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Le opere più interessanti collegabili all’esperienza di un umorismo sperimentale – con dei netti legami con il Gruppo 63 – sono quelle firmate da Luigi Malerba. Lo scrittore emiliano nato nel 1927 prenderà spunto dalle riunioni della neoavanguardia per esplorare con originalità il genere della risata. Malerba aveva esordito con dei racconti di argomento paesano, La scoperta dell’alfabeto (1963), dal piglio originale e da una sensibile attenzione al parlato popolare. Con Il serpente (1966), Salto mortale (1968) e Il protagonista (1973) trasformerà il suo modo di narrare imbastendo delle narrazioni basate sulla contraddizione e sulla frammentazione dell’identità, centrate su un io narrante dai tratti fortemente patologici.

Ne Il serpente il narratore, un venditore di francobolli, inizia una lunga confessione che in breve si dimostrerà piena di menzogne. Molti dettagli verranno spesso rimessi in discussione: racconta della moglie e della sua vita coniugale per poi ammettere che era solo una fantasticheria, descrive la sua amante Miriam e la sua morte per poi mettere in dubbio non solo la morte, ma anche l’esistenza stessa della ragazza. La narrazione è inoltre caratterizzata da brani argomentativi stravaganti rispetto alla storia, che mantengono un legame piuttosto labile con le vicende – già labili di loro. Il gioco di specchi del narratore è scritto in maniera accattivante – anche se originale – e intrappola proprio per questa caratteristica: è come un gioco di inganni che l’autore ordisce ai danni del lettore. Le contraddizioni possono innervosire, perché sembra che non si abbia un terreno solido dove edificare la logica narrativa, ma capito il meccanismo, ci si lascia trasportare dall’affabulazione della voce narrante, a cui, in definitiva, non si dà più alcun credito e lo si ascolta come un fanfarone da bar.

Il dialogo instaurato dal narratore di Il serpente sia con il lettore che con l’ispettore, è simile ma più interiorizzato in Salto mortale: “Giuseppe

186 detto Giuseppe” ha una voce interna che interviene e smentisce continuamente la voce narrante. Il canto e controcanto in cui procede la narrazione è divertente proprio perché mette in luce immediatamente le contraddizioni e le bugie della voce narrante. Anche qui è presente il meccanismo della detection: la voce narrante per caso trova un cadavere e decide di portare avanti in maniera autonoma l’indagine, in questo caso quindi la morte pare reale. A strutturare ancora di più l’esperimento malerbiano Giuseppe incontrerà altri personaggi maschili tutti di nome Giuseppe, come in una sovrapposizione della sua identità, una riflessione continua della sua persona, una moltiplicazione del doppio. Anche qui è presente una figura femminile che muove le azioni o la loro narrazione, ma il suo nome non sarà mai identico: partendo da una particella base Ros- i nomi cambieranno nel giro di poche righe passando da Rosanna, Rosalma, Rosangela e così via.

Ultimo capitolo di questa stimolante trilogia è Il protagonista. Qui la sperimentazione si fa ancora più ardita e dissacrante: la voce narrante è quella di un pene che dialoga in maniera costante con il cervello, detto il Capoccia. Anche in questo romanzo vengono riutilizzati i meccanismi dell’indagine e della donna anelata, ma la prospettiva è quella fisica e illogica di un organo genitale, che inaspettatamente ha anche una certa educazione. La lingua è bassa, ma raramente volgare. La vicenda parte dalla nascita del rapporto tra il Capoccia e Elisabella, entrambi radioamatori. Il rapporto però è spezzato tragicamente dal suicidio della donna: il membro deciderà quindi di ricercare le ragioni di questo atto attraverso un percorso di narrazione e analisi dei fatti. Per giungere poi a delle conclusioni assurde e influenzate dall’essenza corporale della voce narrante.

L’umorismo delle tre opere è un umorismo raffinato e soprattutto non di immediata resa. Ne Il serpente la scoperta della parzialità della narrazione potrebbe irritare e far sentire il lettore alla mercé di un truffatore narrativo, di una presa in giro. Capito il meccanismo, si gode della fantasticheria e del sistema di incongruenze esplicite e non. Si dubita di tutto e tutto diventa una costruzione senza rischi, come uno spettacolo clownesco. Nel secondo romanzo il carico della risata è tutto bilanciato sulla rifrazione dell’identità e sul controcanto della voce interiore di Giuseppe detto Giuseppe (già così

187 doppio di sé stesso): una contraddizione coltivata che diventa, anche qui, un metodo per comprendere una coscienza e le sue più intime fratture. Il protagonista ha il suo umorismo nell’identità della voce narrante: un pene parlante, con le sue sparate e i suoi ragionamenti, che dice la sua sul mondo e in contrasto con la logica della sua testa. La risata non è quasi mai piena e leggera in nessuna delle tre opere, ma è mediata da un ragionamento che prende in considerazione la prospettiva narrativa. Anche la lingua concorre nel suscitare la risata perché bassa ma non volgare, quasi media, evitando quel bellettrismo che la neoavanguardia accusava di passatismo. La lingua è espressiva, ma è anche innervata di ripetizioni, ossessioni che ritornano, accostamenti sorprendenti che rendono bene le psicopatie delle voci narranti:

Prima ancora [...] che dal sorgere dei contenuti, spesso bizzarri o stravaganti, il lettore è coinvolto nella battaglia tra le parole, pronte a disattendere i riti della tradizione proprio perché esorcizzate del loro presunto e magico potere371.

Il riso è stimolato anche da questo slittamento linguistico imbastito per favorire l’espressione di una coscienza. Non c’è un eccesso di progettazione o di elucubrazione come ad esempio vedremo in Celati: Malerba ha come primo obiettivo quello di comunicare il limite della narrazione, destando però una risata.

Dal punto di vista della struttura «alla direzione lineare delle trame e strutture tradizionali viene sostituita una struttura pluridirezionale o addirittura circolare»372 e l’uso degli ingranaggi conosciutissimi del romanzo d’indagine e del rapporto amoroso vengono, grazie a questi processi, scomposti. L’esempio potrebbe essere ritrovato senza troppi sforzi in Gadda, ma se nel Gran lombardo era il mondo che spezzava la coscienza facendola perdere nel barocchismo del mondo, Malerba capovolge il paradigma: è la coscienza che sconvolge la realtà, tanto che chi legge non sa più dove stia il limite tra pensato e reale. È l’esplicitazione di quello che normalmente succede nella letteratura, ma il palesarlo in maniera così esposta mina il processo narrativo stesso. Il patto con il lettore salta e

371 PAOLO MAURI, Malerba, La Nuova Italia, Firenze, 1977, p. 43. 372 Ivi, p. 25.

188 l’incredulità non può mai sospendersi. D’altronde l’uso dell’indagine e della relazione amorosa è ridicolizzato dallo sguardo patologico della voce che racconta: le donne hanno caratteristiche intercambiabili, e il rapporto amoroso si basa più su una proiezione interiore del personaggio che su delle caratteristiche obiettive; anche l’indagine perde di mordente per l’irrealtà e per la marginalità della prospettiva usata, è una narrazione circolare che non vuole arrivare a nulla (ecco le ragioni intime dei primi due titoli)373. Ricerca e amore perdono di senso anche in rapporto con la società di quegli anni.

Il rapporto tra realtà e coscienza va a favore della seconda, è la menzogna che costruisce il mondo, la narrazione si fa referente unico. La realtà sembra non esistere se non nella coscienza, in una deriva che ha del nichilista: non esistono fatti ma solo narrazioni (espressione che sembra ricordare il fervore di questi anni verso lo storytelling). Questo meccanismo apre una lotta contro i limiti naturali per attingere ai registri della favola374: la realtà delle cose sembra rifuggita come se non si potessero vivere le esperienze normali, il rifugiarsi nella fantasia però è come una rivalsa. Ci si confronta con un «tentativo di recuperare, al di là dei simboli impiegati, quei dati di libertà e di fantasia, di autogestione cosciente della propria persona, costantemente negati qui e adesso, nella quotidiana impossibilità di vivere in un modo diverso»375. Le coscienze che narrano guardano al mondo con un misto di distacco e desiderio. La voce de Il serpente, ad esempio, riproduce nelle sue fantasie lo stereotipo di ciò che era reputato desiderabile in quel periodo (una famiglia e un’amante) che però per lui sono irraggiungibili376. Si riproduce il meccanismo incontrato nel Campanile del Cornabò: la voce di una coscienza patologica (qui in maniera più manifesta) che si confronta con una vita che non capisce e non riesce a vivere. Ora però la realtà non è quella di un regime dittatoriale, ma quella del boom economico che pretende che tutti si conformino al nuovo regime di benessere e di mercato. Questa prospettiva è confermata anche dalla onomastica non identificativa dei protagonisti: nel primo romanzo il narratore è anonimo, nel secondo il nome è identico a quello di tutti gli altri

373 Ivi, pp. 21-24. 374 Ivi, p. 32. 375 Ivi, p. 33.

189 personaggi, mentre nel romanzo del ’73 l’identità è quella parziale di un organo del corpo. Queste assenze sono il correlativo di una realtà che Malerba sentiva seriale e senza identità377, in cui gli uomini e le donne sono esseri indistinti e dove le relazioni sono solo una proiezione di individualità psicotiche. Anche i luoghi sono sempre più sfuggenti, esemplare da questo punto di vista il paese di Salto mortale, Pavona, che è un paesotto di nuova edificazione sotto la spinta della crescita economica: senza alcuna storia e circondato solo dalla campagna brulla e deserta. La critica sociale aleggia sottotraccia nelle pagine della trilogia, ma senza farsi mai oppressiva e moralistica.

Se «non esiste più il “fatto” univoco, ben circoscritto, bensì una gamma di possibilità sventagliate in ogni direzione»378 la dicotomia pirandelliana tra identità e possibilità viene meno. Tutto è possibilità e l’identità è sempre reversibile. Questo meccanismo interiore è quello della società liquida teorizzata da Baumann nel 2000, ma qui trasportato in una coscienza unica e non generalizzata. La menzogna interiore, la autocostruzione del sé a prescindere dalla realtà. Malerba percepisce tutto questo in maniera istintiva nella sua trilogia. La società consumistica è agli albori, ma si capisce che la pubblicità è una narrazione che non si vuole limitare al prodotto, ma all’esistenza del singolo: quello che si propaganda è un modello di vita che crea frustrazione. Ciò che si scontra, soprattutto ne Il serpente, sono due narrazioni: la propria esistenza reale e misera e la vita desiderata che acquista un senso ulteriore per un fatto traumatico preso di peso dalle pagine di cronaca. Il conflitto e la frammentazione è tutta interiore: lo scontro ideologico è, come nel Diario di Gino Cornabò, una questione di colpa e narrazione del singolo. Un individuo lasciato solo e isolato che non riesce ad inserirsi nella società per la struttura di questa e per le inadeguatezze intime del singolo.

La coscienza psicotica sarà modello per altri scrittori, come Celati, ma in Malerba questa si fonde con la menzogna. Mentire serve per costruire la contraddizione e quindi la risata. Eppure quando la coscienza svela la

377 Malerba fu un cultore della civiltà contadina, con un regesto di espressioni dialettali nel

libro Le parole abbandonate, Bompiani, Milano, 1977. L’autore vi elabora il lutto per la perdita di una società comunitaria a favore di una individualistica e impersonale.

190 solitudine del proprio spirito chiuso in un corpo lontano da un vero contatto con gli altri c’è una «fusione perfetta tra epica comica e tragedia, ed è in questo senso che la proposta malerbiana tocca punte altamente originali»379. L’umorismo malerbiano ha un suo retrogusto amaro nella percezione degli stretti limiti in cui si dibattono alcune delle voci narranti, la solitudine del marginale che cerca di essere libero e si ritrova solo.

La dialettica tra corpo e intelletto si accosta a quella tra amore e morte. Sia Miriam de Il serpente sia Elisabella de Il protagonista muoiono e spesso il desiderio si lega ad una eccitazione sessuale delle voci narranti fino ad arrivare, nel romanzo del ’73, ad una rivelazione chiara di questo elemento: «Io che sono il principio vitale della generazione mi scateno di fronte alla morte che è la mia negazione»380. Un anelito quasi da manuale freudiano che si collega a quello di annichilire uno dei poli dell’altra dicotomia, mente-corpo. La mente dà una possibilità di fuga mendace, mentre il corpo vuole vivere la realtà e sente l’interiorità tellurica degli istinti. Il mondo malerbiano è certamente dualistico: sia nella dissociazione tra mente e corpo sia in quella di una coscienza costituita da più voci. Una coscienza frammentata che deve affrontare una società monolitica e omologante: un contrasto che negava nei suoi fondamenti le speranze dei movimenti culturali degli anni Sessanta e Settanta: la fantasia al potere in una società consumistica si risolve solo in una radicale solitudine e in rapporti improntati ad un estremismo narcisistico in cui la coscienza può costruire il mondo senza mai incontrare davvero l’altro.