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Durante il regime e la guerra l’umorismo scritto e narrativo ebbe un gran risalto anche in scrittori che non si identificarono pienamente con il genere, ma che lo sfruttarono per poter esprimere un malcontento serpeggiante, e per sfuggire alla retorica totalizzante del fascismo. Quest’ultima si basava sull’idea di un uomo forte e volitivo, ardito, un maschio italico dalle grandi virtù militari e virili, irregimentato ed efficiente. Il chiaro fine patriottico, quello della vittoria, è inseguito con passione e razionalismo senza domande (come i monumenti del regime). Il fascista rinnegava le parlate antiche e popolari per usare l’idioma patrio, una lingua unica e con aspetti stereotipati ed esclamativi264. La donna in tutto questo assumeva il ruolo di preda amatoria più o meno riottosa, oppure di umile moglie e madre dolcemente china ai doveri familiari265. La realtà del Paese era però ben diversa e questo creava nella popolazione una certa ilarità: più la retorica si faceva assordante, più il senso di incongruenza diveniva lampante e la risata probabile. Questo carico ideologico ha un ruolo fondamentale per comprendere molte scelte artistiche presenti nelle opere coeve.

In questo periodo ebbero grande successo riviste umoristiche come il «Bertoldo» e il «Marc’Aurelio», con tirature alle volte consistenti, che furono l’agone principale in cui sviluppare la verve di molti scrittori. Da notare anche come il centro produttivo di queste riviste era spesso la Milano della Rizzoli e della Mondadori, e anche, minoritariamente, Roma. Gli autori di frequente però erano di origine provinciale, come Guareschi e Zavattini. Avveniva quindi in piccolo quella migrazione provincia-città che

264 Cfr. ERASMO LESO, Aspetti della lingua del fascismo. Prime linee di una ricerca, in AA.

VV., Storia linguistica dell’Italia del Novecento, a cura di Maurizio Gnerre, Mario Medici e Raffaele Simone, Bulzoni, Roma, 1973, pp. 139-157.

117 sarà tipica degli anni successivi, e allo stesso tempo si creava una saldatura tra due entità che si volevano in antitesi. Alcune testate per il loro piglio troppo libero nell’affrontare argomenti e personaggi furono anche chiuse, come «Omnibus» di Longanesi266 e il «Becco giallo», altre invece furono usate dal regime stesso per colpire alcuni personaggi267. Durante il regime il genere umoristico non fu uno tra i tanti, ma fu un campo di battaglia culturale all’interno della società. A dargli ancora più risalto fu il premio Nobel a Pirandello, che non solo lo portò in scena (in una chiave ben poco ilare, in realtà), ma ne scrisse in un trattato teorico, L’umorismo, che ebbe una influenza netta sulla cultura, non solo italiana, dell’epoca. Uno scrittore che si era dichiarato fascista, ma che con l’umorismo apriva squarci artistici e possibilità espressive più libere e nuove, utilizzabile quindi sia dalla dittatura sia dagli oppositori. Un’ambiguità su cui giocarono in tanti durante il periodo per sfuggire alle maglie della censura.

Nel pensiero artistico le avanguardie avevano perso la loro forza e importanza in favore di un diffuso ritorno all’ordine. Questo aveva portato a vedere proprio nell’opera pirandelliana un esempio di sperimentalismo cauto e non eccessivamente di rottura. Il futurismo pittorico aveva ceduto il passo ad un figurativo straniato o ad un minimalismo razionalista. Ed era tornato in auge l’idealismo in contrasto con il niccianesimo nichilista, troppo pericoloso per la struttura fideistica e obbediente dell’italiano teorizzato da Mussolini.

Narrazioni rette, lingua unica e ampollosa, ragionamenti semplici e monomaniacalmente patriottici, nessuna pietà per le debolezze, virilismo, militarismo e retorica della potenza, efficienza e operosità sono questi i caratteri che ritornano in quegli anni con maggiore insistenza, e che sia la popolazione, sia gli scrittori individuavano come più posticci e mistificanti. Una critica che non poteva esprimersi in maniera diretta e che quindi prende la strada ambigua della risata268, che combatte ma fa anche accettare.

266 Per chiarire bene il suo ruolo duplice rispetto al regime, e rendere chiare le differenti

interpretazioni su questa rivista cfr. RAFFAELE LIUCCI, Leo Longanesi, Carocci, Roma, 2016, pp. 21-24.

267 Cfr. sulla vicenda del «Serenissimo» CESARE ROSSI, Trentatrè vicende mussoliniane,

Ceschina, Milano, 1958.

268 Un ambiguità che è difficile da dirimere perché si può giocare sulle note dell’eccesso

118 Un esempio è l’opera di Carlo Emilio Gadda che pubblicherà le sue maggiori opere dopo la fine del Ventennio, ma che da questo prende pesantemente spunto per molte sue ambientazioni e tematiche. Anche il suo uso della lingua può essere annoverato come una reazione al monolinguismo turgido del fascismo: i dialetti acquistano spessore, accostati alla lingua tecnica in una composizione che si fa coloratissima269. Questo colore, però, si fonde con una scarsa propensione alla conclusione e alle linee rette della narrazione. Il risultato è un groviglio di parole che intrattengono, divertono, fanno perdere, ma non raccontano se non a piccoli sprazzi. Il filo d’Arianna si è spezzato lasciando l’autore nel labirinto della realtà caotica, l’unica cosa che gli rimane è un gomitolo da districare, ma che non porterà ad una soluzione270. L’umorismo che sembra nascere ricorda le parole usate da Berger: il riso deriva dalla collocazione dell’essere umano, grande rispetto ai microbi e piccola rispetto all’universo. Qui la lingua si fa sintomo di intelligenza e capacità gnoseologiche, ma che girano a vuoto, che macinano la propria inutilità, in un barocchismo che si fa etica conoscitiva271. La lingua d’altronde ha un ruolo cardinale nell’opera del gran milanese, anche per la risata. Questo sembra porre una eccezione nel GTVH, il metodo archittettato da Attardo, dove la variabile linguistica è quasi sempre ininfluente. In Gadda, ancor di più che in qualsiasi scrittore, tutto è lingua, anche la risata che si fa portatrice di un paradosso barocco che rifrange la realtà in una spirale di specchi.

Uno dei classici riconosciuti del secolo scorso sembra quindi anche lui rifarsi all’umorismo tanto in auge in quegli anni. In Gadda l’aspetto umoristico sembra però accidentale, come un avvenimento insito nella sua scrittura, e non programmatico (come invece accade nei due scrittori che proporrò prima di arrivare a Guareschi – vero protagonista del capitolo). Una risata che deriva dall’assurdità del mondo, non dalla coscienza rielaborativa dello scrittore: un dato in sé che quasi non sembra avere

problema affrontato per Campanile da CATERINA DE CAPRIO in Achille Campanile e l’alea

della scrittura, Liguori, Napoli, 1990.

269 Ricchissima per questo aspetto la bibliografia, di cui citeremo in chiave esplicativa solo

la radice di tutti gli approfondimenti, GIANFRANCO CONTINI, Quarant'anni d'amicizia.

Scritti su Gadda 1934-88, Torino, Einaudi, 1989.

270 Cfr. ALDO PECORARO, Gadda, Laterza, Roma-Bari, 1998.

271 Cfr. EZIO RAIMONDI, Barocco moderno. Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, Bruno

119 bisogno di argomentazione narrativa. Se bisogna ammettere che di pirandelliano Gadda ha ben poco, una cosa però accomuna i due autori: il loro rapporto con la realtà. In entrambi, infatti, essa diventa una matassa inestricabile: nel siciliano per cause sociali e relazionali, nel milanese per la natura stessa del mondo, quasi con una declinazione ontologica. Ma se il siciliano ipotizza un’utopica via d’uscita nell’annichilirsi nel flusso della Vita, il milanese non mostra alcuna possibilità di fuga, anzi, le confuta appena sembrano balenare nella narrazione.