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Nel suo volume, straordinario per mole e acume, Georges Minois230 propone una storia socio-culturale del riso. Non parla quindi della sua essenza psichica o delle sue funzioni interpersonali – che ammette essere abbastanza costanti nel tempo e nelle diverse comunità – ma dell’uso che la cultura occidentale ha fatto dell’umorismo e come lo ha interpretato. I riferimenti ad altre società non mancano, ma l’attenzione è tutta sull’Europa e sulle popolazioni a lei collegate per cultura.

Nell’antichità il riso è un’espressione del divino, un modo in cui entrare in comunione con il trascendente. Non esiste una condanna sociale, solo uno stigma per determinati ambiti e settori. I campi del serio sono codificati e alcuni possono essere anche derisi, ma senza subire influenze in modo significativo. Nel medioevo, la relazione si inverte: il riso è una espressione demoniaca. La creazione perfetta, l’Eden, è decaduta per colpa del peccato originale, la coerenza monolitica si è spezzata in favore di una molteplicità e varietà che è frutto del peccato e scaturigine del riso. Il comico, condannato e rigettato, ha però dei suoi ambiti di pertinenza come il carnevale e altre feste. Momenti in cui la popolazione può motteggiare tutto il carico di contraddizione e ipocrisia delle gerarchie, ed esprimere in maniera simbolica la violenza repressa durante tutto l’anno. Dalla fine del medioevo e fino al Settecento il carnevale lentamente perde la sua caratteristica di evento unitario di tutta la comunità. Diventa un evento popolare e sempre meno vissuto dalle élite che, invece, iniziano a formulare altri registri e occasioni per la risata. In questo periodo nasce il vero e proprio genere umoristico: Cervantes, Sterne, Swift e altri se ne fanno portavoce. Un riso distaccato che disciplina la reazione corporale e che sposta molta della sua carica di incongruenza sulla fruizione mentale e

98 culturale. «La comicità non è più simbolica, è critica»231, e ciò investe prima la classe dirigente e lentamente anche le feste popolari. Ciò comporta che la capacità di ridere delle istituzioni perde lentamente il suo potere rigenerante, la funzione carnevalesca di ricreazione sociale acquista una sfumatura di frustrazione in più. Il carnevale d’altronde era un residuo di concezione ciclica del tempo nel pieno dell’instaurazione cristiana del suo opposto, ovvero l’idea lineare e finalistica della storia232: si muore per rinascere, si abbassa per rielevare. La barriera di difesa a questo cambio prospettico era l’economia rurale e paesana legata alla stagionalità e ad un calendario di riti comunitari, ma più questa si indebolisce a favore della produzione industriale e cittadina, più l’idea lineare del tempo inizia a intaccare le credenze carnevalesche. Ho sempre più la convinzione che la fine simbolica del carnevale si possa trovare nella sua ipostasi politica: la Rivoluzione Francese. Un evento storico che ha nella piazza il suo motore e fulcro, che crea una unione interclassista e che ha nella inversione dei ruoli il suo obiettivo. A corollario di questo c’è anche il sacrificio, per nulla simbolico, del re o di un capro espiatorio ad esso collegabile. È un po’ come se il carnevale, che aveva avuto funzione di valvola di sfogo per le tensioni e le sperequazioni sociali, divenisse un modo per combatterle: dal simbolico al critico, fino ad arrivare all’azione diretta.

Se i mutamenti culturali sono spesso recepiti e interiorizzati prima dagli intellettuali che dall’interezza della popolazione, anche in questo campo non c’è differenza. Così capitò, infatti, anche nella fase successiva del riso: mentre i moti popolari impazzavano nelle piazze europee, gli artisti e i filosofi abbozzavano già la struttura di pensiero che sarebbe stato il picco e la conclusione di questa fase del comico: il riso del vuoto. Se il riso nell’antichità serviva a sentirsi vicini al divino, e nel medioevo a sfogare e rigenerare l’animo sociale, nella modernità – come detto in precedenza – aveva una forte funzione di critica dell’esistente, di esaltazione dell’individuo e della sua razionalità: tre aspetti propedeutici al nichilismo. Fin dal Settecento, con un sensibile incremento all’inizio del Novecento, si

231 GILLES LIPOVETSKY, La società umoristica, in L’era del vuoto. Saggi

sull’individualismo contemporaneo, Luni editrice, Milano, 2014, p. 153.

99 diffuse tra gli artisti e i filosofi una concezione cinica e materialista del mondo e dei valori, fino a giungere al suo parossismo: questo spostamento ideale si espresse anche attraverso l’umorismo. Gruppi di avanguardia usavano il genere in tutte le sue forme, dal nonsense del Dada a quello nero del surrealismo, fino ad arrivare all’autore che segna l’inizio della nostra trattazione: Pirandello.

In questa parte di storia letteraria, e più in generale culturale, l’idea che i valori non abbiano una radice salda, ma che tutti siano in qualche modo radicati su una finzione, porta a relativizzare i valori tradizionali: bellezza, etica, coscienza e anche la realtà si velano di inconsistenza. Il cubismo, Duchamp e altri artisti minano l’idea di estetica formale fino ad allora propugnata in maniera ampia. L’anelito alla distruzione per edificare il nuovo, un niccianesimo anche edonistico diffuso quasi come una moda crearono delle crepe nella morale comune. Tensioni che in Pirandello si coagularono e divennero un dubbio radicale sulla consistenza della coscienza e della realtà vissuta. Bisogna sottolineare che questo vezzo o convinzione filosofica è diffuso nella classe intellettuale, e in special modo in quella d’avanguardia; il popolo, lontano da un simile sentimento, è immerso in nazionalismi, bon ton e fedi politiche contrastanti.