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Il processo di “burocratizzazione” che con la centralizzazione dello Stato investì strutture, procedure e pratiche amministrative non risparmiò certamente la scrittura. Anche i docu- menti prodotti dovevano essere meticolosamente sottoposti a processi di razionalizzazione organizzativa – in termini weberiani “a un agire sociale ordinato razionalmente”41 – che li rendessero legittimi, ufficiali, univoci, uniformi, sistematici, precisi e in quanto tali mag- giormente efficaci ed efficienti nel perseguire gli scopi organizzativi. Dalla loro standardiz- zazione doveva emergere la superiorità funzionale della moderna organizzazione del lavoro e l’inflessibile deontologia lavorativa richiesta all’impiegato pubblico, “uomo senza quali- tà”, “cultore della regola” al di sopra di ogni iniziativa, decisione o comportamento indivi- duale che potesse risultare discrezionale e deviante rispetto “allo spirito dell’ordine” e al- l’assoluto ossequio a norme, regolamenti, procedure e gerarchie rigidamente prestabilite.

All’interno di una struttura burocratica che, in nome dell’esercizio del potere legale-ra- zionale e di un’organizzazione scientifica del lavoro42, detta regole, metodi e tempi di lavo- ro a cui attenersi scrupolosamente in funzione del raggiungimento degli scopi organizzativi, non pare trovare spazio l’affermazione di sensi di responsabilità etica e sociale personali differenti dalla mera “fedeltà all’ufficio” e conformità al ruolo giurisdizionale e tecnico as- segnato. Il tipo puro di burocrate “meccanico” sembra non agire direttamente come attore protagonista dell’azione amministrativa ma trincerarsi, in virtù di una sorta di “antropomor- fizzazione dell’ufficio”43, dietro l’impersonale “dovere d’ufficio”: analogamente agli “in-

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M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tubingen, 1922. Trad. it.: Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, vol. II, p. 300.

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Negli stessi anni in cui Max Weber elabora il modello ideal-tipico della burocrazia si diffonde la teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro ispirata ai The Principles of Scientific Management di Frede- rich Taylor (1911).

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Si tratta di un meccanismo di “de-responsabilizzazione” molto presente nella scrittura burocratica per cui si preferisce indicare come soggetto delle comunicazioni l’ufficio, un’entità collettiva che pertanto ac- quisisce tratti animati, piuttosto che l’autore reale. Si pensi a formule tipiche quali: “l’ufficio procederà ai controlli previsti dalla legge”, “tanto di doveva per dovere d’ufficio”, “la scrivente amministrazione comunica alla S.V.”. Cfr. T. Raso, La scrittura burocratica. La lingua e l’organizzazione del testo, Carocci, Roma, 2005,

granaggi di una macchina”, egli è chiamato ad assolvere a mansioni standardizzate rimanen- do anonimo e passivamente subordinato alle logiche formali organizzative e produttive44.

La pratica scrittoria burocratica, analogamente alla totalità delle pratiche d’ufficio, è dun- que soggetta alle logiche proprie dell’agire di tipo burocratico descritto da Max Weber co- me improntato al principio della razionalità formale, fondato sul «legame impersonale a un “dovere d’ufficio” oggettivo» e regolato da norme «statuite razionalmente». Riportiamo per intero uno dei passaggi più efficaci della descrizione weberiana del potere burocratico e del- le caratteristiche precipue di tale struttura di potere ed essenziali alla sua legittimità.

Con la vittoria del razionalismo giuridico di stampo f o r m a l i s t i c o sorse in Oc- cidente, accanto ai tipi di potere tramandato, il tipo l e g a l e di potere di cui il po- tere b u r o c r a t i c o era, ed è, la variante più pura, anche se non l’unica. La condi- zione dei moderni funzionari statali e comunali, dei sacerdoti e dei cappellani catto- lici moderni, dei funzionari e degli impiegati della banche e delle grandi imprese capi- talistiche moderne rappresenta […] il tipo più importante di questa struttura di potere. La sua caratteristica decisiva, per la nostra terminologia, è quella che abbiamo ricor- dato: l’assoggettamento non avviene in virtù della fede e della dedizione nei confronti di p e r s o n e dotate di grazia carismatica (come i profeti e gli eroi), e neppure in vir- tù di una tradizione sacra e della pietas verso un signore p e r s o n a l e stabilito dal- l’ordinamento tradizionale, ed eventualmente verso i detentori dei feudi e dei benefici di ufficio, legittimati nel p r o p r i o diritto dal privilegio e dalla concessione; esso è fondato sul legame i m p e r s o n a l e a un “dovere di ufficio” o g g e t t i v o (così come viene generalmente designato), il quale è determinato – al pari del diritto di po- tere ad esso corrispondente, ossia della ‘competenza’ – da norme (leggi, ordinamenti, regolamenti) s t a t u i t e r a z i o n a l m e n t e in modo tale che la legittimità del po-

p. 40. Da un punto di vista sociologico tale meccanismo è stato analizzato da Robert Merton nei termini di tendenza alla “spersonalizzazione dei rapporti” all’interno di una struttura burocratica. L’impersonalità, dettata dalle regole, entra inevitabilmente in conflitto con la richiesta di personalizzazione del rapporto e di attenzione al caso singolo e concreto da parte dell’utente-cliente-cittadino. Quest’ultimo si trova spesso di fronte a funzionari impegnati nel rappresentare l’autorità e il potere della struttura di riferimento, piuttosto che a porsi realmente a suo servizio. Nella riaffermazione dei rapporti formali secondari sui rapporti infor- mali personali è da leggersi, secondo il sociologo, «la funzione latente di mantenere gli elementi strutturali essenziali della burocrazia». Cfr. R.K. Merton, Social Theory and Social Structure The Free Press, New York, 1968 (ed. or. 1949). Trad. it.: Teoria e struttura sociale. Studi sulla struttura sociale e culturale, vol. II, il Mulino, Bologna, 2000, p. 415-419.

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Max Weber, nonostante fosse convinto della superiorità tecnico-formale dell’amministrazione burocratica e professionale e della sua ineluttabile e incontrastabile estensione pervasiva a ogni sfera della vita sociale – al- l’interno del processo generale di razionalizzazione delle visioni del mondo e dei sistemi d’azione sociale in at- to nella moderna civiltà occidentale –, mostrava di essere contemporaneamente preoccupato per i processi di “disumanizzazione” e “spersonalizzazione” insiti nelle dinamiche di razionalizzazione organizzativa. Questi meccanismi, agendo contro la creatività e l’autonomia dei burocrati, ponendo forti limiti alla loro soggettività, avrebbero danneggiato anche i destinatari dell’’azione amministrativa in quanto impersonale e dunque inevita- bilmente inadeguata al caso individuale e concreto. Scrive Weber a tal proposito, «una macchina inanimata è spirito rappreso. Soltanto questa sua natura le conferisce la potenza di costringere gli uomini al suo servizio e di determinare la loro esistenza quotidiana di lavoro in modo così dispotico […]». Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 714.

tere diventa la legalità della regola concepita in modo generale e conforme allo scopo, statuita e promulgata in modo formalmente corretto45.

L’atto amministrativo discendente dalla routine amministrativa e da un siffatto modus ope-

randi si configura pertanto come «il prodotto finale di una serie coordinata di “automatismi

burocratici”, tanto meglio concatenati tra loro quanto più il dipendente avesse aderito alla funzione assegnatagli, vi avesse annullato senza residui la propria personalità, avesse rinun- ziato a portare nell’esercizio della sua attività d’ufficio elementi di disturbo come individua- lismi, specificità culturali, interpretazioni personali»46.

Da qui l’immagine dell’apparato amministrativo come una “macchina razionale” basata sulla standardizzazione delle procedure e la netta divisione dei compiti tra uffici e come un “esercito di burocrati” ligio alla disciplina e alla gerarchia, subordinato al potere politico, dedito a mansioni esecutive e a rituali interni atti a rafforzare il senso di appartenenza all’or- ganizzazione e il prestigio corporativo.

Il tipo ideale weberiano di organizzazione burocratica47 non poteva che riflettersi anche nei processi di produzione scritta: «Protocollare, copiare, archiviare, redigere minute, ag- giornare registri, vistare, spedire atti, verificare, controllare, elencare, riscontrare, relaziona- re – annota in modo icastico Guido Melis – sono i verbi della prima burocrazia postunitaria […], i passaggi obbligati di una giornata burocratica divisa secondo le inderogabili cadenze previste nei regolamenti, distribuita in spazi fisici preordinati: l’ufficio con la disposizione canonica delle scrivanie, i ministeriali corridoi dei passi perduti, gli archivi polverosi dove sin da allora si accatastava la memoria dell’amministrazione»48.

La standardizzazione delle attività lavorative e la loro distribuzione spaziale all’interno degli uffici trovavano immediato riscontro anche nella formalizzazione dei documenti (si pensi in particolare alla nascita della modulistica) e nella regolarità e ritualità di certe prati- che comunicative e linguistiche, per così dire “pronte all’uso”, che garantivano “allo scri-

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M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-05) in Gesammelte Aufsätze

zur Religionssoziologie, Mohr, Tübingen, 1920-21. Trad. it. di G. Giordano: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo in Sociologia della religione, Comunità, Milano, 1982, Ivol., pp. 258-259.

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Melis, Storia dell’amministrazione italiana, cit., p. 31. 47

Ci limitiamo a ricordare brevemente i tratti caratteristici del noto modello idealtipico weberiano di buro- crazia: l’osservanza della regola, la netta divisione delle attività, dei compiti e delle funzioni tra uffici e status gerarchici, la specializzazione del lavoro in base al principio della competenza e della responsabilità di ufficio, il rispetto dell’ordine gerarchico-piramidale, la sistematicità e l’impersonalità delle procedure e dei controlli formalizzati e definiti in astratto, il sistema di reclutamento per qualifiche e competenze oggettivamente ac- certate, la separazione del personale dai mezzi di produzione, la riservatezza e il segreto d’ufficio. Cfr. M. Weber, Economia e società, cit., in particolare vol. II, p. 271-313.

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G. Melis, La burocrazia. Da monsù Travet alle riforme Bassanini: vizi e virtù della burocrazia italia-

vente” di conferire autorevolezza alla comunicazione e di raggiungere la massima imperso- nalità e imparzialità possibile senza incorrere nel rischio di commettere alcun errore discre- zionale e di operare scelte arbitrarie non previste all’interno dello schema normativo dell’or- ganizzazione.

Inoltre, dal protocollo all’archivio, tutti i passaggi della catena burocratica a cui era sotto- posta la pratica mentre transitava da un ufficio all’altro, venivano in qualche modo registrati all’interno del documento; il quale, in conformità alla legge, nonché alla tradizione, doveva riprodurre fedelmente l’intera sequenza degli adempimenti burocratici: intestazioni, proto- colli, riscontri, verifiche, rimandi intertestuali, pareri, deliberazioni, disposizioni, motiva- zioni, firme, contrassegni, timbri e via di seguito.

Il tempo dedicato alla scrittura era talmente predominante rispetto a tutte le altre attività d’ufficio che già nella satira ottocentesca il funzionario pubblico veniva dileggiato come “passacarte o “graffiacarte” per il carattere eccessivamente meccanico, pedante e ripetitivo, a tratti ossessivo, del proprio lavoro. «Amministrare si risolveva […] in molti casi, in un’at- tività di passaggio di carte tra uffici: in un susseguirsi di verifiche formali, di visti, autoriz- zazioni, iscrizioni a protocollo, registrazioni, verbalizzazioni, firme, timbri»49. Sebbene fos- sero ancora limitate le funzioni dell’amministrazione statale appena costituita, esse compor- tavano comunque «un surplus di scritturazione», dettato in particolare dalla prevalenza delle attività interne e formali di verifica e di controllo sulle altre attività amministrative. Secondo il processo analizzato da Max Weber e noto negli studi sociologici e organizzativi come “inversione del rapporto mezzi-fini”, la scrittura da mezzo sembrava imporsi come fine stesso dell’organizzazione: e così «nel reticolo inestricabile degli adempimenti documenta- ri, il risultato concreto dell’attività amministrativa rischiava di perdersi sullo sfondo di una nebulosa cartacea»50.

La scrittura, adeguandosi al complesso delle formalità e dei rituali interni, ricalcava, ri- producendo espressamente i passaggi interni, anche l’ordine piramidale dei diversi uffici. E, mediante una scrittura “ritualistica” e standardizzata – così come per mezzo di altri espe- dienti procedurali –, coloro che occupavano una posizione subordinata potevano inoltre tu- telarsi dall’eventuale azione disciplinare dei superiori, essendo il loro comportamento per- fettamente aderente alle regole: preciso, rapido, univoco, imparziale, continuativo, discreto

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Melis, Storia dell’amministrazione italiana, cit., p. 72. Il processo di inversione mezzi-fini è il feno- meno rintracciato da Max Weber alla base del capitalismo moderno che, influenzato dall’etica calvinista e dalla teoria della predestinazione, considera il guadagno come «scopo della vita dell’uomo» e non «mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali». Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., vol. I, p. 127.

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e riservato, nonché specializzato e interdipendente in un’organizzazione dell’azione ammi- nistrativa coesa ed integrata51.

La produzione testuale interna al sistema amministrativo aumentò considerevolmente a cavallo dei due secoli, congiuntamente all’incremento dei compiti dello Stato in materia di economia, finanza, istruzione, opere pubbliche, trasporti, ecc. e alla nascita dei primi stru- menti informativi statali quali i registri, i servizi statistici, i censimenti, le inchieste e le ispe- zioni. Nello stesso tempo si andava a intessere una fitta rete informativa di collegamento tra l’amministrazione centrale e le amministrazioni periferiche: per lo scambio delle conoscen- ze, per l’esercizio delle attività di indirizzo e di controllo e, in generale, per il coordinamen- to di un’azione amministrativa che si faceva sempre più complessa.

Ciononostante, i contatti comunicativi risultavano ancora lenti e discontinui, veicolati come erano in gran parte dal mezzo scritto: la diffusione della dattilografia, del telegrafo e del telefono avevano certamente ridotto i tempi della comunicazione intra ed inter-organiz- zativa, ma la complessità degli adempimenti burocratici da una parte e lo stile operativo tra- dizionale ormai interiorizzato e consolidato tra i dipendenti pubblici dall’altra52 obbligavano ad affidarsi alle più “prudenti” e “rassicuranti” procedure standardizzate. E così, la persi- stenza nel tempo di certe abitudini e comportamenti ormai radicati nell’ambiente lavorativo diventava il principale fattore di resistenza a ogni forma di cambiamento.

Il problema dell’eccessiva lentezza e della scarsa modernizzazione della macchina am- ministrativa emerse con particolare vigore nel primo dopoguerra: quando, in vista di una ra- dicale riforma amministrativa – resa impellente innanzitutto dalla crescita delle dimensioni dell’apparato burocratico in conseguenza della guerra mondiale e invocata in particolare dalla nuova generazione dei cosiddetti “tecnici dell’amministrazione” –, si tentò di applica- re le teorie tayloristiche dell’organizzazione scientifica del lavoro (scientific management) anche alla pubblica amministrazione. Sull’esempio della grande azienda capitalistica, si ri-

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Per un’analisi sociologica più approfondita del comportamento burocratico si rimanda a F.P. Cerase,

Pubblica amministrazione. Un’analisi sociologica, Carocci, Roma, 1998, p. 84.

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Il fenomeno, oggi più genericamente e comunemente noto nei termini di «deformazione professionale» (che risalgono al sociologo belga Daniel Warnotte), negli studi sociologici sull’organizzazione viene indicato con l’espressione «incapacità addestrata» coniata dal sociologo statunitense Thorstein Veblen e ripresa anni dopo da Robert Merton per indicare appunto l’incapacità, il disadattamento, l’inibizione prodotta nelle menti dalle abitudini acquisite, dall’addestramento e dalla preparazione professionale. «“L’incapacità addestrata” si riferisce a quella condizione in cui le capacità professionali di una persona agiscono quali ostacoli o difficoltà. Le azioni basate sull’addestramento e l’abilità tecnica, che in passato avevano dato un risultato positivo, posso- no risultare in risposte inappropriate sotto mutate condizioni. La mancanza di sufficiente duttilità nell’applica- zione delle proprie tecniche sarà causa, in un ambiente mutato, di una incapacità di adattamento più o meno grave». Il concetto è avvicinato da Merton a quello di «psicosi da occupazione» di John Dewey, con il quale l’autore intende «il pronunciamento di un carattere mentale», lo sviluppo di «speciali preferenze, antipatie, di- scriminazioni e manie» per effetto di «routines quotidiane» richieste dal ruolo organizzativo all’individuo. Cfr. Merton, Teoria e struttura sociale, vol. II, cit., pp. 406-407.

cercavano già allora tecniche di ottimizzazione del lavoro e strumenti di semplificazione atti a snellire la complessità del sistema dei controlli interni e, in generale, programmi di razio- nalizzazione del lavoro alternativi e ispirati a criteri che in tempi più moderni, in riferimento al rapporto tra mezzi e fini organizzativi e tra costi e benefici, verranno definiti di “effica- cia”, “efficienza” ed “economicità”.

Nella separatezza dell’amministrazione dalla realtà, nel ripiegamento sull’ortodossia e sull’ortoprassi e nella dilagante deresponsabilizzazione dei funzionari pubblici si iniziavano infatti ad intravedere i principali ostacoli alla produttività degli uffici. In virtù di tali tensioni riformatrici si sperimentarono alcuni interventi di “taylorismo amministrativo” – in partico- lare l’introduzione dell’orario di lavoro continuato e di un sistema retributivo basato sul ren- dimento individuale – che rimasero tuttavia occasionali e limitati ad alcuni settori della pub- blica amministrazione.

Anche la legislazione linguistica – nei primi decenni del Novecento limitata a regolamen- tare l’uso della lingua ufficiale nel sistema dell’istruzione (si veda la riforma Gentile del 1923) – non ebbe particolari ripercussioni sulla lingua della burocrazia. Bisognerà attendere le politiche di italianizzazione fasciste, ispirate all’esterofobia e al purismo più intransigen- te, per registrare nella scrittura amministrativa alcuni mutamenti: sebbene anch’essi tiepidi e provvisori ed essenzialmente circoscritti al lessico.

Ricorderemo brevemente che negli anni Trenta e Quaranta il regime attuò, in nome della “purezza dell’idioma patrio” e di ciò che fu chiamato in seguito “purismo di Stato”53

, vere e proprie operazioni di “bonifica linguistica” che investirono tutti gli ambiti istituzionali. Fu- rono drastici gli interventi contro le minoranze linguistiche, i dialetti e le varietà alloglotte parlate ancora entro i confini nazionali (Alto Adige e Venezia Giulia), contro i prestiti dalle altre lingue e la toponomastica straniera – in particolare tedesca e slava. L’omogeneizzazio- ne del repertorio linguistico della popolazione italiana avrebbe consentito al regime non so- lo di reprimere manifestazioni di forze centrifughe localistiche in funzione di una maggiore coesione socio-culturale del Paese ma nel contempo di porre le basi per ottenere un sempre più largo consenso popolare.

In quanto potente strumento di integrazione simbolica all’interno della comunità, una lin- gua unitaria rigorosamente disciplinata da grammatiche e vocabolari e “sorvegliata” oltre che per mezzo dell’istruzione mediante un rigido sistema di controllo dei mezzi di comuni-

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Si veda, tra i tanti: S. Raffaelli, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pub-

cazione di massa (a quel tempo radio, cinema, stampa)54, avrebbe rafforzato, secondo le po- litiche linguistiche e culturali fasciste, l’identificazione del popolo delle varie aree geografi- che e di ogni classe sociale con la Nazione e assicurato la lealtà necessaria al potere politico.

Com’è noto, il fascismo si serviva del “potere delle parole” e delle “parole del potere” più efficaci al fine di controllare e orientare l’opinione pubblica. Per poter intervenire nella for- mazione del consenso sociale occorreva utilizzare termini appartenenti al repertorio lingui- stico comune, da “somministrare” mediante la più semplice e lapidaria costruzione sintatti- ca, ossia quella incentrata sulla coordinazione, sulle pause e sul dinamismo verbale (“Com- battere, soffrire, e se occorre morire”), e accompagnata dall’effetto “inebriante” delle ripeti- zioni (“L’Italia è fascista e il fascismo è l’Italia”, “Nel segno del Littorio noi abbiamo vinto. Nel segno del Littorio vinceremo domani”). Le esigenze propagandistiche non potevano es- sere soddisfatte mediante formule espressive altisonanti ma incomprensibili. La spettacola- rizzazione della politica doveva avvalersi di termini chiave, formule a effetto, slogan enfa- tici, figure retoriche, pause mirate, intonazioni e stili argomentativi capaci di persuadere il pubblico, di catturare il consenso o di riconfermarlo; ma anche di termini comuni e di frasi brevi immediatamente comprensibili. Da una sorta di “cassetta degli attrezzi” linguistici si ricavavano accorgimenti ed espedienti atti a rendere i discorsi massimamente accessibili all’uditorio, a livello emotivo e a livello cognitivo55

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Non mancarono ripercussioni sulla scrittura amministrativa delle politiche fasciste di i- giene linguistica e in particolare della massiccia epurazione dei forestierismi – legittimata quest’ultima dalla volontà di tutelare l’identità e il prestigio della lingua nazionale. Le proi- bizioni riguardarono anche termini ed espressioni ritenuti adattamenti da altre lingue e l’u- so del pronome allocutivo “Lei”, considerato di derivazione spagnola56.

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Nel 1929 era stata fondata la Reale Accademia d’Italia, di cui presidenti furono Guglielmo Marconi e Gabriele D’Annunzio. Essa nel 1941 nominò un’apposita Commissione per l’italianità della lingua incarica- ta di individuare un elenco di forestierismi da sostituire con corrispondenti termini italiani.

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Nell’analisi del linguaggio politico il fenomeno è noto come “paradigma del rispecchiamento”: si punta piuttosto che sulla fascinazione esercitata dalle parole difficili che impressionando l’uditorio lo man- tengono in uno stato di subordinazione culturale e di acquiescenza, sulla crescita del consenso conforman- dosi e ricalcando il linguaggio comune.

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Interventi di purismo linguistico si registrarono in particolar modo nella comunicazione degli enti commerciali. Il decreto n. 352 dell’11 febbraio 1923 imponeva un aumento dell’imposta sulla pubblicità di 4 volte per coloro che avessero utilizzato parole straniere nelle insegne commerciali; e la sanzione crebbe fino a 25 volte con il provvedimento legislativo n. 1769 del 9 settembre 1937. Ancora la legge n. 2042 del 23 di- cembre 1940 proibiva il ricorso a forestierismi nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attività professionali, nelle insegne e nella pubblicità. Altri enti dovettero addirittura sostituire nella loro de- nominazione Touring e Club con i corrispettivi italiani: Touring club italiano divenne Consociazione turisti-

ca italiana (1937), Club alpino italiano venne trasformato in Centro alpinistico italiano (1938) e Reale au- tomobil club d’Italia in Reale automobile circolo d’Italia (1939). Cfr., oltre al testo già citato di Sergio Raf-