celati non voleva però nemmeno scrivere romanzi di successo e destinati alla massa: uno sperimentalismo autonomo, insomma. Eppure Celati frequentò il gruppo e lesse i suoi testi ad una platea composta da chi aveva quel tipo di sensibilità: lo scrittore, perciò, non può dirsi lontano da quel milieu. Non è un caso quindi se Barilli sente il pieno diritto di inserirlo nella sua trattazione sulla neoavanguardia391.

Lo sperimentalismo a cui si sente più vicino Celati è quello assurdo di Beckett, che reputa « la più avanzata ricerca letteraria nel campo comico dell’epoca moderna»392. Questo sia per l’uso delle gags, sia per l’organizzazione testuale del racconto. Beckett infatti viene apprezzato da Celati per la sua capacità di giustapporre in modo analogico scenette e battute senza piegarsi al diktat della trama, ma seguendo un caos logico che lo avvicina al carnevale e al comico cinematografico. Il modello è in realtà già presente in altri scrittori umoristici italiani, come ad esempio Campanile, ma senza l’oltranzismo linguistico e illogico dell’irlandese. La conformazione centrifuga del romanzo umoristico è d’altronde tipica del genere, con le sue estreme divagazioni, ed è presente perfino nelle opere aurorali come quella di Sterne.

389 MARCO BELPOLITI, La letteratura sull’orlo dell’abisso, in GIANNI CELATI, Romanzi,

cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Mondadori Meridiani,

Milano, 2016, p. XXV.

390 Cfr. ALESSANDRO BOSCO, Dialogo sulla comicità con Gianni, e AURORA CAPRETTI,

Intervista a Gianni Celati, in «Nuova Prosa», 2012, n° 59; Contro le avanguardie,

intervista di CLAUDIO CERRITELLI a Gianni Celati, in «Doppiozero», 18 aprile 2016,

http://www.doppiozero.com/materiali/contro-le-avanguardie.

391 RENATO BARILLI, La neoavanguadia italiana., cit., pp. 177-180.

194 I testi comici di Celati saranno quindi caratterizzati da una ricerca linguistica che renda al meglio la corporeità e le gags e le bagarre tipiche del cinema comico; da una trama inconsistente e sempre sottoposta all’arbitrio dell’analogia; dal protagonismo di una coscienza patologica e non razionale che prende il ruolo di voce narrante e, infine, ha tra i suoi elementi distintivi il perseguire una volontà di stratificazione stilistica e verbale. Tutti questi elementi rendono i suoi testi difficilmente fruibili al grande pubblico e richiedono una attività intellettiva di decodifica che inesorabilmente fanno scivolare Comiche e le opere di Parlamenti buffi verso quell’umorismo che tanto voleva combattere l’autore. Dove sta allora lo spiraglio per la risata?

È il ritmo stesso, qui, a essere comico. L’effetto ritmico annulla le regole morfosintattiche delle scritto per riprodurre il movimento dei corpi, in una lotta continua fatta di aggressioni, bastonate, inseguimenti, corse, cadute senza conseguenze come nelle comiche del cinema e del teatro mimico393

Celati vuole fare della lingua corpo, agente portatrice di quella dimensione annullata dall’umorismo spirituale e astratto tipico della tradizione. L’uso arbitrario della lingua causa errori – esaltati da Celati, e viene in mente il Savinio dei lapsus calami – e inversioni dello standard linguistico, una contestazione verbale che passa dalle gaffes e dagli inciampi della lingua paralleli a quelli che un clown può fare durante un suo spettacolo. Il risultato però non comunica spontaneità né leggerezza, ma anzi studio e una difficoltà nella lettura che rompe il piacere che si vorrebbe sciolto e spensierato. Per dare solo un saggio di questo esperimento possiamo citare l’incipit di Comiche:

C’era un ignoto nella notte dal giardino il quale senza tregua mi rivolgeva verbigerazione molesta e irritante dice: - schioppate il professore. E: - schioppatelo Otero Otero Aloysio Aloysio. Come a colpire con voce da spavento e pretese strane mettermi in grave stato d’agitazione non si capisce il motivo. Intende si vede prima svegliare di soprassalto aggiungendo ansia alla sorpresa per il fracasso di certi bidoni da lui rovesciati nell’oscurità.394

393 ALESSANDRO VITI, Teoria e pratica del comico in Gianni Celati, cit., pp. 15. 394 GIANNI CELATI, Comiche, Quodlibet, Macerata, 2012, p. 7.

195 Una scrittura che pretende una sincronizzazione del lettore rispetto alla cadenza celatiana, costruita con pazienza e costanza nell’ascolto del testo e che alla fine produrrà un riso smorzato e nervoso. Il «riso che ne scaturisce è altrettanto liberatorio solo se si sospende la riflessione su quanto sta realmente accadendo, che in sé non è per niente divertente»395: non c’è dunque spontaneità nel riso, si riesce a immergersi nell’atmosfera «di un universo oppressivo e concentrazionario»396 con fatica e, senza trovare un appiglio nella vicenda, la continuazione della lettura è ardua e senza scopo apparente. Il rischio inoltre è quello individuato da Barilli: «i suoi eroi maldestri si tuffano in un tessuto di mini-imprese, di piccole operazioni quotidiane che rendono sempre lo stesso sapore, impostano un medesimo circuito di trasgressione»397. La ripetitività delle azioni che hanno il limite di una lingua sempre trasgressiva, che alla fine si fa norma perdendo il suo piccolo carico di divertimento.