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I canoni delle sentenze di assoluzione e di condanna secondo il testo del codice di rito precedente alla legge n 46/

RAGIONEVOLE DUBBIO

4.6. I canoni delle sentenze di assoluzione e di condanna secondo il testo del codice di rito precedente alla legge n 46/

Non è certamente possibile dubitare del fatto che i canoni di assoluzione e colpevolezza fossero già nettamente differenziati nella prospettiva originaria del codice.

Ciò risulta, inequivocabilmente, dalla lettura comparata degli articoli interessati.

In effetti, l’art. 530 c.p.p. -al cui testo originario non è stata apportata nel tempo alcuna modifica- impone al giudice di assolvere l’imputato: quando vi sia la prova ‘positiva’ della sua non colpevolezza (comma 1); quando la prova della sua responsabilità sia ‘negativa’, intendendo come tale non solo la prova mancante tout- court, ma anche quella ‘insufficiente’ o ‘contraddittoria’ (comma 2); infine, ogni qualvolta vi sia la prova dell’esistenza, ovvero il dubbio circa l’esistenza, di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità (comma 3)417.

415 STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, terza edizione, Giuffrè, Milano, 2003, 142 ss.

416 CANZIO, L’ “oltre ogni ragionevole dubbio” come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 305.

417 CONTI, TONINI, Il diritto delle prove penali, seconda edizione, Giuffrè,

189 Invece, l’art. 533, nel testo licenziato dal legislatore delegato nel 1988418 recitava:

«Se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli, il giudice pronuncia sentenza di condanna applicando la pena e l’eventuale misura di sicurezza».

Appare evidente come, già in base al testo originario, l’obbligo del giudice di condannare l’imputato, applicandogli la pena nonché, se del caso, la misura di sicurezza, si ponesse quale immancabile derivato dell’accertamento di colpevolezza, dovendosi attribuire al verbo “risultare” il significato, che gli è proprio, di “derivare come effetto di un fatto, di una causa o di un ragionamento”.

Pertanto, la norma dell’art. 533 c.p.p. “prima maniera” sta a significare che se gli elementi probatori legittimamente acquisiti nel corso del processo dimostrano che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso con coscienza e volontà (o anche solo per colpa, in ipotesi da reato colposo) e non ricorre alcuna causa di giustificazione, allora il giudice deve pronunciare sentenza di condanna, applicando la pena e, ove ne ricorrano i presupposti, anche la misura di sicurezza. Quella che emergeva dall’originario disposto del comma 1 dell’art. 533 c.p.p. rappresentava non tanto una regola, quanto «l’assenza di una regola419»: col dire, infatti, che se risulta la colpevolezza

dell’imputato il giudice ne pronuncia la condanna, non si dettava

418 Con il d.l. 24-11-2000, n. 341, convertito con modificazioni nella legge

19-1-2001, n. 4, è stato aggiunto agli originari commi da 1 a 3 il comma 3-bis, riguardante la possibilità per il giudice, nel pronunciare condanna per uno dei delitti ex art, 407, comma 2, lett. a), c.p.p., di ordinare la separazione dei procedimenti, anche con riferimento al medesimo condannato, allorquando vi sia al pericolo che uno dei condannati, in stato di custodia cautelare e non detenuto per altra causa, possa medio

tempore riacquistare la libertà per scadenza dei relativi termini.

419 CELLETTI, Considerazioni, anche di diritto comparato, sul canone del giudizio di colpevolezza (“al di là di ogni ragionevole dubbio”) dettato dall’art. 533, co. 1, c.p.p.m modificato dalla L. 20-02-2006 n. 46, in Il Foro ambrosiano, 2009 fasc.

190 alcuna regola, ma si ribadiva il fine stesso del processo420. Se ad un “risultato” di colpa, legittimamente acquisito secondo procedura, non facesse seguito la condanna del colpevole, il processo perderebbe la sua fondamentale ragion d’essere, che è quella di rispondere alla domanda contenuta nell’atto di esercizio dell’azione penale.

Tutt’altro discorso è da farsi a proposito della norma dell’art. 530 c.p.p.

In tal caso, la regola è ben presente: è il canone di garanzia in dubio pro reo che fa del dubbio (sulla sussistenza del fatto, sulla sua commissione da parte dell’accusato ecc.) la condizione necessaria e sufficiente per pronunciare sentenza di assoluzione.

Detta regola è strettamente connessa alla presunzione costituzionale di non colpevolezza421 e finisce col fungere da limite al libero convincimento del giudice, giacché costui, ove la prova della penale responsabilità dell’imputato sia insufficiente o contraddittoria, è in ogni caso tenuto a proscioglierlo422, qualunque idea si sia formato al

420 SATTA, Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994, 24, secondo cui «se

uno scopo al processo si vuole assegnare, questo non può essere che il giudizio. Ma il giudizio non è uno scopo esterno al processo, perché il processo non è altro che giudizio e formazione di giudizio: esso dunque se ha uno scopo, lo ha in se stesso, il che è come dire che non ne ha alcuno. Veramente processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo (…)».

421 Art. 27, comma 2 Cost.: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla

condanna definitiva».

422 Da sempre la dottrina ha rilevato che l’art. 530, comma 2 non stabilisce il

principio del ragionevole dubbio. In particolare, il termine “insufficiente” è un concetto di relazione che deve essere riempito di contenuto attraverso un parametro esterno costituito dalla c.d. “sufficienza”. Cfr. STELLA, Giustizia e modernità. La

protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, terza edizione, Giuffrè, Milano,

2003, cit., 141- 142, che considera la norma «una grande occasione perduta dal legislatore del 1988». Allo stesso modo, il fatto che le prove d’accusa siano contraddittorie tra di loro non specifica il grado di contraddittorietà che è idoneo a giustificare il proscioglimento. Inoltre, da un punto di vista meramente espressivo, il canone del ragionevole ubbia può essere formulato in positivo o in negativo. In positivo, è possibile affermare che il giudice proscioglie quando esiste un ragionevole dubbio che l’imputato non sia colpevole del reato ascrittogli. In negativo, ci si può esprimere affermando che il giudice condanna quando l’accusa ha eliminato ogni ragionevole dubbio sulla reità.

191 riguardo; e, per farlo, deve avvalersi giocoforza di una delle formule terminative apprestate dalla legge, senza l’escamotage rappresentato dall’ambigua assoluzione per insufficienza di prove. Allo stesso modo, il comma 3 prevede che il giudice debba prosciogliere se vi è la prova di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità o se «vi è il dubbio sull’esistenza di esse».

Possiamo affermare, quindi, che la norma dell’art. 533, comma 1, c.p.p., pur nel testo ante legem n. 46/2006, non poteva essere compresa se non alla luce della regola di giudizio contenuta nel capoverso del precedente art. 530: se, infatti, il dubbio imponeva al giudice il proscioglimento, soltanto l’assenza di dubbio rappresentava l’inevitabile presupposto della condanna.

Pertanto, l’imputato avrà soddisfatto l’onere della prova e sarà prosciolto se avrà fatto sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sull’esistenza della scriminante423.

La norma sulla condanna (art. 533 c.p.p.), nel testo antecedente alla ‘Legge Pecorella’, taceva sulla tipologia di dubbio che avrebbe dovuto essere presa in considerazione al riguardo. Solamente nel testo riformato, abbiamo l’indicazione del “ragionevole dubbio” quale limite al di là del quale scatta per il giudice il dovere di pronunciare condanna.

In definitiva, è necessario verificare se l’aggiunta in questione abbia o meno innovato il criterio per la condanna, ovvero se quella che era una ‘non-regola’ sia finalmente divenuta una regola424.

Cfr. CONTI, TONINI, Il diritto delle prove penali, seconda edizione, Giuffrè, Milano, 2014, 91 ss.

423 IACOVIELLO, Lo standard probatorio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in Cassazione, in Cass. pen., 2006, 3861.

424 CELLETTI, Considerazioni, anche di diritto comparato, sul canone del giudizio di colpevolezza (“al di là di ogni ragionevole dubbio”) dettato dall’art. 533, co. 1, c.p.p.m modificato dalla L. 20-02-2006 n. 46, in Il Foro ambrosiano, 2009 fasc.

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