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4. Natura e libertà nella Caratteristica antropologica

4.2. Il carattere della specie

La ragione è ciò che, «nel sistema della natura vivente» (KGS VII, 321; 216), con- traddistingue il genere umano. Dal punto di vista antropologico, essa si manifesta in un «carattere che egli stesso [il soggetto] si procura, in quanto sa perfezionarsi secondo fini liberamente assunti, onde egli come animale fornito di capacità di ragionare (animal ra-

tionabile) può farsi da sé un animale ragionevole (animal rationale)» (KGS VII, 321;

216). Il modo di pensare che ciascun individuo sviluppa per sé esprime, dunque, il pro- prio dell’uomo. Nella citazione appena riportata si compie inoltre il passaggio dai prin- cipi, menzionati nell’ambito del modo di pensare, ai fini: i due aspetti sono complemen- tari (cf. la definizione della disposizione morale in KGS VII, 322; 217). In entrambi i casi, il modo di sentire viene sussunto sotto il modo di pensare.

Ampliando lo sguardo all’intera specie umana, ci troviamo di fronte al paradosso per cui è la natura stessa a predisporre nell’uomo un’istanza razionale, la quale consiste tut- tavia proprio nell’affrancarsi dalla natura. Distinguendo tra i termini latini «rationalis» e «rationabilis», Kant pone l’accento sul fatto che la razionalità è, al tempo stesso, per l’uomo, una natura e un compito da portare a termine. O meglio, nel caso dell’essere umano la «natura» ha un duplice significato: da una parte, si tratta della natura fisica che «ha posto e voluto nella specie umana il germe della divisione» (KGS VII, 322; 216) e distingue, in questo senso, gli esseri razionali finiti, quale è anche l’uomo, entro la più generale «idea di esseri razionali in genere possibili sulla terra» (KGS VII, 322; 216); dall’altra, si tratta della natura razionale che dall’uomo «trae l’unione o almeno il continuo progresso verso di essa» (KGS VII, 322; 216; cf. inoltre KGS VII, 329; 224 e KGS VII, 331; 227) e contraddistingue, in questo modo, l’essere umano tra i viventi54.

54 Nella definizione sopra menzionata, che include un riferimento alla razionalità come essenza e co-

me fine, Sturm rintraccia la risposta alla domanda «cosa è l’uomo?», la quale identificherebbe così non soltanto la trattazione della Didattica, alla quale è esplicitamente riferita nella nota a margine entro il Ma- noscritto Rostock H, ma anche il tema dell’intera Antropologia e della filosofia in generale. Cf. I. KANT, Logik, KGS IX, 25. Cf. T. STURM, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, 407. Anche Martinelli

rintraccia nella convergenza su scala cosmica della natura umana con la moralità, nonostante la loro di- stinzione a livello fattuale, il contributo specifico e imprescindibile dell’Antropologia alla filosofia. Cf. R. MARTINELLI, Uomo, natura, mondo: il problema antropologico in filosofia, 67-83. Sull’antropologia come orizzonte di senso della filosofia kantiana cf. P. CHIODI, «Introduzione»;

G. WEILER, «Kant’s question: what is man?» e G. M. TORTOLONE, «Problemi di antropologia kantiana».

Sulla storia dei termini latini «rationabilis» e «rationalis» cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), 469. Sturm insiste sul rifiuto di una lettura me- ramente fisiologica della natura umana, dovuta non tanto all’inesattezza della scienza medica quanto alla sua insufficienza. Cf. T. STURM, «Why did Kant reject physiological experiments in his anthropology?».

La problematicità della natura umana è rilevata anche da P. MANGANARO, L'antropologia di Kant, 270. Van de Pitte osserva giustamente che, se la ragione fosse nell’uomo – come l’istinto nell’animale – un au- tomatismo, allora ci sarebbe ben poco da distinguere tra uomo e animale. Il proprium dell’Antropologia sarebbe, invece, quello di rivelare, a partire da un’analisi degli elementi costitutivi dell’essere umano, la

Mentre il secondo tipo di natura pone all’uomo il fine, nella forma di un’idea, il pri- mo tipo impone, di fatto, i mezzi tramite i quali il fine deve essere raggiunto: questi non consisteranno in un immediato cambiamento, bensì in un «incivilimento progressivo, quand’anche con parecchio sacrificio delle gioie della vita» (KGS VII, 322; 217). Una «suprema e per noi inattingibile sapienza» (KGS VII, 322; 217), secondo Kant, guida un «perfezionamento» (KGS VII, 322; 217) dell’uomo attraverso i suoi limiti55. Questo processo si articola in tre momenti: il coltivarsi, il civilizzarsi e il moralizzarsi (cf. an- che KGS VII, 324-5), nei quali si realizzano, progressivamente, l’attitudine tecnica, quella pragmatica e quella morale del genere umano (cf. KGS VII, 322; 217). Anche in questo caso, il primo termine della bipartizione (quello della natura, in opposizione alla ragione) si frammenta in due aspetti (quello della cultura e quello della civiltà, dalla par- te del processo di perfezionamento; quello tecnico e quello pragmatico, dalla parte delle disposizioni), dando luogo così a una tripartizione56.

finalità dell’uomo e con questa anche quella della filosofia kantiana. In questo senso, quella kantiana sa- rebbe un’antropologia prescrittiva e persino creativa. Cf. F. P. VAN DE PITTE, «Introduction», XI-XXII.

55 In questo senso anche ogni «innere oder äußere Krieg» (I.KANT, Anthropologie, KGS VII, 330;

225), per quanto sia «ein großes Übel» (ibidem) assume i contorni di un «Maschinenwesen der Vorse- hung» (ibidem). La questione è qui se i limiti dell’uomo siano essenziali al suo processo di perfeziona- mento (in questo caso la divisione stessa sarebbe un mezzo per raggiungere il fine) o se, diversamente, ta- li limiti costituiscano soltanto un dato di fatto, nonostante il quale una suprema sapienza consentirebbe al genere umano di raggiungere comunque il proprio perfezionamento (in questo caso la divisione non sa- rebbe un mezzo, ma determinerebbe la natura dei mezzi per raggiungere il fine). Questo problema ha a che fare con il tipo di autonomia che pertiene alle determinazioni eteronome e, in ultima analisi, con il problema della libertas indifferentiae. Su questo problema cf. T. STURM, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, 457-9. Diversamente da Sturm, Wilson interpreta la stessa dimensione sociale come parte della lettura teleologica della figura umana. Cf. H. L. WILSON, Kant's pragmatic anthropology, 43-59.

Nel germe della divisione è stato rintracciato l’equivalente storico-antropologico del principio fisico di at- trazione e repulsione. Cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), 470. Sulla naturalezza della tendenza al male, cf. I. KANT, Die Religion, KGS VI, 28-32; 91-9 e 32-4; 101-5. Il tema del sacrificio richiama alla predilezione per la forma negativa nel caso del ca- rattere morale. Oltre a un riferimento biblico (Mt 19, 29), questi concetti si riferiscono al tema dell’ascesi che Kant ha sviluppato sia in ambito pratico, in relazione alla purezza della legge morale, che, nell’estetica, in relazione al compiacimento per il sublime. Cf. I. KANT, Kritik der praktischen Vernunft, KGS V, 72-8; 159-71; inoltre ID., Kritik der Urteilskraft, KGS V, 269; 117-8. Sul carattere progressivo

della conversione morale insiste lo scritto su La religione: cf. I. KANT, Die Religion, KGS VI, 47-8; 135-

7. Alla nozione di «conversione» si connette quella di «grazia divina» e di «perdono umano»: per una comprensione della conversione in base a quest’ultimo concetto cf. G. E. MICHALSON, «Moral regenera- tion and divine aid in Kant»; D. SUSSMAN, «Kantian forgiveness». La processualità della natura umana è ricondotta da Sturm alla coesistenza di due fattori contraddittori, che invece di annullarsi vicendevolmen- te si integrano storicamente: il bisogno di riconoscimento degli altri e l’amor proprio che ci mette gli uni contro gli altri. A loro volta, questi fattori retrocedono, da una parte, alla centralità della rappresentazione empirica dell’io e alla costanza nelle tendenze naturali dell’uomo e, dall’altra, all’incostanza dell’esperire e dell’agire umano. Cf. T. STURM, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, 432-49. Sulla mescolan-

za di fattori empirici e razionali nello studio kantiano del genere umano cf. anche S. A. KOCHUPURAYIL,

Pure morals for empirical beings: the anthropological aspects in Kant's Ethics. Anche Cohen riconosce la coesistenza di una matrice intenzionale (libera) e di una funzionale (naturale) nell’uomo. Cf. A. COHEN, Kant and the human sciences.

56 È su questa tripartizione che fa leva la distinzione dell’antropologia pragmatica dalla psicologia

empirica di tradizione wolffiana e da ogni altra disciplina teoretica, secondo Kim. Cf. S. B. KIM, Die Ent- stehung der kantischen Anthropologie und ihre Beziehung zur empirischen Psychologie der wolffschen Schule, 126 e 150 nota 497. La corrispondenza tra le fasi del perfezionamento e le tre disposizioni non è perfetta. Lo sviluppo della disposizione tecnica è infatti una forma di cultura, ma anche di civilizzazione.

L’attitudine tecnica riguarda la capacità di garantirsi i mezzi per il proprio sostenta- mento e, in questo modo, la conservazione della specie. Essa implica una capacità «meccanica» (KGS VII, 322; 217), che tuttavia nell’uomo è sempre «unita a coscienza» (KGS VII, 322; 217). Kant si disinteressa qui di questioni di antropologia fisica (cf.

KGS VII, 322; 217), ovvero di «archeologia della natura» (KGS VII, 323; 218)57. Egli

si interroga invece circa «un istinto naturale» (KGS VII, 322; 217) di cui i primi uomini dovevano essere dotati, per supplire al mancato sviluppo della tecnica: sotto questo a- spetto, in comparazione agli altri esseri viventi l’uomo appare, infatti, manchevole e

meno dotato (cf. a questo proposito KGS IV, 395-6 e KGS V, 61-2; 133-5)58. La natura

lo ha però equipaggiato «nella forma e organizzazione della mano, delle dita e delle e- stremità delle dita» (KGS VII, 323; 218) affinché potesse prestarsi «non per una sola specie di lavoro manuale, ma in genere per tutti i lavori» (KGS VII, 323; 218)59. Il tema della raffinatezza della forma umana introduce così la riflessione sull’attitudine pragma- tica della specie.

L’attitudine pragmatica è quella a «servirsi degli altri uomini [e di sé] per i propri fi- ni» (KGS VII, 322; 217). Essa si articola in due aspetti, di cui l’uno propedeutico all’altro: quello della cultura e quello della civilizzazione (cf. KGS VII, 323; 218 e KGS VII, 321-2; 216). Entrambi gli aspetti lavorano sulle «qualità sociali» (KGS VII, 323; 218) dell’uomo, ovvero sulla sua «tendenza naturale […] a uscire nella vita associata fuori dalla rozzezza del puro egoismo, e a diventare un essere […] atto a vivere con gli altri» (KGS VII, 323; 219). L’attitudine al vivere con gli altri [Eintracht] – come anche quella a una «costituzione pacifica» (KGS VII, 331; 226) – è l’altra faccia della propen- sione alla discordia [Zwietracht], aspetti co-originari e radicati nella duplicità della na- tura umana, insieme sempre razionale e finita. Kant mette qui in questione l’interpretazione del testo rousseauiano per cui il suo autore avrebbe sostenuto la supe- riorità della natura rispetto alla civiltà. A ciò Kant aggiunge la propria personale rifles- sione: riprendendo le osservazioni sulla disposizione tecnica, Kant sottolinea che dal punto di vista naturale l’uomo è svantaggiato rispetto agli altri animali e, di conseguen-

Lo è, tuttavia, anche la coltivazione del sapere e la cura della società, che esprimono però la disposizione pragmatica. Sulla matrice aristotelica della distinzione tra tecnica e pragmatica, cf. R. BRANDT, Kritischer

Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), 473. Una tripartizione simile si ri- trova in I. KANT, Die Religion, KGS VI, 26-8; 85-91.

57 Su questo tema cf. I. KANT, Recension von Moscati, KGS II, 421-5.

58 Nella questione dell’inizio della storia naturale e umana confluiscono il tema della creazione e quel-

lo dell’olismo della specie umana. Cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in

pragmatischer Hinsicht (1798), 475. Cf. il riferimento alla prima coppia «mit völliger Ausbildung mitten unter Nahrungsmitteln von der Natur hingestellt». I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 322; 217 [corsivo mio]. Cf. inoltre il riferimento a una concezione teleologica, quasi personificata della natura ivi, 327 nota; 223 nota. Kant postula qui che due epoche si siano succedute nella storia dell’uomo, quella naturale e quella civile – segnata dall’avvento dell’istituzione domestica – senza tuttavia pronunciarsi sul passaggio dall’una all’altra. In aggiunta a tutto ciò, Kant non esclude la possibilità di una terza epoca, che veda l’incivilimento di alcuni animali mammiferi. Più avanti, Kant cita l’ipotesi di pensare gli esseri umani come «von Einem Demiurgus entsprungene Menge Geschöpfe». Ivi, 331; 227 (si noti la «E» maiuscola in «einem»). Su questi temi cf. anche J. H.ZAMMITO, Kant, Herder and the birth of Anthropology, 302-7.

59 Brandt osserva correttamente che manca, in questo punto, una riflessione sul rapporto tra l’uomo e

il prodotto del suo lavoro, che è un tema tipicamente moderno, sollevato dall’introduzione nell’ambito la- vorativo della macchina: Kant si riferisce, infatti, qui al lavoro esclusivamente come lavoro manuale. Cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), 478-9.

za, «solo nella specie» (KGS VII, 324; 219) egli può raggiungere la sua «piena destina- zione» (KGS VII, 324; 219). Si tratta, però, di una destinazione morale, non naturale. La peculiarità della concezione kantiana è quella di superare la prospettiva rousseauia- na: la «specie» per Kant non è solo la dimensione civile della vita associata – che Rous- seau avrebbe in un primo momento rifiutato, e poi riconosciuto come necessaria e tutta- via, per Kant, non ancora sufficiente alla moralità (cf. la distinzione tra accostumato [gesittetes] e morale [sittliches]: KGS VII, 323; 218-9) – ma è il «progresso in una serie indefinita di generazioni, dove il termine finale gli rimane sempre davanti, ma la ten- denza verso di esso, pur essendo spesso impedita, non può mai regredire del tutto» (KGS VII, 324; 219)60. Tramite il riferimento alla «piena destinazione» dell’uomo, ov-

60 Kant sembra tuttavia adombrare una deroga a questa tesi, nel caso – a dire il vero, abbastanza remo-

to – che intervengano «rivoluzioni naturali» (cf. I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 329; 225; cf. anche

ivi, 327 nota; 223 nota) o in quello, meno remoto a dire il vero, di «barbarie» (ivi, 326; 221) umane che sortiscono il medesimo effetto (il riferimento è, presumibilmente, alla Rivoluzione Francese in questo ca- so). Fatta questa eccezione, la coesistenza di una natura razionale, eppure finita, consente che il cammino dell’uomo – diversamente da quello della natura – sia unidirezionale, ma soltanto – come è stato anticipa- to attraverso il tema del sacrificio – a caro prezzo. Alcune delle difficoltà cui va incontro l’educazione al- la moralità e, in generale, il perfezionamento dell’uomo nei suoi tre stadi, a causa delle restrizioni poste dalla natura, sono sottolineate qualche pagina più avanti. Cf. ivi, 325-30; 220-5. È per questa ragione che l’educazione consiste «sowohl in Belehrung als Zucht». Ivi, 323; 219. Essa è, in fin dei conti, un processo di «Schwächung» (ivi, 327; 222) dell’animalità dell’uomo e procede sempre «von der Kultur zur Morali- tät» (ivi, 327-8; 223), al contrario di quanto prescriverebbe la ragione. In particolare, la civilizzazione prende la forma di una «costituzione sociale» (ivi, 327; 222), che per Kant è repubblicana (cf. ivi, 331; 226) in una società cosmopolitica (cf. ivi, 331; 227 e 333; 228), e quella dell’«insegnamento religioso» (cf. ivi 328; 223 e 332 nota; 228 nota). Sul ruolo pedagogico della costituzione repubblicana e sul signifi- cato, non solo storico ma anche morale, della pace perpetua cf. G. F. MUNZEL, «Reason's practical idea of

perpetual peace, human character, and the pedagogical function of the republican constitution». Il proces- so di civilizzazione si inserisce tra due estremi. Da una parte, l’intervento della Provvidenza «von oben herab» (I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 328; 223) che si rivolge al genere umano «im Ganzen [...], d.

i. kollektiv genommen (universorum), nicht aller Einzelnen (singulorum), wo die Menge nicht ein Sys- tem, sondern nur ein zusammengelesenes Aggregat abgiebt» (ibidem; infatti all’opera della Provvidenza cerca di avvicinarsi il più possibile la costituzione civile degli uomini, nell’organizzare questi ultimi come un alveare e non come un gregge: cf. ivi, 330; 225). La distinzione tra «sistema» e «aggregato» sarà cen- trale nello studio delle idee della ragione, come emergerà nel Capitolo VI di questo lavoro. Kant menzio- na inoltre più avanti la distinzione tra costitutivo e regolativo, cf. I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 331;

227. Per tramite della Provvidenza avviene, nel corso delle generazioni, la «Hervorbringung des vom Menschen nicht beabsichtigten, aber, wenn es einmal da ist, sich ferner erhaltenden Guten aus dem inner- lich mit sich selbst immer sich veruneinigenden Bösen». Ivi, 328; 224. In questo modo, è garantita la «Erhaltung der Species organisierter, an ihrer Zerstörung beständig arbeitender und dennoch sie immer schützender Naturwesen» (ibidem). Dall’altra parte, c’è il guadagno della felicità, che la moralità lascia sperare ma di per sé non assicura (cf. ivi, 326; 221 e 328-9; 224). Entro questi due poli, ciascuno deve la- vorare «come può» (ivi, 329; 224), nella fiducia di un infinito progresso. Tortolone interpreta il processo di realizzazione del bene attraverso il male come «dialettico». Cf. G. M. TORTOLONE, Esperienza e cono-

scenza. Aspetti ermeneutici dell'antropologia kantiana, 151. Sottolinea il ruolo della società nella mora- lizzazione dell’uomo cf. I. KANT, Die Religion, KGS VI, 95-100; 229-39. Sulla lettura che Kant offre di Rousseau cf. ancora ID, Anthropologie, KGS VII, 326-7 e ID., Mutmaßlicher Anfang der Menschenge-

schichte, KGS VIII, 116 nota. Brandt suggerisce giustamente che il passaggio da una lettura ottimistica, per cui Rousseau avrebbe previsto la possibilità di riconciliare cultura e natura, a una lettura pessimistica, per cui la società civile avrebbe una funzione terapeutica nel gestire un rapporto altrimenti non componi- bile, sarebbe dovuto a un cambiamento di idee in Kant piuttosto che a un ritorno sulla lettera rousseauia- na. Cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798),

vero al «termine finale» del suo progresso Kant introduce alla riflessione sulla disposi- zione morale.

Quest’ultima, infine, è una disposizione ad «agire secondo un principio di libertà conforme a leggi nei rapporti con sé e con gli altri» (KGS VII, 322; 217). In essa si in- nesta, propriamente, il carattere come modo di pensare. Condizione della disposizione morale è l’originaria bontà del genere umano, cui alludeva anche il confronto con Rous- seau nella discussione della disposizione pragmatica. Riportando in estrema sintesi quanto nello scritto su La religione viene diffusamente argomentato (cf. KGS VI, 26- 44; 85-127), Kant sostiene qui che

un essere fornito di ragion pratica e di coscienza della propria libertà […] si scorge in tale coscienza […] sotto una legge del dovere, e avverte (con un sentimento che si dice morale) che con lui o, per mezzo di lui, con altri si è giusti o ingiusti. Ora questo è già il carattere in- tellegibile dell’umanità in genere e in questo senso l’uomo è secondo le sue disposizioni in- nate (per natura) buono. Ma siccome poi l’esperienza anche dimostra che in lui c’è una ten- denza a desiderare attivamente ciò che è illecito, pur sapendo che è illecito, cioè il male, tendenza questa che si manifesta immancabilmente, non appena l’uomo incomincia a far uso della propria libertà, onde essa può considerarsi come innata, così accade che l’uomo nel suo carattere sensibile si possa giudicare anche come cattivo (per natura) (KGS VII, 324; 219).

L’originaria bontà del genere umano è dunque connessa a ciò che distingue l’essere umano da ogni altro essere vivente, vale a dire la natura razionale della facoltà di desi- derare. Sulla bontà del genere umano riposa infatti la possibilità di sviluppare, nel sus- seguirsi delle generazioni e quindi, talvolta, anche nella dimensione personale, la dispo- sizione morale e, con ciò, di portare a compimento il destino dell’uomo in quanto creatura razionale. Alla moralità l’uomo è chiamato dalla sua stessa natura, nella mora- lità egli è chiamato a distinguersi dagli altri esseri viventi. Avere un carattere significa, perciò, per l’essere umano, propriamente e primariamente, sviluppare un modo di pen- sare. Viceversa, il modo di pensare testimonia la destinazione morale dell’essere umano e la sua originaria disposizione al bene (cf. KGS VII, 329; 224)61. Anche la cattiveria del genere umano sembrerebbe essere originaria – e nello stesso senso determina la «necessità» (KGS VII, 330; 225; cf. inoltre KGS VII, 331; 226) di ogni azione fatta per ripararla – ma in un senso diverso dalla bontà: la cattiveria, infatti, sembra essere legata alla natura finita dell’uomo, che è un fatto contingente. In altri termini, «il male […] è propriamente senza carattere» (KGS VII, 329; 224). Ciò non toglie, come è stato già detto nel caso della malvagità personale, che il male sia comunque imputabile (cf. KGS VII, 328; 223). La necessità del bene e la contingenza, seppur mai del tutto eliminabile, del male sono, appunto, i due poli tra i quali si colloca la discussione che seguirà nei prossimi capitoli.

491. Sul ruolo prudenziale della fede storica, cf. S. R. PALMQUIST, «Kant’s prudential theory of religion:

the necessity of historical faith for moral empowerment».

61 Sulle reminiscenze platoniche, neoplatoniche e tomiste del concetto di «carattere intellegibile»

cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), 485-6. Ad ogni modo, i prossimi capitoli mostreranno che questo concetto acquisisce contorni precisi entro la cornice della filosofia trascendentale, con particolare riferimento alla prima Critica. Si chiarisce dunque fin da ora che il carattere intellegibile costituisce un concetto comune dell’ambito teoretico e pratico. Tor- tolone osserva giustamente che l’atemporalità del carattere intellegibile si traduce nell’Antropologia nella indefinita estensione del susseguirsi delle generazioni, il tempo proprio dello sviluppo del destino umano. Cf. G. M. TORTOLONE, Esperienza e conoscenza. Aspetti ermeneutici dell'antropologia kantiana, 150.

L’antropologia pragmatica è dunque non soltanto la fonte di una «certezza morale» (KGS VII, 329; 225) circa la destinazione finale dell’essere umano, ma apre anche a una concezione problematica del rapporto tra libertà e natura. La lettura della Caratteri-

stica antropologica sembra – a questo proposito – aver suscitato domande, piuttosto che

fornito delle risposte. Da una parte, la moralità rappresenta il compimento della natura