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4. Natura e libertà nella Caratteristica antropologica

4.1. Il carattere della persona

4.1.3. Modo di sentire e modo di pensare

La bipartizione tra modo di pensare e modo di sentire si appunta su due aspetti: quel- lo della originarietà e quello della malvagità. Il secondo comporta la distinzione tra bon- tà e fermezza d’animo, lasciando così nuovamente emergere una struttura tripartita a partire dalla bipartizione originale.

Originarietà. Riguardo al primo aspetto, il soggetto del quale si può dire che abbia

un carattere «attinge a fonti della condotta aperte da lui stesso» (KGS VII, 293; 185). In questo senso, il carattere si distingue dalla mera emulazione del comportamento altrui, quand’anche quest’ultimo fosse buono, come pure si distingue dalla stravaganza, ovve- ro dall’adozione di un comportamento per il solo fatto che questo si differenzi da quello

I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 292, 184. Il sentimento del «rispetto» è un sentimento del tutto pecu- liare, essendo infatti l’unico sentimento capace di manifestare la legge morale. Esso tuttavia è sempre conseguenza della legge, e non la produce. Cf. ID., Grundlegung, KGS IV, 401 nota e 459-60 e ID., Kritik

der praktischen Vernunft, KGS V, 71 e ss.; 157 e ss. Nella Critica del giudizio, Kant menziona l’ammirazione come termine di paragone per descrivere il piacere suscitato dall’accordo della forma degli oggetti con il principio di finalità formulato dall’intelletto. Cf. I. KANT, Kritik der Urteilskraft, KGS V,

187; XL. Per un approfondimento storico-filologico del «modo di pensare» [Denkungsart] inteso nel si- gnificato morale cf. inoltre G. F. MUNZEL, Kant's conception of moral character: the «critical» link of

morality, anthropology and reflective judgment, 23-70. Manganaro osserva, inoltre, che, tramite il riferi- mento ai principi, il concetto di «carattere» si connette a quello di «virtù». Cf. P. MANGANARO, L'antro- pologia di Kant, 267. Quest’ultima è tuttavia da intendere nel senso kantiano piuttosto che in quello ari- stotelico, come strettamente legata alla morale pura dell’imperativo categorico. Cf. I. KANT, Metaphysik

der Sitten, KGS VI, 394.

48 A identificare nella descrizione kantiana una gradualità è R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu

Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), 422-3. Per rimanere entro la concezione kantiana dell’agire, anche chi si trova nel terzo e ultimo livello agisce in base a una massima. Cf. I. KANT, Grun-

dlegung, KGS IV, 400 nota e ID., Kritik der praktischen Vernunft, KGS V, 19; 35. Ciò che però manche- rebbe, in questo caso, sarebbe un principio stabile cui la massima possa ricondursi: egli sarebbe, cioè, di- sposto ad ogni momento ad abbracciare una massima diversa per il proprio agire. Emergerà, infatti, nel seguito che, sebbene tutte le massime contengano una pretesa all’universalità, ad avere cioè forma di leg- ge, non tutte di fatto sono universali, sono cioè principi oggettivi (qualcosa di simile al fatto che tutti i giudizi contengano una pretesa all’oggettività, sebbene non tutti i giudizi siano oggettivi). Ad ogni modo, quanto detto finora lascia così presumere che non a tutti, bensì soltanto ad alcuni, è possibile attribuire il carattere in senso proprio.

degli altri49. Ma – ciò che è più importante – pur non potendo essere demandato ad al- cuno, il carattere «poggia su principi che valgono per tutti» (KGS VII, 293; 185). In al- tri termini, lo si potrebbe definire «originario» piuttosto che «originale»50.

In tema di originarietà, si pone la questione dell’acquisizione del carattere. Kant offre una suggestiva descrizione di questo momento, che merita di essere riportata integral- mente:

L’uomo che ha coscienza di avere un carattere nel suo modo di pensare, non lo ha dalla natu- ra, ma deve sempre esserselo conquistato lui. Si può però anche ammettere che l’atto che fonda il carattere, simile a una specie di nuova nascita, costituisca per così dire una promessa solenne che l’uomo fa a se stesso, rendendo per lui indimenticabile, come un’epoca nuova, il giuramento e il giorno in cui questa svolta si produsse in lui. – Educazione, esempi, inse- gnamento non possono in genere produrre a poco a poco una tale fermezza e saldezza di principi, ma queste possono prodursi solo per mezzo come di un’esplosione, che ad un tratto succede al disgusto per l’instabile condizione dell’istinto. Forse son pochi quelli che hanno tentato questa rivoluzione prima dei trent’anni, e ancor meno quelli che l’hanno stabilmente compiuta prima dei quaranta. È un tentativo vano quello di voler diventare migliori a poco a poco; perché un’impressione svanisce mentre si lavora a un’altra; invece la fondazione di un carattere risiede nell’unità assoluta del principio interno della condotta in genere (KGS VII, 294-5; 186-7).

Il filosofo sembra riferirsi al passaggio dalla natura alla cultura, dalla disposizione naturale al temperamento, come a una cesura netta. Lo fa giustapponendo coppie di op- posti: «fonda»/«a poco a poco»; «a poco a poco»/«fondazione»; «fermezza e saldezza di principi»/«instabilità della condizione dell’istinto». I termini scelti per rappresentare questo evento, inoltre, evocano le immagini di catastrofi naturali o eventi cosmici («e- splosione», «rivoluzione»), grandi cambiamenti della storia («rivoluzione», «epoca nuova»), il piegare improvviso di un percorso («svolta»), senza escludere reminiscenze

religiose («nuova nascita», «promessa solenne», «giuramento»)51. Insomma, Kant iden-

tifica l’acquisizione di un carattere con un atto, del quale si conoscono l’anno – non

49 Kant riconosce, però, che anche un carattere autentico potrebbe essere percepito, forse anche can-

zonato, come una forma di stravaganza, nel caso in cui il male sia stato a tal punto incorporato da divenire criterio della normalità, consuetudine pubblica e moda. Cf. I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 293; 185.

50 Emergerà nel Capitolo VI del presente lavoro che l’originarietà, e insieme l’universalità, del caratte-

re tendono all’originarietà, e all’universalità, del principio morale, tramite il quale esso viene descritto nella Critica della ragion pratica. Come «fatto della ragione», infatti, il dovere si manifesta nella co- scienza morale del soggetto, mentre se si riferisse a qualche altro valore non sarebbe più un dovere, bensì un volere. Pur essendo un «fatto», esso ha una portata intersoggettiva, valida per ogni coscienza morale. Sulla distinzione tra volere e dovere cf. anche p. 71. In questo senso, l’originarietà del carattere morale non coincide, propriamente, con il darsi una regola, ciò che fa, come emergerà nel Capitolo VII di questo lavoro, il biologo nella conoscenza particolare della natura o, più propriamente, il genio nell’arte. Ma si tratta piuttosto, in ultima analisi, di determinarsi per, o contro il dovere morale (ove la contrarietà include i principi accidentalmente conformi al dovere).

51 Quest’ultimo aspetto è rilevato, per inciso, anche da R. MARTINELLI, «Antropologia», 46 nota 124.

Si tenga presente, fra l’altro, che nella Chiesa riformata, alla quale il movimento pietista – nel quale Kant era stato cresciuto – apparteneva, non è raro impartire il Sacramento del Battesimo in età adulta. (Ne è ri- prova il fatto che, nel Grande Catechismo, Lutero avverta l’esigenza di intervenire sul Battesimo dei fan- ciulli). Cf. M. LUTERO, Il Piccolo Catechismo – Il Grande Catechismo, 297-304. La possibilità di inter- pretare l’acquisizione del carattere come un battesimo morale è menzionata anche da G. M. TORTOLONE, Esperienza e conoscenza. Aspetti ermeneutici dell'antropologia kantiana, 149. Sul concetto di rivoluzione insiste F. KAULBACH, «Weltorientierung, Weltkenntnis und pragmatische Vernunft bei Kant», 75.

prima del trigesimo, più spesso del quadrigesimo di vita – e addirittura «il giorno». L’acquisizione di un carattere sembrerebbe, così, corrispondere a quella «uscita dallo stato di minorità» di cui Kant parla, nell’Antropologia, in riferimento alla facoltà di co- noscere (cf. KGS VII, 229; 118), oltre che nel celebre scritto sull’Illuminismo (cf. KGS VIII, 35)52.

Malvagità. Nel caso essa riguardasse il carattere in senso proprio, si tratterebbe di

una «malvagità satanica» (KGS VII, 293; 185), poiché «l’uomo non approva mai il ma- le in sé, e quindi non vi è propriamente una malvagità derivante da principi, ma solo per oblio dei principi» (KGS VII, 293-4; 185-6). Non può che trattarsi, pertanto, nel caso dell’uomo, di una «disposizione del temperamento» (KGS VII, 293; 185), la quale rive- la pur sempre una certa «forza d’animo» (KGS VII, 293; 185) ovvero «fermezza infles- sibile in una decisione presa» (KGS VII, 293; 185): si tratta, però, di qualità contingenti, le quali non dipendono dal fatto che la massima sia fondata su un principio, bensì sono riconducibili alla predisposizione del soggetto ad attenersi a un percorso intrapreso. Si tratta della capacità di avere se stessi «in proprio potere» (KGS VII, 287; 180) di cui Kant ha parlato nel caso del temperamento. Essa è comunque preferibile alla bontà d’animo (cf. KGS VII, 293; 185), nella misura in cui quest’ultima, appartenendo, come si è visto, alla dimensione puramente naturale, è anche estremamente mutevole53. Quando invece una forza d’animo si aggiunga alla semplice bontà di quest’ultimo, si darebbe un caso di «grandezza d’animo» (KGS VII, 293; 185). Quest’ultima costitui- rebbe senz’altro una condizione necessaria, ma non sarebbe in alcun modo sufficiente per attestare un carattere morale. Malvagità e magnanimità sono, dunque, due possibili espressioni del temperamento, mentre la bontà d’animo esprime una condizione natura- le. Tra i due livelli, quello della magnanimità e quello della bontà d’animo, emerge una distinzione soltanto quantitativa – che sembrerebbe rimessa alla convinzione con la qua- le si sostiene un determinato atteggiamento – mentre tra entrambi i livelli e quello del carattere morale intercorre una distinzione qualitativa. Il caso della malvagità (o, vice- versa, della magnanimità) costituirebbe una via di mezzo tra la bontà d’animo e il carat- tere morale, corrisponderebbe al livello intermedio dell’agire secondo principi falsi, col- locato tra l’agire secondo principi e l’agire senza principi, e contribuirebbe a spiegare per quale ragione Kant abbia introdotto il valore d’affezione tra il valore interno e quel- lo di mercato. Quanto detto finora sul carattere morale conferma una certa ambiguità nella concezione kantiana, secondo la quale il carattere morale è irriducibile a ogni for- ma di sensibilità – in questo senso e quasi sulla scorta dei comandamenti biblici, Kant

52 Nell’ambito della conoscenza teoretica, Kant aveva indicato i vent’anni per l’acquisizione

dell’abilità, i quaranta per l’acquisizione della prudenza, i sessanta per l’acquisizione della saggezza. Cf. I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 201; 87-8. Sul lento processo di acquisizione della saggezza cf. inoltre ivi, 278 nota; 171 nota. Ad ogni modo, nessuna condizione epistemica sembra dover essere presupposta dall’acquisizione di un carattere. Cf. R. BRANDT, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropo-

logie in pragmatischer Hinsicht (1798), 429. Ciò non toglie che anche l’acquisizione di un carattere pre- supponga delle condizioni, di altro tipo – antropologiche e materiali – la realizzazione delle quali colloca il discorso sul carattere nella prospettiva del susseguirsi delle generazioni. Tra queste, a livello individua- le, rientra senz’altro la capacità della filosofia di mostrare la virtù «ganz in ihrer schönen Gestalt». Cf. I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 295; 187.

53 Questo secondo aspetto – quello, cioè, per cui, pur non esprimendo il carattere, né la libertà, in sen-

so proprio è primario, anche la malvagità è libera, e con ciò è moralmente imputabile – costituisce il cen- tro del primo saggio nello scritto su La religione. Cf. I.KANT, Die Religion, KGS VI, 38 e ss.

trova più semplice esprimere i suoi principi «in forma negativa» (KGS VII, 294; 186), indicando ciò che non si deve fare piuttosto che ciò che si deve – e tuttavia non esclude contenuti materiali, così come non esclude che il temperamento e il carattere naturale svolgano nei suoi confronti una funzione propedeutica. Questa concezione emerge in maniera definitiva nel caso del carattere della specie.